La conferma è arrivata il 22 maggio. Com’era prevedibile l’appello per la scarcerazione di Selahattin Demirtas, in quanto candidato alle presidenziali del 24 giugno in Turchia, non è stato accolto dalle autorità giudiziarie. L’ex co-presidente del Partito Democratico dei Popoli (HDP), in carcere dal novembre 2016, rimane a Silivfri. Dietro le sbarre.
Qualche giorno prima Ayhan Bilgen, portavoce di HDP, aveva annunciato di aver “presentato domanda per il rilascio” in quanto ciò avrebbe rappresentato un “prerequisito indispensabile al fine di elezioni che si svolgano sulle medesime basi per tutti i candidati”. Ossia con la possibilità di condurre liberamente la propria campagna elettorale. In precedenza anche l’avvocato di Demirtas, Mahsuni Karaman, aveva evocato tale possibilità peccando, presumibilmente, di eccessivo ottimismo.
Ricordando come non fossero emersi ostacoli alla candidatura dell’ex co-presidente (la sua registrazione era stata approvata immediatamente), Ayhan Bilgen ribadiva la convinzione di HDP che “quello contro Demirtas non è un processo solo giudiziario”.
Accusato sia di “propaganda terroristica” che di “insulti alla presidenza” (e addirittura di “appartenenza a organizzazione terroristica”), Demirtas rischia oltre 140 di galera.
Analizzandone il programma (il nuovo “Contratto Sociale” presentato dai due attuali co-presidenti Pervin Buldan e Sekal Temelli) e le liste dei candidati, emerge con evidenza quale sia l’impegno di HDP nel voler scrivere “una nuova Costituzione per una nuova Turchia democratica fondata sul laicismo liberale, sul pluralismo, sul multilinguismo, sulla multiconfessionalità e la cittadinanza eguale”.
Una nuova Costituzione democratica basata su tali princìpi può essere scritta “soltanto da persone provenienti da àmbiti diversi della società”, come appunto i candidati inseriti nelle liste elettorali di HDP. Liste che esprimono sia le diverse popolazioni presenti nel Paese, sia le diverse credenze religiose, identità, linguaggi e culture (turco, curdo, armeno, assiro, arabo, yazida, cristiano, alevita, musulmano…). Va poi sottolineata la notevole presenza di donne nelle liste.
HDP ha ora in mano una sua “tabella di marcia per la democratizzazione” in grado di affrontare e risolvere “i problemi riscontrati durante il regime di un solo uomo”. Quanto alla fondamentale questione curda, per HDP “la soluzione è collegata al processo di democratizzazione in Turchia. La Pace” – si può leggere nel documento – “non è solo assenza di conflitto, morte e sofferenze” ma “allo stesso tempo un vero lavoro verso la convivenza”. Per questo HDP ha voluto assicurarsi che tutti i settori della società fossero adeguatamente rappresentati nella “Casa comune” anticipata dalle sue liste elettorali (e quindi, un domani, in Parlamento): donne, studenti, giornalisti, politici incarcerati, sindacati, accademici, artisti, esponenti della società civile…
Non mancano ragioni per sperare. Già nel giugno 2015 HDP aveva conquistato il 13,5% dei voti (provenienti, oltre che dai curdi, da una parte dell’elettorato di sinistra, dal mondo ecologista e dalle minoranze oppresse). Poi era scattata la violenta operazione militare contro le città curde del sud-est e in novembre il partito al potere – l’AKP di Erdogan – aveva imposto le elezioni anticipate.
Paradossalmente, anche alcuni dei suoi avversari (Muharren Ince, candidato di CHP e Meral Aksener, candidato di IYI) ne avevano richiesto la scarcerazione. Un appello era giunto, pare, persino dall’islamista Temel Karamollaoglu (ma ovviamente non dal candidato di AKP, Recep Tayip Erdogan).
Sempre in merito alla prossima scadenza elettorale, va segnalata la decisa presa di posizione di Wefan Hisen, co-presidente dell’Assemblea di Shebba (cittadina nel nord della Siria dove avevano trovato rifugio migliaia di persone che non volevano sottostare alla dittatura di Erdogan e che qui avevano contribuito a realizzare l’autogoverno nella prospettiva del Confederalismo democratico).
“Come donne arabe siamo pronte a porre fine alla dittatura”, ha dichiarato Wefan Hisen, invitando contemporaneamente i popoli della Turchia a “ricordarsi degli attacchi contro Afrin mentre andranno ai seggi il 24 giugno”. A suo avviso “le politiche di guerra e di oppressione dell’AKP stanno trascinando la Turchia sull’orlo della guerra. Non solo i curdi, ma anche le popolazioni arabe sono state sfollate con la forza da Afrin dopo gli attacchi”. Per cui ora “le donne arabe sono arrabbiate e non vogliono Erdogan e i gruppi da lui sostenuti sulla nostra terra”.