Bruniquel (in provenzale Borniquèl) si trova nel dipartimento del Tarn-et-Garonne, regione di Languedoc-Roussillon-Midi-Pyrénées. Con le vicine Dordogna e Charente, siamo nel cuore della “paleoantropologia” francese, un territorio costellato di grotte, caverne e abri (i cosiddetti “ripari sottoroccia”) in cui abbondano le tracce abitative e i resti scheletrici del paleolitico medio e superiore.
Nei dintorni del paese si trovano parecchie aperture e ripari che hanno fornito materiale di grande interesse, come la Dame de Bruniquel, lo scheletro umano forse meglio conservato del periodo maddaleniano, scoperto nell’800. Altri manufatti maddaleniani abbondano in vari siti attorno all’abitato, segno che il territorio – come i circostanti – era particolarmente frequentato tra i 17 e gli 11 millenni fa dai rappresentanti di questa avanzata cultura del paleolitico superiore. I maddaleniani – antropologicamente Homo sapiens sapiens – sono infatti i raffinati pittori policromi di Altamira, Lascaux, Font de Gaume, Rouffignac, eccetera.
Ma, come spesso succede in questo paradiso terrestre della paleoantropologia e della paletnologia, accanto alle tracce del moderno cromagnonoide affiorano quelle del suo predecessore neandertaliano. È il caso della Grotta di Bruniquel, scoperta nel 1990, la cui imboccatura sovrasta il corso dell’Aveyron. Un’apertura inizialmente “piccola come la tana di un coniglio”, secondo gli esploratori della Société spéléo-archéologique de Caussade che l’hanno individuata, introduce a un primo tratto di circa 25 metri riempito fin quasi al tetto. La galleria seguente, che si inoltra nel sottosuolo per quasi 500 metri, presenta un fondo argilloso che conserva le tracce degli orsi che si rifugiavano nella grotta: decine di avvallamenti da letargo, impressioni di artigli, ossa.
Il sito più entusiasmante è però la sala delle “strutture”, a 330-340 metri dall’ingresso. Si tratta di un grande locale il cui pavimento ospita una serie di formazioni circolari costruite con circa 400 stalagmiti o sezioni di stalagmite.
Le concrezioni – chiaramente prelevate e disposte dall’uomo – mostrano i segni del fuoco: calcite annerita dalla fuliggine e spezzata dal calore, resti bruciati tra cui molte ossa. Ottimo materiale per tentare la datazione con carbonio 14, che nel 1995 diede un risultato di 47.600 anni utilizzando un osso combusto come campione. Si consideri che non furono fatte ulteriori prove e che la tecnica del radiocarbonio ha un limite d’impiego che si attesta attorno ai 50.000 anni.
La “riscoperta”
Nel 2013, un gruppo di ricercatori coordinati dalla soprintendenza del Midi Pyrénées, ha ripreso le ricerche paletnologiche effettuando rilievi 3D delle strutture, inventariandone i componenti, mappando i resti bruciati. Trattandosi di un sito archeologico “costruito” con materiali del tutto insoliti, l’equipe ha coniato il neologismo tecnico “speleofatti” per indicarne i componenti. In pratica, per speleofatto s’intende qualsiasi oggetto proveniente da una grotta (stalattite, stalagmite, cortina, colonna, canna d’organo, eccetera) che venga rimosso e utilizzato come elemento architettonico-decorativo o utensile. I 400 speleofatti di Bruniquel risultano ricavati da 112 metri di stalagmiti accuratamente spezzate in frammenti del peso di circa 2,2 tonnellate, quindi allineate, sovrapposte e intracciate in due, tre o quattro strati, con puntelli verticali a mo’ di sostegno sul perimetro esterno. Quanto ai fuochi, si pensa che servissero fondamentalmente come illuminazione.
Ma la scoperta più sorprendente viene dall’inaspettata antichità del sito. Con l’aiuto di scienziati cinesi e americani, i ricercatori hanno impiegato la moderna e raffinata datazione Uranio-Torio, stabilendo che le stalagmiti sono state spezzate 176.500 anni fa (più o meno 2000).
I neandertaliani arcaici di Bruniquel
Ci troviamo quindi di fronte a una situazione di questo tipo. Quasi 180.000 anni fa un gruppo di uomini frequenta una cavità profonda, non limitandosi a usare la sola, tradizionale zona atriale come riparo. Dato il periodo – il paleolitico medio – e la zona – l’Europa centrale – dovrebbe trattarsi di uomini di Neandertal, che abitarono il continente da 200 a 40mila anni fa, prima di iniziare a convivere con Homo sapiens sapiens e poi esserne sostituiti. Neandertaliani, oltretutto, del tipo più antico.
Questi uomini dunque sembrano utilizzare il sotterraneo non per motivi pratici e abitativi, ma possibilmente rituali o religiosi, e allo scopo costruiscono strutture abbastanza complesse. Rivelazioni le quali, più che stupire, dovrebbero sostenere e convalidare ciò che di anno in anno appare sempre più evidente: i neandertal – in parte antenati degli europei – erano uomini intelligenti, evoluti, capaci di astrazione, di espressione simbolica e dotati di un linguaggio complesso. Per quanto riguarda quest’ultima capacità esistono almeno tre indicatori. 1) L’archeologia: tecniche litiche (la “cultura musteriana”), manufatti, ornamenti, strategie di caccia, struttura sociale e, pare, persino la navigazione presuppongono una comunicazione simbolica avanzata. 2) L’anatomia: alcune caratteristiche antropometriche, come la conformazione dell’osso ioide, confermano la possibilità fisiologica di parlare. 3) La genetica: il DNA antico ricavato da alcune ossa provenienti dal nord della Spagna contiene geni collegati al linguaggio nell’uomo moderno.
È molto probabile che in futuro le nuove scoperte paletnologiche spostino sempre più in alto l’asticella della cronologia. Da decenni, infatti, lo studio della preistoria soffre di una forte autolimitazione temporale, che a stento la cautele scientifiche riescono a giustificare. La logica e il buon senso, prima ancora dei reperti, suggeriscono che l’ominazione è avvenuta assai prima di quanto ora “ipotizziamo ufficialmente”, che l’Homo sapiens (anche se non in senso strettamente tassonomico) probabilmente esiste da almeno un milione di anni, che lingue e culture hanno non migliaia ma decine o centinaia di migliaia d’anni. Oggigiorno si sta cominciando a prendere atto di questa cronologia lunga, ma nemmeno molto tempo fa dai corsi accademici di paletnologia e paleoantropologia (ricordo personale!) si usciva con l’impressione che prima degli elleni si abitasse nelle caverne o che si fosse passati dalla clava alle piramidi. Difficile credere che, non tanto gli studiosi di preistoria, quanto molti archeologi classici, storici antichi, filosofi, eccetera, tendano a non chiedersi da cosa derivi l’eccelsa complessità speculativa dei greci – identica alla nostra – e non cerchino di riempire il nulla che li precede.
Per fortuna parecchie scoperte (anche se non tutte recentissime) hanno spostato nel neolitico l’inizio della civiltà urbana. È presumibilmente in città come Çatal Hüyük che si sviluppava il pensiero moderno, 5000 anni prima di Platone. E a loro volta i suoi abitanti avevano alle spalle un mondo che poteva vantare un formidabile centro monumentale come Göbekli Tepe, dove convenivano per motivi probabilmente religiosi gli abitanti di mezza Anatolia… e stiamo parlando di 10.000 anni prima di Platone, di mesolitico.
Cronologia lunga
L’allungamento della cronologia consente di mettere insieme concetti apparentemente diversi, come una facies paletnologica e un popolo. Per esempio, chi studiava la Civiltà di Golasecca negli anni ottanta difficilmente riusciva a dare un volto o una lingua a questi… produttori di urne cinerarie, mentre ora sappiamo che si trattava di celti e, persino, che erano gli antenati dei padani. Queste “etnie”, che in fondo abbiamo sempre considerato parte della storia o al massimo della protostoria, in realtà allungano le loro radici nel terreno più oscuro del neolitico e, per alcuni studiosi, del paleolitico.
Esiste infatti una teoria, detta Paleolithic Continuity Paradigm (Mario Alinei, Marcel Otte e altri), secondo la quale una lingua proto-indoeuropea esisteva già nel paleolitico superiore, e nel mesolitico si affacciavano le varietà linguistiche celtiche, germaniche, slave, eccetera. Malgrado alcune inevitabili incongruenze, il PCP sembra una visione di estremo buon senso. Naturalmente questo genere di teorie incontra sempre resistenze per via di un certo alone di progressismo che dal dopoguerra permea l’antropologia (l’antropologia è sempre permeata di qualcosa che non c’entra niente con la scienza). Basandosi su una forte convergenza tra lingua, facies archeologica e genetica, il PCP fa assomigliare troppo le popolazioni europee a “razze” monolitiche, mentre la sottolineatura di una sostanziale continuità etnica da 10 o 20.000 anni contrasta la teoria tanto di moda dell’invasionismo, per cui i popoli esistono soltanto come frutto di continui scambi, migrazioni, mescolamenti, e tutte le culture materiali provengono da qualche altra parte. Tutto ciò nella preistoria e nella protostoria non avveniva; non certo come è avvenuto nei secoli scorsi con la scoperta di nuovi continenti e la tecnologia dei viaggi, tantomeno come avviene adesso con le maree migratorie condotte con scientifica organizzazione.
Continuando con questa positiva saldatura all’insegna della cronologia lunga tra paletnologia e antropologia etnica, finiremo per ufficializzare che i pittori di Lascaux erano baschi. O che i misteriori costruttori di Göbekli Tepe erano ittiti di lingua indoeuropea o magari gli antenati dei curdi.
Ma soprattutto finiremo per avere qualche sorpresa dai neandertaliani. Già infuria da decenni la battaglia tra chi li considera Homo neanderthalensis e chi Homo sapiens neanderthalensis, ovvero una specie diversa dalla nostra piuttosto che una “razza” umana. Per ora le nuove tecniche di analisi basate sulla genetica annaspano tra le varie possibilità, e forse toccherà alla vecchia, cara antropometria e all’archeologia tradizionale dirimere la questione. Ma c’è da scommetere che vincerà la tesi del neandertaliano come co-antenato degli europei, nonché Uomo a tutto tondo…
Altre specie
Un altro aspetto interessante del “pensare” a uomini così antichi come a nostri simili (se non come a noi stessi) è che costoro possono avere incontrato e interagito con altre specie del genere Homo, trasmettendo queste esperienze attraverso le generazioni e trasformandole in miti e leggende. Molte comunità umane tramandano di un passato coabitato da giganti o, come i celti, da qualche “piccolo popolo”, senza contare i vari “uomini selvatici” del folklore alpino. E, certo, i tentativi di razionalizzare l’esistenza, anche se sotto un’altra forma, di folletti, elfi, gnomi, troll, sono operazioni più alla Peter Kolosimo che da paleoantropologi. Ma diventano immediatamente “scientifici” nel momento stesso in cui, cronologia e reperti alla mano, ci rendiamo conto per esempio che Homo floresiensis, scoperto solo nel 2003 in Indonesia, era un omino di un metro con un cervello di 380 cc, un terzo del nostro, ed esisteva ancora quando i nostri nonni dipingevano bisonti policromi sulle pareti di roccia. Magari i due non si sono mai incontrati, se non altro perché l’Uomo di Flores viveva su un’isola; ma quanti altri uomini di diversa specie che non abbiamo ancora trovato vivevano in Eurasia nel tardo pleistocene? Be’, almeno uno l’abbiamo appena scoperto: l’Uomo di Denisova. È vissuto in Siberia insieme con neandertaliani e sapiens fino all’altroieri, e dai pochi resti si capisce che geneticamente non è né l’uno né l’altro, ma del suo aspetto non sappiamo niente. Che effetto avrà fatto ai nostri diretti antenati? Come ne avranno parlato ai loro figli e ai figli dei loro figli? Come si sarà intrufolato in qualche remota tradizione sciamanica?