Da sempre, quando un popolo sottoposto a quella particolare forma di colonialismo che possiamo definire “interno” tenta di scrollarsi di dosso il dominio, il controllo, l’oppressione di un qualche Stato, in genere è lo Stato stesso a riesumare la vecchia scusa della “questione interna”. Come talvolta fanno anche, per lavarsene le mani, molti organismi internazionali (a meno che non si applichi un’altra formula, quella della “autodeterminazione a geometria variabile”).
Valeva per i baschi, anche in epoca franchista, così come per i tibetani e per i mapuche. Stupisce invece che a dirlo sia una componente del popolo medesimo. Eppure, proprio recentemente il primo ministro del governo regionale del Kurdistan del Sud (il Bashur), Masrour Barzani, non si è fatto scrupolo alcuno nell’attaccare la resistenza dei suoi fratelli curdi del PKK. Invitando espressamente l’amministrazioni autonoma del Rojava – e indirettamente anche i curdi del Rojhilat, il Kurdistan sotto amministrazione iraniana – a rompere ogni rapporto con l’organizzazione fondata da Ocalan.
In quanto – udite, udite – la questione curda in Turchia come in Iran sarebbe appunto una “questione interna”, rispettivamente di Ankara e di Teheran, una questione che questi due Paesi devono poter regolare per proprio conto. Arrivando a giustificare, qualora l’Amministrazione autonoma non rompesse i legami con il PKK, anche ulteriori attacchi turchi nel nord della Siria.
Parole testuali pronunciate pubblicamente durante una conferenza all’università di Duhok: “Lo Stato turco non ha alcun problema con il popolo curdo. Il suo problema è il PKK. Il Rojava deve interrompere i suoi rapporti con il PKK poiché queste relazioni infastidiscono la Turchia”. Ponendo così una pietra tombale su ogni principio di autodeterminazione dei popoli.
Da parte sua il PKK ha respinto al mittente l’avventata dichiarazione – un’eco fastidiosa di quanto Ankara va ripetendo in un modo o nell’altro ormai da 40 anni – definendolo un “portavoce dello Stato turco”. Oltre che un ingrato, se pensiamo che fu soprattutto la lotta dei militanti del PKK, caduti a migliaia, a impedire l’occupazione del Bashur da parte dello Stato Islamico.
In un comunicato emesso dal comitato delle relazioni estere, si può leggere che “la lotta del popolo curdo per la libertà continua a crescere da un parte, mentre dall’altra sono all’opera i nemici del Kurdistan e i collaborazionisti”.
Inoltre le vittorie riportate dal movimento di liberazione in risposta agli attacchi della Turchia starebbero “mettendo a dura prova lo Stato turco occupante”.
Le affermazioni di Masrour Barzani (esponente del Partito Democratico del Kurdistan, il PDK, dominato dal clan Barzani) enunciate “nel corso di un processo così fragile e storico spiegano perché la questione curda è rimasta senza soluzione fino a oggi e perché si è andata aggravando negli ultimi tempi”.
Ma quanto dichiarato dall’esponente del PDK sembra aver suscitato perplessità e ripulsa soprattutto tra la popolazione curda. Consapevole, anche per averla subita direttamente, di quanto sia foriera di lutti e distruzione la politica colonialista ed espansionista dei governi turchi.
Nel comunicato infine si ricorda che “i popoli curdo, arabo, assiro-cristiano, ceceno, turcomanno hanno dato più di diecimila martiri nella lotta contro Daesh” e che l’Amministrazione del nord e dell’est della Siria “è stata fondata su questi valori e sul loro sacrificio”.
Non ha quindi “ordini da ricevere”. Tantomeno velate minacce da un collaborazionista, vien da aggiungere.
Attriti in famiglia
Non è questa, purtroppo, l’unica ragione di attrito tra le organizzazioni curde.
Ormai da circa 50 giorni i familiari di alcuni guerriglieri caduti in combattimento (in un’imboscata tesa dalle forze speciali del PDK) stanno manifestando al posto di frontiera di Semalka, dal lato del Rojava. Si rivolgono ai dirigenti del PDK per ottenere finalmente la restituzione dei corpi dei loro cari.
Il tragico evento fratricida risale al 29 agosto quando cinque esponenti delle forze di difesa del popolo (HPG, braccio armato del PKK), membri di una pattuglia composta da sette elementi, vennero uccisi dai peshmerga del PDK nella regione di Khalifan, nel Kurdistan del Sud.
Stando al racconto di uno dei due sopravvissuti (che ha parlato di una vera e propria esecuzione), i caduti erano stati letteralmente crivellati di colpi.
I familiari richiedono in particolare la consegna dei corpi di due militanti originari del Rojava, Nesrin Temir e Yusif Ibrahim, e hanno l’appoggio del consiglio dei familiari dei martiri della regione di Cizir. Le delegazioni (composte soprattutto dalle madri) che hanno tentato di entrare in Bashur sono state sistematicamente bloccate dai miliziani del PDK.
Alle loro proteste in questi giorni si è unita anche una rappresentanza dell’unione degli insegnanti del Nord e dell’Est della Siria, che ha condannato sia l’imboscata (definendola un “tradimento”) sia la “collaborazione del PDK con la Turchia”.
Paventando i rischi di una guerra inter-curda innescata da operazioni come quella del 19 agosto che aveva tutte le caratteristiche di una provocazione.