Sabato 18 marzo 1848: a Milano scoppia la rivolta. I borghesi e i nobili moderati iniziano la lotta contro gli austriaci, seguendo la tendenza generale rivoluzionaria di quella primavera di metà Ottocento che vede infiammarsi quasi tutte le capitali d’Europa. Proprio nei giorni di vigilia, i manifesti affissi dagli austriaci per le vie della città avvisano i milanesi che viene loro concessa la libertà di stampa. In futuro. questa è la promessa, avranno anche una nuova Costituzione. Ma la nobiltà, che ha già boicottato i sigari dell’impero, strappa quei manifesti e li sostituisce con altri. “Morte ai Tedeschi” è l’esplicito messaggio.
Per le vie di Milano si formano delle disordinate barricate, costituite dai mobili delle case della nobiltà cittadina, dalle loro carrozze, dalle loro sedie e poltrone, dai loro tavoli antichi finemente lavorati. Ci sono anche i confessionali delle chiese, secondo un intimo intreccio rivoluzione-Chiesa che non risparmia neppure la monarchia europea sicuramente più fedele al Papa: quella degli Absburgo. I rivoluzionari, infatti, riescono a scacciare gli austriaci dalla città.
Neanche i forti Tirolerjäger, i cacciatori tirolesi, appostati tra le guglie del Duomo, sono in grado di evitare il peggio agli austriaci sorpresi dalla rivolta e impreparati a smorzarla e a domare gli insorti. Dopo cinque giorni di violenti scontri – le cosiddette Cinque Giornate di Milano, appunto – il 23 marzo, Johann Josef Wenzel Radetzky von Radetz, il vecchio feldmaresciallo austriaco della città, è costretto a rifugiarsi nel “quadrilatero” fortificato di Verona Peschiera Mantova Legnago.
A Milano, al Governo Militare che ha condotto le operazioni belliche si sostituisce un Governo Provvisorio. Ma la nuova istituzione non riesce assolutamente a coprire quel vuoto di potere lasciato libero dagli austriaci. La nobiltà locale, che ha voluto e condotto la rivoluzione, invoca l’intervento delle truppe sabaude di Carlo Alberto. È chiara l’intenzione di soffocare eventuali pericoli provenienti dal popolo che potrebbe approfittare della grave instabilità della situazione. I Savoia vengono chiamati a Milano per dare al movimento rivoluzionario una connotazione nettamente conservatrice delle gerarchie politiche e sociali costituite. È necessario sconfiggere le correnti repubblicane, moderate, democratiche e federaliste che, alleate al popolo, rappresentano un serio pericolo.
Carlo Cattaneo, milanese, massimo teorico del federalismo, aspira a una rivoluzione pacifica per ottenere una maggiore autonomia della Lombardia all’interno di una federazione guidata dall’impero degli Absburgo. Ma, dopo le cinque giornate di efferate e sanguinose violenze, si rassegna e si rende conto che il suo disegno politico è utopico. È comunque convinto che l’autonomia del popolo lombardo non deve essere costituita dal passaggio di Milano dagli Absburgo ai Savoia, tanto invocato dai nobili associando l’indipendenza e la cacciata dello straniero all’espansionismo sabaudo. E, in effetti, il tardivo intervento delle truppe di Carlo Alberto nella rivoluzione in corso (23 marzo) è accompagnato da un proclama ai cittadini lombardi e veneti pubblicato il 24 marzo, nel quale il Re giustifica l’azione di conquista con il diritto di ogni popolo all’indipendenza (!). Nello stesso tempo, però, Carlo Alberto avvisa i ministri degli Esteri delle grandi potenze di intervenire in Lombardia nell’intento di soffocare le tendenze rivoluzionarie, impegnandosi nella conservazione dei regimi monarchici in tutta l’Europa, secondo le direttive lanciate a Vienna nel Congresso del 1814.
I piemontesi arrivano a Milano il 26 marzo. Ad accoglierli trovano l’indifferenza del popolo milanese. Certo, trovano anche l’esultanza dei nobili del Governo Provvisorio che, levate le barricate dalle strade, grazie all’intervento sabaudo possono conservare il potere conquistato. Sono disposti a fare di tutto per sdebitarsi, assecondando la volontà di chi è corso in loro aiuto. Cosi, piemontesi e nobili milanesi si adoperano per “piemontizzare” Milano. Il 26 marzo, lo stesso giorno dell’arrivo delle truppe amiche, i nobili, attraverso la fitta rete dei parroci di provincia, distribuiscono un manifesto. Intestato “Italia libera” e “W Pio IX” (il papa che ha appoggiato la rivoluzione), il manifesto della Commissione delle Offerte del Governo Provvisorio invita i parroci “a far pervenire prontamente all’ufficio della Commissione, residente nel Palazzo Marino, un elenco delle offerte avute con indicazione delle persone offerenti e loro domicilio”. E sollecita di “versare alla cassa del Comitato di Finanza quelle somme che fossero già presso di loro depositate”.
In previsione di lunghe e cruente campagne militari dei piemontesi contro gli austriaci, il Governo Provvisorio s’impegna a finanziarle con la raccolta di fondi promossa da questo manifesto. Ma l’erario dissangua ben presto il popolo lombardo, soprattutto quello delle campagne, indifferente verso la rivoluzione. Si diffonde a macchia d’olio il malcontento. E il contraccolpo sociale sulla popolazione, che vede circolare per le vie delle città e dei paesi le truppe regolari dell’esercito piemontese, è veramente forte. Perché Milano inizia a diventare una provincia qualunque del Regno dei Savoia.
Nel mese di maggio, prima ancora della fine della guerra, il Governo Provvisorio, totalmente asservito ai piemontesi, decreta l’annessione ufficiale. Cattaneo, che aspira alla formazione di una Repubblica Federale composta da una pluralità di Stati caratterizzati dall’esistenza di un popolo, di un territorio, di un governo specifici (quindi una pluralità di ordinamenti territoriali sovrani che conservano intatte le diversità etniche di ogni regione), non può essere che il principale avversario del disegno di Casa Savoia di espandere territorialmente il Regno di Sardegna, imponendo ai nuovi popoli conquistati le proprie strutture giuridiche e amministrative, la propria forma istituzionale, la dinastia regnante, la persona del re e l’assetto costituzionale.
Carlo Cattaneo pensa che “il movimento rivoluzionario deve partire dal basso: non da pontefici redentori, non da Re liberatori. È necessario che il popolo, insorgendo, proclami immediatamente la propria sovranità, che elegga la propria assemblea, che la sorvegli, che organizzi esso stesso la propria libertà”. Coerentemente con le proprie idee di un movimento popolare, laico, democratico e federalista, di fronte all’occupazione piemontese e al pericoloso connubio con i nobili milanesi, è preoccupato. Caduta l’ipotesi di una Lombardia autonoma all’interno dell’impero degli Absburgo, Cattaneo, contrario all’espansionismo piemontese, propone di sondare gli umori del popolo per quanto riguarda l’annessione attraverso un democratico referendum popolare. Ma la proposta viene bocciata dai nobili perché il referendum popolare sarebbe sicuramente favorevole agli austriaci.
Profondamente amareggiato per la decisione arbitraria del Governo Provvisorio, che ha decretato l’annessione della Lombardia al Piemonte trascurando l’opinione del popolo, Cattaneo sconsolato si consegna al silenzio, sognando le “repubbliche che formeranno il fascio degli Stati Uniti d’Italia”.
Sul finire dell’inverno del 1848, poche settimane prima della rivoluzione, Radetzky aveva detto ai milanesi: “La mia mano impugna ancora saldamente la spada che mi ha seguito con onore per 65 anni su tanti campi di battaglia. La impiegherò per la pace di un Paese recentemente ancora felice e che adesso la follia di una fazione minaccia di far precipitare in una miseria incalcolabile”. Radetzky mantiene la promessa fatta al popolo lombardo. Proprio durante il mese di maggio, raggiunge il quadrilatero il diciottenne arciduca Francesco Giuseppe per abituarsi alla vita dei campi di battaglia. Il futuro imperatore non può scegliere un momento migliore. Infatti, il 6 maggio inizia la controffensiva degli austriaci che hanno avuto il tempo di rafforzarsi con nuove e fresche truppe. A Santa Lucia, ventimila austriaci sconfiggono quarantamila piemontesi. I Savoia hanno lasciato Milano con il piano di allontanare gli austriaci anche dal quadrilatero e costringerli a ripiegare verso il fedele Tirolo. Ma proprio nel quadrilatero le ambizioni espansionistiche dei piemontesi vengono nettamente ridimensionante. Dopo alterne e cruente vicende (Curtatone e Montanara: 29 maggio; Pastrengo, Goito, Peschiera: 30 maggio) subiscono la sanguinosa sconfitta (23-25 luglio) di Custoza. La miopia bellica di Carlo Alberto, che comanda direttamente le truppe piemontesi, soccombe alla superiorità tattica e strategica di Radetzky.
Nei primi giorni di agosto i Savoia ripiegano verso Milano. Carlo Alberto, sconfitto, si rifugia a palazzo Greppi. Ben presto la notizia, correndo di voce in voce, si diffonde. E sotto palazzo Greppi si raduna una folla impressionante che, in preda all’ira, rovescia le carrozze e minaccia di dare l’assalto all’edificio. Parte qualche colpo di fucile. I vetri del palazzo iniziano ad andare in frantumi. Il soffitto della stanza di Carlo Alberto è già solcato da qualche pallottola. Quando si affaccia al balcone per placare la folla, le canne dei fucili puntano verso il Re e le pallottole sibilano minacciose di fianco alle sue orecchie. I milanesi manifestano cosi, violentemente, la loro avversione al disegno politico di casa Savoia, che, dopo averli conquistati, li ha oppressi dissanguandoli con le tasse per mantenere l’esercito in una guerra che pochi di loro vivevano ardentemente.
Tra il 5 e il 6 agosto, nottetempo, nascosto agli occhi dei milanesi e difeso da un battaglione della guardia nazionale e da una compagnia di bersaglieri, Carlo Alberto fugge da Milano accompagnato dal figlio. Le truppe sabaude, vinte, si sono già ritirate oltre il Ticino nella stessa giornata del 5 agosto. Il 9 agosto, il generale piemontese Salasco sottoscrive la resa in nome del suo Re. Radetzky si appresta a ritornare a Milano vincitore. Mentre sulle barricate della Barona di pochi mesi prima i nobili insorti hanno gridato “viva Pio Nono”, durante la campagna di maggio-luglio nella pianura lombardo-veneta i contadini hanno accolto gli austriaci al grido di “arrivano i nostri”. Ora, dai bordi delle strade che portano a Milano, salutano le truppe dell’imperatore con molto entusiasmo.
Nei pressi di San Donato Milanese, gli austriaci sono raggiunti da un messaggero. Il podestà di Milano, Paolo Bassi, invita il feldmaresciallo Radetzky ad affrettarsi a rientrare in città per evitare che il popolo, libero dai piemontesi, si abbandoni a saccheggi e distruzioni prima dell’arrivo degli austriaci. I cittadini milanesi sono esasperati dall’arroganza dei nobili che, abbagliati dall’intervento sabaudo, hanno loro imposto le restrizioni della guerra. Dopo aver manifestato la propria ostilità verso i piemontesi, ora presumibilmente sarebbe stata la nobiltà l’obiettivo delle ire popolari. Il messaggio del podestà a Radetzky chiude con queste parole: “La città è calma e si prepara ad accogliere come si conviene le truppe imperiali”.
Poco dopo, Piero Bassi manda un secondo messaggero a invocare il tempestivo intervento della cavalleria austriaca per placare la collera del popolo, che ha già saccheggiato le casse pubbliche e distrutto le case dei ricchi. Finalmente, alle ore 10 di domenica 6 agosto, cavalcando un bianco destriero, Radetzky entra trionfalmente in città da Porta Romana. La folla lo acclama. E in milanese gli urla “sémm minga sta nünc, inn stà i sciuri” (non siamo stati noi, sono stati i ricchi). Al passaggio delle truppe imperiali “numerosi erano i volti che ci ringraziavano in silenzio, con gli occhi colmi di lacrime di gioia per averli liberati”.
Il buon governo
Alla base di queste manifestazioni di straordinario attaccamento dei lombardi e dei milanesi alla corona dell’impero danubiano dell’aquila bicipite degli Absburgo, ci sono profondi e antichi motivi. Infatti, dopo le luci c le ombre dell’amministrazione spagnola, l’Austria di Maria Teresa, di Giuseppe II, di Ferdinando e poi di Francesco Giuseppe ha dato respiro europeo a Milano e alla Lombardia. Il Foscolo, il Manzoni, i Verri, il Parini, il Cantù, il Beccaria, il Berchet, quei lucidi intelletti che hanno fatto grande Milano, sono passati alla storia, alla filosofia, alle lettere, proprio per l’europeismo delle loro posizioni prodotte da una società, la Milano austriaca, centro editoriale e culturale in stretto contatto con la Mittelcuropa. Ed è stato grazie agli austriaci che la Lombardia ha conosciuto uno straordinario sviluppo economico, sociale e culturale.
Allo scadere del secolo di amministrazione austriaca (1714-1814), sconvolto anche dal turbine napoleonico, si contano già diverse innovazioni “rivoluzionarie”. L’abbattimento del vecchio regime corporativo come la manomorta e i fidecommessi ha favorito lo sviluppo economico lungo nuove direttrici. Manifatture tessili, soprattutto seriche legate alla gelsicoltura e alla bachicoltura, godono di un rinnovato slancio produttivo. E l’inserimento delle moderne tecniche industriali – che nel breve volgere di mezzo secolo avrebbero quasi del tutto sostituito la vita contadina e in un secolo, in effetti, la cancellarono – non ha provocato grossi scompensi. Anzi, l’assestamento al nuovo regime produttivo è stato immediato. E tempestivi sono stati i risultati positivi dell’espansione dell’industria metallurgica e di quella chimica. È vero. Si trattava di una società, quella austriaca, estremamente stratificata, dove lo scarto tra le differenti classi sociali, seppur ridotto dai tempi nuovi, era sempre profondo. Ma questa era la caratteristica generale e costante dell’Ottocento, forse molto più accentuata in altri Stati.
Potrebbe sembrare un elenco arido e noioso. Ma è necessario ricordare le innovazioni anno per anno. Dopo la fondazione dell’Accademia di Brera (1776) e del Teatro alla Scala (1778), a partire dal Congresso di Vienna Milano brucia le tappe. Nel 1819 è portato a termine il Naviglio Pavese; nel 1820 vengono distribuite per le strade, che hanno ampliato la già fitta rete di comunicazioni, le lampade Argand; nel 1823 in piazza dei Mercanti trova la propria sede la Cassa di Risparmio; sempre nel 1823 nasce l’ospedale Fatebenesorelle, l’ottantaquattresimo di tutta la regione; nel 1831 il battello a vapore Otello parte da Venezia, percorre tutto il Po e attracca a Milano; nel 1832 viene edificata la galleria De Cristoforis; nel 1838 l’imperatore Ferdinando inaugura l’Arco della Pace; nel 1840 le due locomotive a vapore battezzate Lombardia e Milano percorrono la “Privilegiata”, il primo tratto di strada ferrata da Milano a Monza (di chilometri 12,8, percorsi in 19 minuti all’eccezionale media di 40,4 Km/h, che, in confronto alle carrozze e ai tram trainati dai cavalli, può quantificare il progresso tecnologico della rivoluzione industriale); nel 1841 inizia il servizio tramviario di “omnibus” tirati dai cavalli; nel 1842 si aprono i bagni Diana a Porta Orientale; nel 1844 l’acqua potabile amplia la propria rete di distribuzione; nel 1845 le principali vie della città vengono illuminate per tutta la notte da 377 becchi nuovi.
Durante l’amministrazione austriaca viene edificata anche la chiesa di San Carlo. E si abbattono gli edifici che fanno corona al cinquecentesco Palazzo Marino, cosi piazza della Scala acquista la moderna urbanistica. La città continua a svilupparsi lungo Corso Sempione, intensificando i collegamenti con Parigi. Invece, attraverso l’ardito passo dello Stelvio, sono assicurati i collegamenti con il Tirolo e con Vienna, la capitale dell’impero. I bastioni di cinta vengono trasformati secondo le caratteristiche visibili tutt’oggi: la porta di ornamento e le due guardiole laterali che ospitano la guarnigione militare e il servizio daziario.
Ecco come Carlo Cattaneo ha riassunto con parole ricche di entusiasmo questo eccezionale periodo:
Ogni anno segnò sempre per noi qualche nuovo grado di prosperità; ogni anno più vasta la rete stradale; ogni anno più folta la piantagione dei gelsi, prima riservata ai colli, poi distesa in veri boschi sui piani dell’Olio e dell’Adda, e salita fino a mille metri di altezza nelle valli alpine, produttrice di un’annua raccolta di cento milioni di franchi in un territorio che corrisponde alla ventiseiesima parte della Francia. Sempre più diffuse, ma più accurate e quindi meno insalubri le irrigazioni; si mutano in buone case i tuguri dei contadini; penetra in tutti i comuni rurali il principio dell’istruzione; tolta cogli asili dell’infanzia la rozzezza dei figli della plebe; gli studi delle lettere e delle arti consentiti anche al sesso gentile; e con solenni mostre viene diffuso l’amore delle belle arti nel popolo.
Quando un popolo viene tenuto forzatamente nell’ignoranza, con una vita al limite dell’autosufficienza, allora generalmente non si ribella. Perché non è in grado di ribellarsi. Non è consapevole della propria condizione. Non “vede”. Tace e lavora. Invece, quando è istruito e sviluppa la propria intelligenza e la propria cultura, allora si ribella. Artificio e metodo di molte dominazioni oppressive e non illuminate è stato quello di tenere il popolo segregato nell’ignoranza per evitare la ribellione, scongiurare il pericolo della rivolta, conservare la devozione e la deferenza per le gerarchie costituite.
Gli austriaci dominatori di Milano potevano scegliere. E nel corso di un secolo e mezzo caratterizzato da profondi mutamenti sociali, politici ed economici, gli austriaci hanno scelto di intensificare l’istruzione e la cultura, di creare delle floride condizioni economiche, di rafforzare la compattezza del tessuto sociale. Ecco perché i milanesi li hanno accolti con entusiasmo e commozione quando, nell’agosto del 1848, sono rientrati a Milano. Se gli austriaci avessero curato esclusivamente i propri interessi attraverso lo sfruttamento delle risorse umane e naturali, della terra e della laboriosità lombarde, allora avrebbero lasciato miseria, disperazione e rancore. Invece no.
A Milano, il feldmaresciallo Johann Josef Wenzel Radetzky von Radetz abitava in via Brisa (dove oggi finisce corso Magenta e inizia via Meravigli). Ogni mattina usciva di casa di buon’ora. Percorreva via San Giovanni sul Muro, attraversava largo Cairoli e imboccava via Cusani dove, a casa Gagnola, aveva sede la Cancelleria austriaca. In largo Cairoli trovava semiaddormentati, ancora intirizziti dal freddo patito durante la notte trascorsa all’addiaccio sotto le mura del Castello Sforzesco, i mendicanti della città. Allora infilava le mani nelle capienti tasche della divisa. Estraeva qualche sigaro e qualche moneta. E distribuiva tutto ai barboni. Era ormai divenuto un appuntamento quotidiano. E il vecchio feldmaresciallo, insieme ai sigari e alle monete, allungava ai suoi poveri amici anche il suo mattiniero sorriso di buon giorno. Probabilmente, quando l’espansionismo piemontese di Casa Savoia, undici anni dopo (1859) ha interrotto bruscamente l’illuminata dominazione austriaca di Milano e della Lombardia, costringendo gli Absburgo a lasciare la città, non solamente i barboni, ma tanti milanesi hanno rimpianto la generosità, la correttezza, la rettitudine dei baffoni del maresciallo Radetzky.