Sono trascorse ormai quasi due settimane dall’inizio della rivolta per l’assassinio di Jina Mahsa Amin. Rivolta che dal Kurdistan “iraniano” (Rojhilat) si è estesa all’intero Paese, coinvolgendo ben 156 località. E il numero delle vittime, com’era prevedibile, è andato crescendo in maniera esponenziale. Alcune fonti locali ipotizzano la cifra di almeno 240 manifestanti caduti sotto i colpi della repressione. Gli arresti sarebbero oltre dodicimila, di cui buona parte nel Rojhilat.
Ma nonostante il massiccio dispiegamento di pasdaran, milizie Bassidj e agenti non in divisa che si infiltrano nei cortei, le proteste proseguono autoalimentandosi. Le manifestazioni e gli scontri avvengono soprattutto nelle ore notturne, sia a Teheran sia a Tabriz, Machad, Chiraz, Racht e Karadj.
Soltanto nella serata del 25 settembre gli insorti si sono scontrati con i pasdaran in una decina di zone di Teheran (Narmak, Sadeghieh, Hafthoz, Ekbatan, Sattar Khan…) e sulla superstrada Shariati. Tra gli slogan scanditi: “Abbasso Khamenei, abbasso la dittatura”. Sempre a Teheran sono stati incendiati vari cartelloni propagandistici del regime e alcune moto della polizia. Così nella zona di Narmak, dove altre moto e un’auto della polizia sono state date alle fiamme. Altre manifestazioni si svolgevano contemporaneamente a Pounak, Pardis e Ekbatan. Così come nelle zone universitarie.
A Karadj, per rallentare le proteste, la polizia ha tolto l’elettricità. Invano.
Inoltre dal 26 settembre numerosi insegnanti e studenti universitari sono entrati in sciopero della fame per protestare contro i massicci arresti di studenti.
Ma nel frattempo, adottando la stessa strategia di Ankara, il 28 settembre Teheran ha voluto colpire nuovamente i curdi – perno dell’attuale rivolta contro il regime – anche nel nord dell’Iraq, nel Kurdistan “iracheno” (Bashur).
Una quindicina di persone sono state uccise e una cinquantina ferite (soprattutto donne e bambini, comunque civili) in un assalto dei pasdaran con uso di artiglieria, missili e droni contro un campo di rifugiati curdi a Koysinjaq (a est di Erbil).
Questi attacchi durano ormai da una settimana e ufficialmente avvengono per colpire le basi della resistenza curda iraniana che fornirebbe sostegno alla rivolta in atto. In realtà a essere colpiti sono soprattutto obiettivi e persone civili.
Come a Koya dove il bombardamento di una scuola ha provocato una ventina di feriti tra i bambini.
Due delle ultime vittime appartenevano al PDK-I (partito democratico del Kurdistan d’Iran).
Altri attacchi sono avvenuti contro presunte basi di Komala, del partito per libertà del Kurdistan (PAK) e del partito per una Vita Libera in Kurdistan (PJAK).
Attaccati ormai simultaneamente sia da Ankara sia da Teheran così nel Kurdistan “siriano” come nel Kurdistan “iracheno”. I curdi tuttavia non si arrendono.
Da segnalare la polemica, in realtà una legittima rivendicazione, sorta in merito all’utilizzo generalizzato da parte dei manifestanti dello slogan curdo e femminista “Jin, Jiyan, Azadi” (donna, vita, libertà).
Nel primo giorno della protesta si era cominciato a sentirlo scandire nella città natale di Jina Mahsa Amini, Saqqez. Da qui poi aveva preso piede nell’intero Paese.
Tuttavia, come segnalano (citando uno scritto di Hawzhin Azeez) alcuni militanti curdi, “gli iraniani e le iraniane che lo gridano spesso non ne conoscono né l’origine, né l’autentico significato. Esso rappresenta una lotta avviata ormai da 40 anni [dalla fondazione del PKK], al prezzo della vita di migliaia di donne e uomini curdi in lotta contro il colonialismo turco, persiano e arabo nel Kurdistan”.
A loro consigliano, prima di scandire ancora “Jin, Jiyan, Azadi” di informarsi e di chiedersi se in quanto appartenenti comunque a uno dei gruppi dominanti possano legittimamente appropriarsene.