Il 25 marzo un’altra prigioniera politica, Medya Cinar, ha messo in atto l’estrema protesta, il suicidio, contro l’isolamento imposto a Ocalan e contro la politica repressiva di Ankara. Era rinchiusa dal 2015 nel carcere di tipo E di Mardin. Tornata a Nusaybin dopo essere rimasta ferita (mentre combatteva in Rojava con le YPG contro lo Stato Islamico), era stata arrestata durante un rastrellamento per imporre il coprifuoco. Sottoposta a tortura, come aveva denunciato, si trovava in attesa del processo. In questo momento, mentre scrivo (tarda serata del 25 marzo) il suo corpo è ancora nell’obitorio di Mardin e la polizia si rifiuta di restituirlo ai familiari.
La drammaticità della situazione è ormai a un punto tale che il PKK, con un comunicato, ha richiesto con forza la sospensione di tali “atti individuali”. Atti che comunque rendono l’idea di quanto grave sia la situazione carceraria in Turchia e quella dei prigionieri politici in particolare.
Nel suo comunicato il PKK rende onore a coloro che hanno scelto di mettere fine alla loro vita, ma contemporaneamente chiede agli altri prigionieri di non proseguire con tali gesti definitivi e irreparabili.
Il presidente dell’Associazione per i Diritti dell’Uomo (IHD), Ozturk Turkdogan, e il segretario generale della Fondazione turca per i diritti dell’Uomo (TIHV), Metin Bakkalci, in una dichiarazione congiunta alla stampa sia sulla questione degli scioperi della fame sia su quella dell’isolamento, hanno dichiarato che
le persone che hanno posto fine alla loro vita in questi giorni per protestare contro l’isolamento di Abdullah Ocalan, detenuto nel carcere di Imrali, ci hanno lasciato con una profonda tristezza. Vogliamo ricordare che la vita è sacra. In quanto difensori dei diritti umani, noi difendiamo il diritto alla vita in ogni genere di condizione. Facciamo un appello affinché nessun altro ponga fine ai suoi giorni, in prigione o altrove.
Pur consapevoli di quali siano le tensioni politiche e psicologiche a cui i detenuti vengono sottoposti, hanno voluto ribadire la loro contrarietà a questo genere di azioni; arrivando a definirle “non accettabili” e sostenendo che “non devono essere utilizzate per ottenere la soppressione dell’isolamento”. Una dichiarazione che – a mio avviso – lascia intravedere una possibile spaccatura tra diverse anime del movimento di liberazione curdo. Se vogliamo, tra quella più radicale, rivoluzionaria e quella riformatrice, gradualista.
Ma il comunicato si sofferma anche sul diritto, al momento negato, dei familiari di “seppellire i loro cari secondo la loro religione, le loro usanze”. Mentre invece al momento vengono inumati nottetempo, quasi clandestinamente, dalla polizia. Un metodo definito “irrispettoso e illegale che impedisce ai familiari di vivere il processo del loro lutto”. Del resto cosa aspettarsi da un regime che ormai – almeno nei confronti dei curdi – pare avviato all’istituzione di un autentico apartheid?