Colli Berici, a sud di Vicenza. E in particolare la fascia che sovrasta la Riviera Berica. Ne parlo in quanto cittadino, non certo esperto di chimica o agricoltura industriale (l’aggettivo è obbligatorio di questi tempi); da persona che, un giorno sì e un altro anche, deve precipitarsi a chiudere finestre e balconi per arginare il pestilenziale aerosol che uomini in tuta bianca e maschera antigas a doppio filtro spandono con gli atomizzatori, spensieratamente, lungo i filari a pochi metri dalle abitazioni. Irrorando anche gli ignari pedoni o ciclisti che transitano sulle “pedemontane” (pista ciclabile compresa). In teoria, ma solo in teoria, ci sarebbero delle distanze da rispettare: 30 metri in primavera e 20 in estate da strade e case. Ma siamo nel profondo Nord-est…: qua la gente lavora, cazzo!
Se la fauna indigena (uccelli, anfibi, farfalle…) langue, patisce e scarseggia, in compenso sui Berici si vanno diffondendo come la peste altre categorie che non mi sembra arbitrario definire “altamente nocive”. Parecchi i piccoli imprenditori riciclati provenienti dall’edilizia, ma non mancano professionisti (notai, dentisti, avvocati, giudici) e pensionati di lusso. Tutti impegnati a speculare sulla monocultura della vite (letteralmente la “nuova industria del Nord-est”, stessa scuola della palma da olio in Indonesia, immagino) avvelenando l’aria e i terreni con una mistura infernale di veleni, pesticidi tossici, sostanze cancerogene e interferenti endocrini vari.
Tra di loro anche l’ormai tristemente noto glifosato, responsabile delle inquietanti strisce arancioni (agent orange vi ricorda qualcosa?) tra i filari. Il famigerato erbicida stava per essere bandito dall’Europa, ma da ‘ste parti invece si continua a usarlo (fino a “esaurimento scorte” forse?).
Succede in “campagna” (si fa per dire, in Veneto: diciamo quanta ne rimane nel dilagare di aree cementificate industriali-artigianali) come in collina.
Da notare che sovente i responsabili sono gli stessi. Ossia chi ha già devastato la pianura costruendo capannoni poi magari si accaparra un buon ritiro dove giocare al contadino con modalità da piccola industria. Utilizzando per lo più forza lavoro costituita da immigrati (marocchini, sikh) sottopagati e in nero.
Questo il paesaggio con rovine in cui sprofondano le mitiche ville palladiane.
Così come nel trevigiano e nel veronese – oltre al Friuli – la febbre del prosecco e affini ormai dilaga anche nel bellunese e nel vicentino.
Obiettivo quasi raggiunto per gli speculatori, la produzione di oltre mezzo miliardo di bottiglie (parlando solo di prosecco) entro il 2019. Da esportare, preferibilmente, in Stati Uniti e Gran Bretagna. Ma anche Russia e Cina non scherzano, pare.
Prezzo da far pagare alla collettività: sbancamenti, distruzione del bosco, inquinamento diffuso. Ieri in Altamarca (beffardamente proposta come Patrimonio dell’Umanità all’UNESCO), oggi sui Colli Berici.
Le colline intorno a Longare, Castegnero, Nanto, Mossano, Barbarano, Villaga, Sossano, Alonte, vengono sottoposte a quel tipo di trattamento che era già ben conosciuto da Maserada, Sernaglia, Valle del Soligo, Vittorio Veneto, Valdobbiadene, Conegliano. Stiamo parlando di quel territorio e di quel paesaggio che Zaia – in veste di propagandista turistico – ha definito “un presepe” (vedi recente intervista sulla “Repubblica”). E per fortuna non ha aggiunto “vivente”…
L’anno scorso era stato nuovamente – ma invano – denunciato da Legambiente l’ulteriore ampliamento dell’area destinata alla coltivazione della vite (altri tremila ettari, da 20.250 a 23.250) per la produzione del prosecco doc (di origine “controllata”?).
Lo scopo di questo ulteriore ampliamento – a spese, ricordo, del bosco e della biodiversità – responsabile di ulteriore sfruttamento e devastazione per il territorio, sarebbe “ garantire la stabilità e l’equilibrio del mercato” (neoliberismo, malattia cronica del capitalismo).
Per quanto riguarda il prosecco in particolare (ma il discorso vale in generale), in un editoriale della “Nuova Ecologia” si poteva leggere: “I vigneti di glera, il vitigno da cui si ricava il prosecco” (segnalo che secondo alcuni autori il ceppo originario del Glera Balbi potrebbe aver avuto origini proprio sui Colli Berici) “vengono piantati dove storicamente non ci sono mai stati, anche in aree paludose o esposte a nord, non vocate per clima e composizione del terreno: questo implica un utilizzo ancora maggiore di fitofarmaci. I trattamenti, poi, si fanno in momenti diversi, perché ciascun viticoltore decide in autonomia quando farli, quindi ogni anno è un’irrorazione continua fra primavera ed estate”.
E continuava: “Il vero problema è la diffusione della monocoltura. Si pianta ovunque: in mezzo alle case, vicino ai corsi d’acqua”.
Quanto ai (presunti) regolamenti regionali introdotti per limitare l’uso di fitofarmaci nelle aree urbanizzate (come appunto i paesi, ampliatisi a macchia d’olio in anni recenti, del Basso Vicentino) e il divieto (sempre presunto) di utilizzare gli erbicidi, vengono largamente inficiati dalle numerose deroghe promosse dalle amministrazioni locali. Fatta la legge (a scopo propagandistico?) si scopre l’inganno: ossia che si tratta solo di “suggerimenti” non obbligatori.
Forse a scopo mimetico-propagandistico, nel 2011 il Consorzio del prosecco superiore Doc aveva adottato un protocollo viticolo che prevedeva “una riduzione dei prodotti chimici da utilizzare nei vigneti, escludendo del tutto i più pericolosi per la salute umana e l’ambiente”. Ma anche qui l’adesione era “su base volontaria”.
Ribadisco. Sui Colli Berici troppi vigneti si vanno espandendo, sostituendosi a quanto rimaneva dei boschi. Un vero e proprio stravolgimento del paesaggio ottenuto con brutali sbancamenti e livellamenti, interrando doline e demolendo affioramenti rocciosi. In genere con le ruspe, talvolta (vedi anni fa sopra Castegnero) utilizzando l’esplosivo. Oppure (era accaduto a San Gottardo) è l’intera sommità di una collina a essere spianata.
Come si era detto ormai la produzione di vino, e di prosecco in particolare, sta diventando la “nuova industria del Nord-est”.
L’attuale “corsa al vigneto” è sostanzialmente opera di speculatori in gran parte provenienti dal mondo della piccola impresa (sia dall’industria sia dall’edilizia), culturalmente estranei all’agricoltura tradizionale, senza legami affettivi con il territorio in cui vedono soltanto una possibilità di sfruttamento e rapido arricchimento.
Altro che “Patrimonio dell’Umanità”… Patrimonio del profitto, piuttosto.