Condannati dopo 40 anni gli stupratori di donne quechua

Meglio tardi che mai, si suol dire. Anche se quarant’anni sembrano davvero troppi. Inoltre le pene inflitte (dai 6 ai 12 anni) ai dieci militari condannati per stupro appaiono relativamente miti se confrontate alla gravità degli atti compiuti su una decina di donne e ragazze (contadine di etnia quechua, la maggior parte minorenni) delle città andine di Manta e Vilca, nel dipartimento di Huancavelica. Alcune di loro erano rimaste incinte, in qualche caso anche più volte, a causa degli stupri ripetutamente subiti in carcere.
I fatti risalgono al periodo tra il 1984 e il 1995 (l’inizio delle indagini al 2004) quando nella regione andina di Huancavelica, una delle più povere del Paese, venne inviato l’esercito per contrastare la guerriglia maoista di Sendero Luminoso. All’epoca il governo aveva classificato alcuni territori andini come “zone in emergenza” installandovi basi militari.
È ormai ampiamente assodato che diversi reggimenti, più che combattere i guerriglieri, si distinsero per aver ulteriormente aggravato le sofferenze della popolazione civile. Con le torture, le esecuzioni extragiudiziali, le rappresaglie indiscriminate (preventive?) e appunto gli stupri, allo scopo di terrorizzare la popolazione sradicando ogni forma di solidarietà con le forze antigovernative.

Disappunto

I militari sono stati giudicati e condannati a Lima, nella Sala Penal Nacional. Per Sabino Valentín Rutti 12 anni di carcere; 10 anni per Rufino Rivera Quispe, Amador Gutiérrez Lizarbe, Lorenzo Inga Romero, Epifanio Quiñonez Loyola, Raúl Pinto Ramos, Vicente Yance Collahuacho e Arturo Simarra García; 8 anni per Martín Sierra Gabriele; 6 anni per Pedro Pérez López. Particolare non secondario, nessuno di loro era presente in aula e alcuni risulterebbero espatriati. Per altri tre ex militari la sentenza è stata rinviata in quanto contumaci.
Disappunto e delusione da parte di alcune donne presenti in aula, dato che la Fiscalia aveva chiesto tra i 18 e i 20 anni di carcere.
Una delle vittime ha così commentato: “Mi sento male. La condanna inflitta è troppo leggera. Abbiamo lottato per vent’anni continuando a lavorare, educando i nostri figli, andando ovunque, a destra e a sinistra, per ottenere giustizia. Ma alla fine dobbiamo constatare che in Perù non c’è una giustizia giusta e che le autorità non hanno alcuna considerazione per gli indigeni”.
Va ricordato che il conflitto che ha insanguinato per almeno un ventennio il Perù, tra il 1980 e il 2000, aveva causato 70mila vittime di cui il 75% appartenente all’etnia quechua. In quale percentuale il numero delle vittime sia attribuibile alla guerriglia, all’esercito o genericamente alle forze dell’ordine è ancora oggetto di discussione.
Secondo il documento finale prodotto nel 2003 dalla Comisión de la Verdad y Reconciliación (ampiamente citato nella sentenza) la maggior parte delle vittime di violenza sessuale vivevano nelle regioni di Ayacucho e di Huancavelica. Oltre l’83% degli stupri sarebbero imputabili alle forze statali.
In un precedente procedimento, poi annullato per ragioni procedurali, era stato negato l’intervento di un interprete per la varietà di lingua quechua parlata dalle vittime. Inoltre queste vennero costrette a testimoniare davanti ai loro aggressori. Un secondo processo era stato avviato nel 2019.
L’augurio, come hanno voluto precisare alcune delle vittime, è che “altri processi del genere che si dovessero celebrare in futuro si svolgano in condizioni migliori rispetto a quelle che noi abbiamo dovuto subire”.