Campanile rittu e fieru
Puntatu come un stilettu
Signala a lu mondu interu:
Qui ci resta qualche tettu!
Avevo ascoltato e trascritto questa canzone, triste e fiera nello stesso tempo, molti anni fa a Corte, attraversando a piedi le montagne della Corsica. L’Isola di Granito: terra di antiche miserie, violenza e soprattutto emigrazione. Con l’inevitabile risvolto di ribellioni ricorrenti e aspirazioni indipendentiste.
Non avevo mai veramente compreso la commozione che pervadeva la voce di Giacumu Andreani, una sorta di Woody Guthrie corso, altrettanto tenero e ribelle. Il cantautore evocava l’immagine del campanile, ultima testimonianza tra i boschi di castagni della sopravvivenza del paesello dove era nato. Poco più di una contrada, abitato ormai quasi soltanto da donne anziane vestite di nero, con le vecchie abitazioni destinate a crollare o, peggio, a diventare pittoresche curiosità per turisti frettolosi.
Posso dire di averne compreso il significato soltanto dopo aver visto scorrere le immagini di centinaia di campanili (soprattutto cartoline e qualche foto da mezzo mondo) raccolte per anni con invidiabile pazienza da Rosa Sgarabotto di Vicenza. Nella ballata di Andreani e nei ricordi di Rosa il campanile, orgogliosamente slanciato contro il cielo, oltre che di fede, diventa testimonianza della storia e della presenza testarda di una comunità che resiste (o almeno resisteva, l’anagrafe purtroppo non perdona) a cui far riferimento e dove ritornare, magari solo con il pensiero, per ritrovare le proprie radici.
Le radici di Rosa rimangono profondamente aggrappate al gruppo di case denominato Casaleto alle pendici, modestissime, del montexeo dei Dalmaso, lungo la strada che da Casale porta a San Piero Intrigogna, ultimo paese prima di quel triangolo ancora verde denominato Boche del Tesena, alla confluenza tra il Bacchiglione e il Tesina. A San Piero la strada termina e quel campanile di mattoni chiudeva anche l’orizzonte di Rosa quando era piccina, negli anni tra la prima e la seconda guerra mondiale. Dall’altra parte era invece il campanile di Monte Berico che si stagliava contro il cielo marcando il profilo dei Colli Berici.
Una parte significativa dei suoi ricordi è poi legata alla chiesa e al campanile di Casale dove nel 1950 si era sposata con Leone (“Marcello”) Sartori.
Mi racconta che quando la chiesa venne ricostruita, era stato suo fratello Aldo a infilarsi dentro le nicchie dove avrebbero dovuto prendere posto le statue dei santi per prendere le misure. Adesso il nome di Aldo Sgarabotto è scolpito sulla stele posta davanti alla chiesa e dedicata ai caduti in Russia, Grecia e Albania. Insieme a quello di Danilo Sartori, fratello di Leone (e poi mi chiedono perché sono così antifascista…).
Poco tempo dopo aver finito le scuole elementari, anche per Rosa arrivò il momento di andare a lavorare in fabbrica, “al stabilimento”, cioè al Cotonificio Rossi di Debba che raccoglieva forza-lavoro, soprattutto donne, da tutta il territorio circostante, all’epoca quasi tutta campagna.
Rosa ricorda che molte sue compagne di lavoro venivano da Lumignano, altre da Lapio. Arrivavano in gruppo, in bicicletta o magari a piedi, anche d’inverno con le neve che fioccava.
Alla mia doverosa considerazione in merito allo sfruttamento di pura marca capitalista cui erano sottoposte, risponde che in realtà si riteneva fortunata: a quel tempo chi lavorava da Rossi non pativa la fame. Con una certa perplessità da parte mia (e nonostante i miei ripetuti tentativi di alimentare la sua “coscienza di classe”) aggiunge che anni fa, andando a piedi a Monte Berico, aveva incontrato il vecchio padrone del cotonificio, il famoso baron Rossi e si era fermata a salutarlo. E conclude: “El xe sta tanto contento e gentile”.
In tutti questi anni, anche dopo aver lasciato la sua vecchia casa (dove stavano in affitto), Rosa ha avuto un sogno, quello appunto di collezionare immagini, soprattutto cartoline, di campanili. Il primo in assoluto era stato quello di Caorle, rotondo.
Andata in pensione e con i figli e i nipoti ormai grandi, aveva potuto dedicarsi a una ricerca sistematica. “Li colleziono ormai da qualche decina di anni e quando sentivo che qualcuno stava per partire per un viaggio gli raccomandavo di portarmi una cartolina con il campanile”. Alcune vengono dall’Australia (dove erano emigrati parenti e amici, qualcuno anche da Casaleto), altre dall’Alaska o dal Sudamerica (i viaggi della figlia avventurosa). Qualche campanile da Derry, Belfast e Paesi Baschi (il figlio talvolta avventuriero). Dal Sudafrica e dagli Stati Uniti, dal Quebec e da altri angoli foresti grazie ai nipoti giramondo.
“Naturalmente”, spiega Rosa, “sono molto legata al campanile di Monte Berico, ma per me sono comunque tutti belli; mi fanno pensare a delle ‘sentinelle’ rivolte verso l’alto, vicine al cielo… Quando mi sento un po’ stanca prendo i miei album e sfogliandoli mi sembra di fare un lungo viaggio per il mondo tra chiese e campanili”.
Guardando la raccolta, scopro somiglianze impensate tra il campanile di San Francesco a Sottomarina e quello di Giazza nel cuore della cimbra Lessinia. Colpisce come un effetto speciale il colore rosso vivo della cuspide a punta di santa Geltrude in Val d’Ultimo, mentre appare sproporzionato il campanile di Notre-Dame de Granville (un ripensamento dell’architetto?) rispetto alla cattedrale. Quasi nascosta tra i faggi in veste autunnale, una chiesetta slovena dedicata alla Madonna di Loreto, poi incredibilmente ritrovata – identica – in un ex voto dipinto da un certo Tone Kralj in una chiesetta dell’Alaska; sovrastata dall’immensa mole del Catinaccio d’Antermoja, già imbiancato di neve, quella di San Cipriano costruita dai baroni di Piè intorno al 1580; illuminato dall’ultimo sole il piccolo monastero della Santissima Trinità sulla cima di una guglia delle Meteore – in Grecia – mentre il buio ricopre le ripide pareti e la valle sottostante; la candida mole del Sacré-Coeur di Parigi abbinata a quella di Monte Berico, entrambe assediate da torpedoni e pellegrini; confuso tra gli alberi il campanile del santuario della Madonna del Frassino a Peschiera del Garda; mentre sembra stiano per caderti in testa, quasi cattivi, i tre campanili della Chiesa della salute a Este.
E poi immagini da brivido: la bianca e slanciata “astronave” adagiata sulla terra ferita sopra la diga del Vajont o il campanile di Curon vecchia (ricoperta dall’acqua nel 1950) che spunta dalla superficie del lago artificiale a estremo monito…
Leggermente fuori norma, ma non per Rosa, le immagini di tre campanili particolari riunite nella stessa pagina: il campanile di Val Montanaia, il Campanile Basso del gruppo dolomitico del Brenta e la Gusela del Vescovà (prima della recente deturpazione: un altro tassello nella trasformazione della Montagna in divertimentificio) che dalla Schiara domina Belluno.
Tre guglie di pietra maestose che fendono l’aria, tutte rigorosamente sormontate da una croce. Come ogni campanile che si rispetti.
I campanili, socialmente utili
Sfogliando la vasta collezione di Rosa Sgarabotto, mi sono tornate alla mente le scampagnate di qualche anno fa, quando la campagna vicentina non era ancora completamente trasformata dal “miracolo economico del Nordest” in una triste poltiglia urbana, ricoperta da capannoni, centri commerciali, tangenziali e villette pretensiose. Senza scordare discariche, inceneritori e basi militari. A volte prendevo la bicicletta (bici normale, niente MB) e me ne andavo per stradine e stradicciole, magari anche qualche caresà e teràio (con la bici per mano).
Finivo per perdermi regolarmente e mi ritrovavo magari in riva alla Brenta o addirittura, una volta sola e per puro caso, nella mitica Trebaseleghe, località regolarmente evocata da mia nonna Pina (al secolo Evoli Marta, da giovane mondariso) quando voleva riferirsi a un luogo fuori dal mondo (“in tanta malora”). Perso tra i campi di sorgo, costretto a deviare in continuazione per la presenza di fossi e canali, riuscivo a mantenere l’orientamento solo grazie ai campanili che spuntavano tra le siese all’orizzonte. Con pazienza avevo imparato a riconoscerli. Inconfondibili quelli di Bertesina, di Carturo e di Colzè; più complicato distinguere il campanile di Gaianigo da quello di Grossa. Ebbi quindi modo di comprendere non solo l’indiscutibile utilità sociale delle svettanti cuspidi (oltretutto mi comunicavano l’ora giusta), ma anche l’importanza di un’altra loro funzione: identificare e caratterizzare i diversi paesi dotandoli di una propria identità.
A volte magari esagerando un pochettino. A mio modesto avviso il campanile “nuovo” di Lumignano è troppo alto, quasi in concorrenza con le pareti circostanti, mentre quello di Nanto con le statue dei quattro evangelisti pecca di presunzione (forse).
Un caso particolare quello di Fimon. La presenza dei due campanili è dovuta a un errore di calcolo (o almeno così me l’hanno raccontata all’osteria-birreria di “Carletto” Franzina). Al momento di cambiare le campane, quelle nuove risultarono troppo grandi e non entravano. Da ciò la necessità di costruirne un altro di maggiori dimensioni.
Vorrei concludere tornando alla ballata corsa.
È proprio rivedendo dopo tanti anni il “suo” campanile che l’emigrato ritrova se stesso, il proprio senso di appartenenza: “Tant’anni passati fora / Un t’hanu micca scambiatu”.
Un’affermazione che anche Rosa Sgarabotto potrebbe sottoscrivere. In tutti questi anni passati “fora”, lontana da Casaleto e San Piero Intrigogna, forse perché in ogni campanile ha sempre ritrovato il “suo”, ha saputo conservare i profondi legami, le raise, con quel piccolo mando antico. Preservando i preziosi ricordi di quando era bambina: il padre che portava le bèstie al pascolo o rabboniva il toro fuggito dalla stalla; la mamma che la portava a filò (veglia); il fratello Aldo che suonava la cornetta mentre lei segnava il tempo…