La recente e sicuramente difficile, decisione del pkk (il partito dei lavoratori del Kurdistan) di sciogliersi e cessare la lotta armata è stata accolta con favore dalla quasi totalità dei commentatori, sia da quelli istituzionali sia dai più movimentisti. Legittimo tuttavia – a mio avviso – mantenere un certo scetticismo, sia pensando al contesto turco, con Erdogan su posizioni sempre più autoritarie (eufemismo), sia per la maniera rapida, calata dall’alto e almeno apparentemente senza discussioni interne e contraddittorio, con cui tale scelta definitiva è stata presa. Oltretutto senza vere garanzie dalla controparte, in particolare sulle prospettive per le migliaia di prigionieri politici curdi dietro le sbarre in Turchia.
Volendo citare Jorge Amado e il suo Tereza Batista Cansada de Guerra, si potrebbe titolare pkk stanco di guerra… Non si esclude infatti che al di là della sacrosanta ricerca di una soluzione politica del conflitto, della preoccupazione per la infinita detenzione Ocalan (e di almeno altri diecimila prigionieri politici curdi sul cui futuro aleggia una totale incertezza) e dell’impossibilità di uscire da una inconcludente “guerra di lunga durata” (fin troppo lunga in effetti), alla fine abbia prevalso un senso di spossatezza, di impotenza… Per cui la proposta lanciata dal leader curdo rinchiuso a Imrali veniva percepita come una estrema, dignitosa via d’uscita. Non proprio una sconfitta o una resa, ma forse un punto di non ritorno, un cambio di prospettiva che potrebbe (condizionale d’obbligo) aprire nuovi scenari e prospettive. Almeno a livello di intenzioni.
Certo, uno scioglimento così repentino lascia un tantino perplessi, così come il ruolo fondamentale assunto dal leader della destra nazionalista di mhp, Devlet Bahceli, tra i fondatori dei Lupi Grigi. Diciamo pure che era lecito aspettarsi un percorso diverso, di estenuanti trattative e reciproche concessioni (vedi la questione dei prigionieri, fondamentale in tutti i processi di pace del secolo scorso, dal Sudafrica all’Irlanda) basate sul do ut des.
A questo punto possiamo dire che i curdi hanno fatto la loro parte (fin troppo). Spetta al governo turco mostrarsi all’altezza dello storico frangente, prendersi le proprie responsabilità e non sprecare l’opportunità che gli è stata offerta. Sarà comunque la Storia a stabilire se sia stata una buona idea o meno. Certo che stando così le cose a livello internazionale, forse non c’erano tante altre alternative.
Da parte turca, oltre al non procrastinabile riconoscimento dei diritti politici e culturali del popolo curdo, prioritaria, essenziale rimane la scarcerazione di Ocalan, la sua “libertà fisica” come chiedono molti esponenti curdi della diaspora. Tra cui Hüseyin Yılmaz, co-presidente del Centro Comunitario Democratico Kurdo (nav) a Berlino. “Affinché il processo di pace prosegua in maniera costruttiva”, aveva dichiarato ancora qualche mese fa, “è fondamentale che Abdullah Ocalan possa guidare il processo in libertà”. Ribadendo che in quanto “fondatore dell’organizzazione, la libertà fisica di Ocalan e la sua partecipazione diretta al processo sono essenziali”. Sottolineando inoltre come dopo il suo appello, il partito dei lavoratori del Kurdistan avesse “preso la storica decisione di autoscioglimento e di porre fine alla lotta armata”.
In conclusione: “Questo non è un fatto qualsiasi. Segna l’inizio di una nuova èra in una lotta di cinquanta anni”. E non si tratta ovviamente di garantire il futuro soltanto del popolo curdo, bensì della convivenza tra tutti i popoli del Medio Oriente attraverso il dialogo e la democrazia.
Certo, finora la Turchia non sembra volersi adeguare più di tanto alla nuova fase. Proseguono infatti gli attacchi contro il Kurdistan del Sud (Bashur, Nord dell’Iraq) dove si trovano alcune basi della guerriglia curda. Con una media tra giugno e luglio di circa 130 bombardamenti settimanali (stando ai dati forniti dall’agenzia Mezopotamya, la quale a sua volta riportava le dichiarazioni di Kamran Osman, portavoce della ong Community Peacemakers).
Non sembra proprio la forma migliore per alimentare un processo di pace.
Ancora più inquietante quanto era accaduto il 28 maggio ad Aleppo, in Siria, quando un previsto scambio di prigionieri tra il regime di Damasco (comunque sotto la supervisione turca) e le autorità curde del Rojava è andato a vuoto in quanto le prigioniere di guerra curde ypj (Yekîneyên Parastina Jin, unità di difesa delle donne) non erano state liberate. Non solo. Sembra siano state trasferite direttamente nelle prigioni turche.
Inevitabile ripensare all’analogo destino subito da Çiçek Kobane (Dozgin Temo). Ferita alle gambe e catturata in Rojava nell’ottobre 2019 dalla banda jihadista Ahrar al-Sham, veniva trasferita in Turchia per essere condannata all’ergastolo in quanto avrebbe “distrutto l’unità e l’integrità dello Stato turco”.

Del resto, da quando è al potere Aḥmad Ḥusayn al-Shara (al-Jolani), la situazione delle donne in Siria – non soltanto di quelle appartenenti alle minoranze curde, druse o alawite – è andata solo peggiorando. Secondo l’agenzia curda anf almeno 635 sono state uccise in Siria dall’inizio del 2025 (dati risalenti a fine luglio, sicuramente per difetto). Per non parlare della loro sistematica esclusione dai processi decisionali in corso per definire il futuro del Paese. Uccisioni, stupri, rapimenti e aggressioni sono ordinaria amministrazione in particolare nelle zone costiere e a Soueïda (Suwayda), dove le vittime civili delle milizie sunnite filogovernative si sono contate a migliaia.
Sempre più drammatica anche la situazione dei minori. Soprattutto per quelli precariamente insediati nei campi profughi. Come denunciava l’agenzia anha, alla fine di luglio almeno tre neonati di famiglie curde sfollate a causa dell’invasione turca da Afrin e Shahba (i gemelli Mohammad e Rohat Abdullah Khalil di un mese e mezzo e Mohammad Abdo Abdo di tre mesi) erano morti per le ondate di calore, con punte di 48 °C, nel cantone di Raqqa (nord-est della Siria). Inoltre, stando alle dichiarazioni del canale ufficiale Al-Ikhbariya, il nuovo governo siriano appare sempre più intenzionato a disarmare i curdi che ancora controllano ampi territori nel nord e nell’est del Paese. Questo in cambio di una generica “integrazione” delle loro istituzione autonome nello Stato, e delle forze democratiche siriane (Hêzên Sûriya Demokratîk, definite “braccio armato” dei curdi siriani) nell’esercito siriano (da cui comunque sarebbero escluse in quanto donne le miliziane delle ypj).
In una intervista diffusa da al-Yaum TV, il portavoce delle fds Farhad Shami ha dichiarato che “la consegna delle armi è una linea rossa”. Per ora invalicabile par di capire. In pratica, le fds attualmente non sarebbero tenute a sottoscrivere l’appello di Ocalan e la scelta del pkk.
Tornando allo scioglimento del pkk, lascia leggermente interdetti l’entusiasmo che ha suscitato in ambienti, associazioni e personaggi che finora sulla “questione curda” sostanzialmente avevano nicchiato, tentennato o comunque puntato “al ribasso”. Pensiamo a D’Alema (peraltro abbastanza apprezzato dai curdi, va detto) nonostante le sue indubbie responsabilità nell’aver contribuito, scacciandolo dall’Italia dove aveva chiesto asilo politico (forse per non urtare gli usa), a consegnare Ocalan mani e piedi legati alla Turchia.
Tra le iniziative degne di nota, la conferenza stampa Verso la pace e una società democratica in Turchia – Libertà per Abdullah Ocalan e tutti i detenuti politici che si era tenuta ai primi di luglio in una sala del Senato della Repubblica, promossa dal senatore Giuseppe De Cristofaro. Imperniata sul “ruolo chiave” di Abdullah Ocalan per una soluzione pacifica della Questione Curda.
Così come il precedente summit internazionale sullo stato del processo di pacificazione in Turchia a Istanbul (1 e 2 luglio) a cui avevano partecipato una quarantina di persone tra giuristi, scrittori, sindacalisti, parlamentari, esponenti della politica e della società civile. Numerosi gli italiani.
Significativo l’intervento di Jakob Migenda (membro del partito della sinistra tedesca Die Linke) riportato dall’agenzia Mezopotamya. Oltre a sottolineare l’importanza della solidarietà verso la lotta dei curdi per la pace, la giustizia e la libertà, Migenda ha stigmatizzato le responsabilità della Germania nel sostenere il regime turco, a livello diplomatico ma anche con l’invio di armi. Attualmente circa il 90% degli armamenti comprati da Ankara sarebbe di provenienza tedesca.
Contemporaneamente, ricordava sempre l’esponente di Die Linke, il pkk rimane illegale in territorio tedesco rendendo perseguibili penalmente le attività di solidarietà con il movimento curdo, anche quelle di contro-informazione. Inoltre si registrano diversi casi di rifugiati politici curdi rispediti in Turchia. Anche recentemente, il 25 luglio, un tribunale di Amburgo aveva accusato due sessantenni curdi di appartenenza al pkk. In particolare di “attività organizzative, finanziamenti (raccolta fondi) e propaganda” in Schleswig-Holstein e Mecklenburg-Pomerania occidentale dal 2020 al 2025 (in virtù degli articoli 129a e 129b).
Contemporaneamente, sempre il 25 luglio come riporta il comunicato, una delegazione del partito dem (partito per la democrazia e l’uguaglianza dei popoli) ha incontrato Ocalan e scambiato “opinioni sui nostri recenti incontri come delegazione con il Presidente, il Ministro della Giustizia e i leader dei partiti politici”. Commentando inoltre la “cerimonia dell’11 luglio” quando un gruppo di combattenti del pkk ha pubblicamente, platealmente, distrutto con il fuoco decine di ak-47 (in una cava di Jasana, a circa 50 km. da Sulaymaniya nel bashur, Kurdistan iracheno). “Cerimonia” (a cui pare abbia assistito anche qualche esponente dell’intelligence turca) che l’anziano leader curdo ha detto di aver molto apprezzato in quanto esprimeva “convinzione e determinazione per la pace”. Aggiungendo di aspettarsi che “il lavoro attualmente all’ordine del giorno della commissione della grande assemblea nazionale di Turchia (tbmm) contribuisca in modo significativo alla pace e alla democrazia attraverso un approccio globale e inclusivo”.
Lotta come simbolo universale
In attesa di saperne di più su come andrà a finire, ricordo che la coraggiosa, dignitosa, eroica lotta curda per l’autodeterminazione è stata universalmente percepita come un simbolo e merita assoluto rispetto. Ma forse è un simbolo che ora la dirigenza curda sembra volersi scrollare frettolosamente di dosso. Con la smobilitazione di una visione del mondo, il confederalismo democratico, che al mondo stesso aveva offerto una nuova speranza di redenzione (femminismo, autogoverno, ecologia sociale). Accettando (vedi le dichiarazioni di Ocalan e delle leadership curda) quelli che vengono definiti i “principi di uguaglianza, autonomia culturale e partecipazione democratica all’interno dello Stato” per diventare un “partner pacifico nel quadro costituzionale turco”. Accantonando un principio radicale e fondamentale della resistenza curda: percepirsi come entità al di là (“oltre”) dello Stato turco.
Se possiamo identificare come cause principali della smobilitazione l’inevitabile stanchezza, il logoramento dovuti a quarant’anni di guerra con il peso ormai insostenibile delle molteplici aggressioni e persecuzioni, degli innumerevoli sacrifici (oltre che delle speranze irrealizzate), un’altra andrebbe individuata nella dipendenza dalla figura (ritenuta “insostituibile”) di Ocalan. Paragonabile in questo al Mandela sudafricano, ma in un contesto comunque diverso (in Sudafrica i neri erano la stragrande maggioranza). A cui probabilmente andrebbe aggiunta la collaborazione con gli Stati Uniti che potrebbe nel tempo aver annacquato l’ideologia stessa del confederalismo democratico (rinunciando per esempio alla “sovranità nazionale” in cambio di una indefinita. aleatoria “partecipazione”).
Ovviamente la scelta spetta ai curdi. Si tratta della loro terra, della loro storia, della loro identità, del loro destino. E anche, purtroppo, del loro nemico che hanno imparato a conoscere a loro spese. Per chi teme che con le trattative in corso (non proprio segrete, ma sicuramente “discrete”) si finisca con l’assistere al ripetersi del fallimentare copione del 2015, va sottolineato che stavolta praticamente quasi tutti i partiti sia turchi sia curdi (con qualche eccezione nell’estrema sinistra rivoluzionaria) si sono pronunciati per un accordo tra “belligeranti”, vuoi per convinzione, vuoi per forza di cose. Accomunati dalla necessità di risolvere una situazione economica (come l’inflazione) e politica sempre più deteriorata. Insostenibile per una Turchia che aspira a un rilevante ruolo geostrategico.
Per alcuni osservatori (paradossalmente) proprio il fatto che l’iniziale proposta sia partita da Devlet Bahceli, leader del movimento nazionalista mhp e alleato di Erdogan, potrebbe rappresentare in qualche modo una garanzia di buona fede da parte del governo turco. Al fine di garantire stabilità e sicurezza alle vie del gas e del petrolio che già attraversano la Turchia e per quelle che dovrebbero percorrerla in un futuro prossimo.
A voler essere ottimisti, ci sarebbe anche qualche timido segnale positivo.Tanto da poter affermare che – forse – comunque “qualcosa si sta smuovendo”. Andrebbe letta in tal senso la liberazione a fine luglio (dopo 31 anni e tre mesi, oltre un anno dopo la conclusione effettiva della pena a 30 anni) del prigioniero politico curdo, considerato un dirigente del pkk e finora segregato nell’isola-prigione di massima sicurezza di tipo F di Imrali (dove è rinchiuso anche Ocalan).

Per concludere, almeno provvisoriamente. Resta fuori discussione che la resistenza curda (sia in generale sia quella di pkk, ypg, ypj, pjak, Komala, in particolare) va considerata uno dei movimenti di liberazione più organizzati, progrediti e duraturi del Medio Oriente degli ultimi cinquant’anni. Così come il fatto incontestabile che il pkk non è mai stato soltanto un’organizzazione combattente, ma soprattutto un vera e propria istituzione in grado di alimentare l’autonoma riorganizzazione della società curda sul piano politico, culturale, sociale.
Per cui possiamo azzardare che comunque vada “non finisce qui”.