Avevamo già parlato di Cicek Kobane, nome di battaglia di Dozgin Temo. Catturata in territorio siriano nel corso dell’invasione di Sere Kaniye (ottobre-novembre 2019) da una gang di malavitosi jihadisti sul libro paga di Ankara, la coraggiosa donna curda è stata recentemente condannata all’ergastolo da un tribunale turco. La sua colpa, secondo il verdetto emesso il 23 marzo, “aver distrutto l’unità e l’integrità dello Stato turco e aver commesso omicidi”. Ovviamente, oltre che in merito ai presunti omicidi, sorge qualche dubbio su come abbia potuto la giovane curda “distruggere” o comunque danneggiare l’integrità, la sovranità dello Stato turco mentre combatteva contro l’ISIS in Rojava.
In sua difesa e sostegno è intervenuta direttamente Newroz Ehmed. La comandante delle YPJ (Unità di Difesa delle Donne) ritiene che quello contro Cicek Kobane sia un “processo contro tutte le donne”. Senza mezzi termini ha definito il procedimento “illegale” mentre la sentenza sarebbe “ingiusta e disumana”. Ribadendo con forza che “questo non è il processo di una sola donna, ma la testimonianza della lotta per la libertà di tutte le donne”, in quanto la giovane curda “difendeva la propria terra, il suo popolo”.
La prima udienza si era svolta nel luglio dell’anno scorso a Urfa, ed ella aveva rigettato le accuse. Alcune delle ferite da arma da fuoco – aveva spiegato – le erano state inferte dopo essere stata catturata, ossia quando era ormai inerme, indifesa. Prima di essere portata in carcere aveva subìto un intervento chirurgico che poi risulterà “non riuscito” e le sue condizioni erano peggiorate. Dati i numerosi precedenti, è lecito sospettare che l’operazione sia stata utilizzata intenzionalmente non per guarirla, ma per danneggiarla ulteriormente. Nel frattempo anche i suoi familiari – e in seguito anche il suo avvocato – venivano minacciati, maltrattati e arrestati a scopo di intimidazione.
Al momento della cattura Cicek era disarmata e – come aveva già spiegato nella prima udienza – si trovava in prima linea “per difendere la propria terra e fornire assistenza umanitaria”.
Sempre Newroz Ehmed ha ricordato come le immagini diffuse all’epoca nella rete costituissero la prova della brutalità dell’operato di tali bande jihadiste e di come lo Stato turco sostanzialmente le sostenesse.
“Tutti coloro che lottano per la libertà e l’uguaglianza”, ha concluso il suo appello la comandante delle YPJ, “dovrebbero opporsi a questa sentenza. Lo Stato turco sta dicendo al mondo intero: qualsiasi cosa voi facciate, noi proteggeremo le gang […] Ed è per questa ragione che noi continueremo la nostra lotta. Coloro che lottano per l’umanità, in particolare le donne, devono opporsi allo Stato turco e alle decisioni dei suoi tribunali. Tale sentenza legittima il dominio maschile. Per questo dobbiamo unire le nostre forze contro il potere”.