Come un’apparizione. La foto (vecchia foto in bianco e nero, un reperto degli anni sessanta) appesa al muro del solito bar di Lumignano (quello “storico” in curva) riesumava un’antica squadra di speleologi del Club Speleologico Proteo accampata sui Colli Berici. Al centro tre giovani speleologi vicentini immortalati mentre in due, sorridenti, sorreggono quello a gambe larghe che quasi-quasi sghignazza. A terra, in disordine sparso, sacchi a pelo arrotolati, zaini (da uno sporgono un machete e il manico di un’accetta), qualche antico moschettone di quelli “a pera”, da pompieri, e vari caschi da grotta (che immagino di color giallo, canonico) con dipinto sopra il simbolo del pipistrello. Quello originario, non la successiva elaborazione grafica (operata negli anni settanta da Sante Segato) diventata il logo del CSP. Per cui ritengo di poterla datare, l’immagine, verso la fine degli anni sessanta.
Da un lato affiora un vespone con parabrezza (e anche quello l’ho riconosciuto), dall’altro emerge, semicoperto dal cofano di una 500 bianca, un quarto speleologo con l’eschimo (all’epoca indumento usato da murari e operai per andare al lavoro, in vespa o motorino, oltre che nei picchetti e volantinaggi davanti alle fabbriche). Guarda nell’obiettivo, ma con un certo distacco, leggermente perplesso o imbarazzato. Lo intuisco, lo immagino un attimo prima, ancora di profilo, intento a osservare i tre bontemponi, incerto tra il timore d’esser di troppo e un certo disagio per quella goliardica messa in scena.
Per me un pugno allo stomaco. Leandro se n’è andato qualche anno fa. Se n’è andato così come era vissuto: dignitosamente ma in silenzio, a modo suo. Tanto tempo prima si era ritirato, col suo cane, tra le ultime contrade su cui incombe il Pasubio. Un paio di volte ero anche passato a cercarlo (non lo vedevo da anni), ma senza riuscire a incontrarlo. 1)
Nessuna difficoltà nell’identificarlo. Era la stessa faccia buona che ricordavo, quella di un amico, inequivocabile e inconfondibile. Un ricordo nitido anche dopo più di 50 anni.
Non solo per i tratti, ma ancor più per l’atteggiamento. Meditabondo, apparentemente dimesso, come in attesa… ma comunque sereno.
Una presenza forse destinata a restare invisibile. Inosservata per chi (ciclista di passaggio, escursionista occasionale, frequentatore abituale) si dovesse soffermare tra un sorso e l’altro a scrutare distrattamente l’insolita immagine in bianco e nero. Del resto, cosa potrebbe mai significare quel volto – d’altri tempi, da “dopoguerra” – per gli odierni frequentatori di Lumignano?
E quale storia potrebbe mai rievocare?
Magari noteranno il vespone (d’epoca) e la posa vagamente goliardica (“pittoresca”… commentava una tedesca con zaino e chili di moschettoni) dei tre al centro della foto. Senza nemmeno chiedersi a cosa stava pensando l’altro soggetto, quello leggermente defilato.
Per me invece è stato immediato ricordarne, ritrovarne la personalità, l’umanità… particolari, caratteristiche che permangono oltre il tempo.
Quando, quindicenne, intrapresi l’ardua, umida e viscida via degli anfratti oscuri, 2) Leandro aveva già diversi anni di attività come speleologo (“speleista” direbbe l’addetto ai lavori) alle spalle. Tra i ricordi di spedizioni comuni, un lungo girovagare in vespa (quella della foto) per strade ancora sterrate dei Lessini vicentini, alla ricerca di splughe e altre cavità. Da Creazzo a Monteviale, Gambugliano, Montepulgo…
Su e giù per crinali non ricoperti come ora dalla metastasi delle villette della piccola e media borghesia. Perlustrando cave e boscaglie, fino a Priabona, località che per noi significava “Poscola”, intendendo la grotta più che l’omonimo torrente, quello poi utilizzato da un’azienda locale per smaltire rifiuti tossici. Ma allora non sapevamo. A noi il mondo appariva ancora integro: nebbie e nuvole in movimento, gati sfilacciati come ectoplasmi, schiarite improvvise, rami lucidi e scrosci di pioggia, raffiche pungenti di vento e voli premonitori di corvi neri.
O forse, prosaicamente, erano cornacchie… altamente evocative, comunque.
Altra escursione, credo novembrina. Nella memoria: foglie gialle, ancora nebbie, umidità, il guizzo arancio di una volpe, salamandre sul percorso scivoloso…
In mezzo ad altre boscaglie, quelle tra le “Acque” (Sant’Agostino) e la pontara di Valmarana (dove si allenava il ciclista vicentino Massignan: storico) in compagnia di un suo amico (forse Braschi?) trasferitosi in Puglia qualche anno prima e tornato per una breve rimpatriata.
Non ricordo la grotta (o forse due), ma la sosta all’osteria davanti a un brulé. Progetti di altre spedizioni, in gran parte mai realizzati.
E poi in quel di Villabalzana per una voragine segnalata. Quella volta decisi di ritornarmene a piedi e quasi per caso, all’interno di una cava abbandonata, individuai l’imbocco della grotta poi denominata della Cà Pura. Oggi come oggi me ne starei zitto, per “amor di grotta”.
Altre immagini: evanescenti, indistinte, avvolte nel crepuscolo. Era sera ormai (inizi del 1968?). Un’impervia discesa su terreno franoso (una sorta di ripido ghiaione, dove erano cresciuti alcuni alberi stentati a cui ci si aggrappava per non volare a valle) alla luce delle lampade a carburo dopo l’esplorazione di una grotta in Val Sugana (o Canale di Brenta?). Grotta dee fade o roba del genere, forse anguane vista la località.
I ricordi di “spedizioni” in grotta a cui partecipammo entrambi (dai Berici ai Lessini e sull’Altipiano di Asiago) si ridestano dall’oblio prepotenti e numerosi. Ma parlarne soltanto come speleologo sarebbe parziale. Così come ricordare solo i momenti entusiasmanti e “rimuovere” altri aspetti.
Operaio, Leandro era iscritto al sindacato e talvolta lo incontravo alle manifestazioni unitarie. Per lui ero pur sempre un “compagno” (anche se relativamente “estremista”). Si era comunque instaurata una certa dose di reciproca fiducia e confidenza per cui, in un paio di occasioni, mi aveva confidato il disappunto per certi atteggiamenti sbrigativi (eufemismo) nei suoi confronti da parte di qualche socio. Presumo aspirante al ruolo di “maschio Alfa”.
Dal lavoro in fabbrica Leandro aveva contratto qualche problema respiratorio dovuto agli acidi inalati, mi raccontò (problema che comunque non gli impedì di esplorare decine di grotte impegnative). E qualcuno non esitava a rimarcarlo. Anche – posso testimoniarlo – apostrofandolo con appellativi vagamente offensivi.
Sia in sede (quella storica, al Villaggio del Sole) sia nelle spedizioni si percepiva, talvolta, una certa sufficienza nei confronti dei soggetti “anomali” o “devianti” rispetto ai parametri sociali convenzionali e dominanti. Se per quelli più “esuberanti” si arrivava all’espulsione (vedi il sottoscritto e Tiziano Zanella, mi pare nel 1972), in altri casi si assisteva a una sorta di “nonnismo” da caserma (un malcelato mobbing?).
A farne le spese, più che le “reclute”, i nuovi arrivati, erano appunto le persone come Leandro. Troppo buone o forse maggiormente esposte alle difficoltà della vita, sicuramente meno arroganti e prevaricatrici. Persone su cui qualcuno si permetteva di scaricare le proprie frustrazioni, forse per esercitare una misera forma di ”potere”. Con battute per svalorizzare, critiche immotivate, talvolta autentiche umiliazioni.
Così andava il mondo. E così va ancora del resto, anche se il contesto e le forme possono nel frattempo essere mutate (ma non la sostanza).
Vorrei anche aggiungere che talvolta ho avuto la sensazione che le sotterranee (“carsiche”) vie del conflitto di classe, dello scontro ideologico tra destra e sinistra, percorressero e percuotessero, se pur travisate da personalismi e maschere caratteriali, anche l’ambiente speleologico e alpinistico.
Tornando a Leandro, non credo quindi sia stato per caso se a un certo momento, ferito e amareggiato, aveva lasciato il gruppo speleo e in seguito declinato quasi ogni invito per ricorrenze e anniversari (quelli in genere celebrati all’Eremo di San Cassiano). Sebbene, va detto, fosse stato uno dei primi soci del CSP, ancora nei primi anni sessanta. Per la cronaca, il CSP venne fondato nel 1962 ed era destinato a diventare uno dei più importanti, oltre che del Vicentino, anche del Veneto (soprattutto per la realizzazione del Catasto Grotte).
“Preserva i tuoi ricordi, è tutto quello che ti resta”
Tutto questo, sepolto e dimenticato da decenni, mi è ritornato alla mente vedendo quella foto dove ho immediatamente riconosciuto l’amico perduto Leandro.
Avere ricordi, un passato, può essere scomodo a volte. Ma non averne, o averli rimossi, sarebbe anche peggio. Forse.
Questo promemoria personale era già stato scritto quando è arrivata l’altra bruttissima notizia. La morte – del tutto inaspettata per chi scrive – di Franco Dalle Carbonare. Un altro dei quattro giovani di allora immortalati nella solita foto esposta nel bar di Lumignano.
Quanto agli altri due, uno è Paolo Mietto, all’epoca presidente del CSP e poi geologo. Dell’altro ricordo il volto, la voce, lo “stile”… ma purtroppo non il nome.
Il primo incontro con Franco risale, presumo, al 1967. Nel corso di una spedizione dalle parti di Castelgomberto dove una grotta, alquanto strettina mi pare, finiva con un sifone. Ricordo che Franco lo affrontò indossando una tuta da operaio (il “mono azul” ) uscendone completamente fradicio. Di poco successiva la risalita (fu lui, alpinista provetto, ad affrontare la parete e fissare la corda) verso alcuni covoli torreggianti sulla vecchia chiesa di San Maiolo a Lumignano.
Da un covolo, attraverso un pertugio naturale, si poteva accedere a un altro e da qui, in cengia, a un terzo. Trascendentale.
E ovviamente abbiamo condiviso qualche spedizione al Buso della Rana. Lungo il Ramo dei Salti, mi pare. Dove di sicuro c’era anche Paolo Lain (per inciso, l’unico che si oppose coraggiosamente alla mia espulsione).
Così come quando percorsi per primo (indegnamente, ça va sans dire) l’inesplorata, infangata e semiallagata strettoia di comunicazione tra i due rami che sboccano all’esterno (1971 o 1972?). Non so se fu quella la volta in cui durante il viaggio in auto, mentre le torbide ombre della sera si infilavano tra le colline di Malo e Priabona, Franco ci fece ascoltare Atomo e Madre Terra. Musica cosmica, gravida di significati reconditi, propedeutica alla nostra immersione nel grembo – appunto – di “Madre Terra”.
Ma forse il ricordo più intenso da condividere con Franco per me era quello del Finestron, sul Monte Grappa (nel fatidico, irripetibile e irrisolto 1968).
Arrivammo sempre sul far della sera e a un certo punto in mezzo alla strada apparve un ciclista. Stagliato contro le ultime luci del tramonto, lanciato a gran velocità e avvolto in un tabaro svolazzante. Quasi un’apparizione. Dormimmo in una baita e il giorno dopo affrontammo la lunga, impervia e sconosciuta discesa agli Inferi.
Diciamo che per andare giù non c’era stata la fila. Oltre a Franco (e al sottoscritto) scese nel Finestron anche Osvaldo Fornezza che poi rimase sulla cengia intermedia per garantire lo scorrimento delle corde di sicura.
Sul fondo rinvenimmo vari residuati bellici di epoca incerta, presumibilmente sia della prima sia della seconda guerra mondiale. In particolare i resti di un cannoncino (un mortaio?) con ruote di legno e qualche elmetto tedesco. Da informazioni raccolte in zona negli anni successivi, pare che durante il grande rastrellamento del 1944 (quello degli impiccati di Bassano per capirci) tedeschi e fascisti abbiano costretto alcuni dei giovani renitenti e partigiani catturati a tentare il salto da un bordo all’altro dell’immensa apertura. Garantendo di risparmiare chi ci fosse riuscito.
Sempre dai locali, ho appreso che uno ce l’avrebbe anche fatta, ma venne immediatamente falciato da una raffica di mitra.
Da parte nostra, una volta arrivati in fondo, oltre a prendere le misure per un primo rilievo, esplorammo qualche promettente fessura laterale. Poi venne il momento di risalire. E qui devo fare una confessione. Senza dir niente a nessuno nello zaino avevo infilato ben tre elmetti tedeschi e già verso la metà della risalita mi ritrovai sfiancato. Nonostante i benevoli incoraggiamenti di Franco, temevo proprio di non farcela e cominciai a pensare che forse era meglio se me ne liberavo, lasciandoli cadere sul fondo. Invece in qualche modo riuscii a fuoriuscire e conservare il “prezioso” bottino. Per la cronaca, i tre elmetti vennero poi equamente divisi con un paio di cugini e alla fine non ne conservai che uno.
Negli anni successivi, dopo la mia espulsione per “eccessiva esuberanza” (ma la politica doveva entrarci, dato che la richiesta era partito da un democristiano di destra), lo rividi in qualche rara occasione e sempre si riparlava del “nostro” Finestron. 3) La sua dipartita, così come quelle di Leandro e – tanti anni fa – dell’altro grande amico speleologo “Effe” (Ruggero Fernando), è venuta in qualche modo a suggellare definitivamente un’epoca. Ponendoo la parola “fine” su tutto quello che magari inconsciamente talvolta immaginavo potesse avere un seguito, una continuità.
N O T E
1) Recentemente avevo preso la decisione di non scrivere altri necrologi per quelli della mia generazione, le persone con cui avevo condiviso politica, manifestazioni, alpinismo e – come in questo caso – speleologia. Tra compagni degli anni sessanta-settanta e amici alpinisti o speleologi, la lista di chi è “andato oltre” ultimamente si va allungando troppo. Ma la foto inaspettatamente vista in un bar a Lumignano (una foto in cui Leandro sembrava quasi “entrare” per dire “ci sono”, richiamandomi al dovere), mi ha spinto a ricredermi. Almeno per stavolta.
2) Erano i tempi della “combinata”, tuta operaia da lavoro (generalmente blu) o, in alternativa, della “mimetica”, recuperata per poche centinaia di lire nel piccolo magazzino di articoli militari usati (in gran parte provenienti dalla Casema Ederle) del Patronato, vicino a Ponte Pusterla. Anche i caschetti erano in genere di origine militare (sempre statunitense, quelli leggeri) e poi ridipinti di giallo con la scritta CSP (Club Speleologico Proteo) e la sagoma di un pipistrello in nero. Sarebbe arrivato successivamente il logo (sempre un pipistrello) realizzato da Sante Segato nei primi anni settanta e destinato a essere utilizzato per tutti i decenni a venire.
Tempi di bivacchi con solo un telo di nailon steso sulle pietre (talvolta direttamente sul ghiaccio come al Torrione di Vallesinella nel 1968) e poi il sacco a pelo (sempre di recupero, militare).
Per scendere i pozzi, imbraghi da pompiere (e relativi moschettoni, quelli a pera), corde talvolta ancora in canapa (ma si cominciava a utilizzare anche quelle di nailon, ritenute più sicure e comunque più maneggevoli, oltre che meno propense a infangarsi) e le “scalette” pieghevoli, con i montanti in acciaio (un cavo di circa tre millimetri) e i gradini (le “sbarrette” in duralluminio) lunghi 14 centimetri con un diametro di 12 millimetri.
Distanza canonica tra un gradino e l’altro di 30 centimetri, con i montanti che terminavano con fibbie e anelli in grado di raccordare due scale tra loro. Prima regola: non gettare mai le scalette nel pozzo che si intendeva discendere (oltre al rischio di provocare una frana, si sarebbero potuti sfilacciare i cavi), ma srotolarle lentamente, direi gentilmente.
3) Come ho già ricordato, anch’io venni espulso, nel 1972, insieme a Tiziano Zanella. Non ne faccio un problema (non più almeno). Con il senno di poi, è stato meglio così. “Scoprii” l’alpinismo (con un altro amico indimenticabile, l’alpinista Mariano Parlato) e la frequentazione assidua di Rio Freddo e dintorni in una “baita” ridotta all’essenziale e risistemata alla buona. Altra storia, comunque…