Le strade in terra battuta della Costa d’Avorio, su al nord, ai confini con Burkina Faso e Mali, sono interminabili, rosse come il sangue, isolate e inquietanti, circondate dalla vegetazione spinosa e impolverata, chilometri di buche e caldo torrido. Le note musicali di Talking Timbuctu vibrano nell’aria pesante all’interno del fuoristrada; il grande Ali Farka Tourè, celebre musicista maliano, è la colonna sonora ideale lungo le piste del Sahel, ossigeno puro per lo spirito.
Incontrare automezzi nella direzione opposta è raro, e obbliga a importanti rallentamenti e cambi di corsie, nel tentativo di evitare sprofondamenti nelle grosse buche della carreggiata. Guasti meccanici e danni agli pneumatici sono la quotidianità. Dopo qualche ora è normale non ricordarsi quale sia stato il punto di partenza, mentre la mente cerca di immaginare quale, e soprattutto quando, ci sarà un punto di arrivo. Da questo nulla apparente ogni tanto sbuca qualche figura solitaria, una donna con un cesto sulla testa, bambini con un recipiente per l’acqua, un cane randagio del bush.
Ma il cuore ha una battuta d’arresto alla vista in lontananza di un kalashnikov imbracciato da un individuo non ben identificabile, vestito di pelli e stracci non inquadrabili in alcuna milizia nazionale; e la mente rievoca in un attimo terribili immagini di massacri e guerre sanguinarie che questo Paese, e la vicinissima Liberia, ancora non hanno dimenticato.
Il posto di blocco è costituito da una capanna fatiscente, una tettoia di legno sgangherata, un tavolino precario e qualche sedia di plastica occupata da un manipolo di individui altrettanto armati.
Difficile mantenere la calma.
Tutto si svolge rapidamente: due parole al conducente, un’occhiata nera come la pece, e si riparte.
Nemmeno il tempo di capire cosa sia successo, che la polvere inghiotte cose e persone, e passata la prima curva si ha l’impressione che la scena sia stata solo un’idea.
E invece no: sono i Dozo, i cacciatori di Korhogo.
Non si tratta di un gruppo etnico, ma piuttosto di una società, come ne esistono molte nella cultura africana, parallela alla comunità locale, legata perlopiù al mondo della caccia e della ritualità occulta che gestisce la sicurezza e la protezione dei villaggi. Una rete sociale, che raggruppa gli iniziati guerrieri-cacciatori, e che prende diversi nomi a seconda dei Paesi in cui si è radicata: Kamajor in Sierra Leone, Donso in Guinea e Mali, Dozo in Burkina Faso e Costa d’Avorio.
Una fratellanza basata su valori e conoscenze ancestrali indissolubili e incontestabili. I Dozo fin dalla loro iniziazione imparano i codici sui quali si fonda tutta l’attività che sono chiamati a svolgere nel loro territorio, volta fondamentalmente al mantenimento dell’armonia circolare delle cose, dell’equilibrio universale: la caccia, la ricerca della selvaggina, i riti propiziatori per la cattura e le offerte per placare l’ira della natura e assicurare cibo sano alla comunità; la lotta anti-stregoneria tramite preghiere, formule magiche, conoscenza approfondita delle virtù delle piante; non ultimo la sicurezza del villaggio da eventi esterni e straordinari, e da quelli interni: anche la morte stessa di un Dozo può sconvolgere l’equilibrio della comunità e dei rapporti tra Dozo e non Dozo, uno squilibrio che va colmato con offerte e pronunciazioni magiche per riportare la pace tra vivi e defunti.
Un ruolo, il loro, che non è passato inosservato negli anni di guerra civile, e che è diventato fortemente attivo nei conflitti stessi. Già negli anni novanta la polizia ufficiale, incapace di gestire la sicurezza dei cittadini, ha beneficiato a lungo della collaborazione dei Dozo, tanto nella difficile gestione dei conflitti tra pastori peul e agricoltori senoufo, quanto nella lotta alla criminalità dilagante di fronte alla quale gli stessi gendarmi corrotti e incapaci si trovavano totalmente impotenti.
Si raccolgono molti racconti di persone europee, residenti in quelle zone per motivi di lavoro e costretti a vivere barricati in casa nel terrore di omicidi e assalti notturni, che narrano di milizie parallele alla guardia civile, più simili a stregoni che a poliziotti, in grado però di tenere a bada i banditi con gris gris, amuleti e sortilegi.
Si racconta che le loro vesti cariche di ogni sorta di ninnoli propiziatori fungano da corazza impenetrabile a ogni attacco, fisico o psichico, rendendoli invulnerabili addirittura al fuoco.
La loro fama di invincibili e il timore riverenziale della comunità nei loro confronti, fecero sì che il governo ne chiedesse la collaborazione anche durante la guerra civile. Senza voler entrare nei dettagli di un conflitto lungo, complicato, pieno di colpi di scena come forse solo nel continente africano siamo abituati a vedere, possiamo affermare che i Dozo si sono trovati a ricoprire diversi ruoli, ora del buono ora del cattivo, vestendo i panni tanto dei ribelli quanto dell’esercito regolare, insomma una tale commistione che li vede custodi dell’ordine pubblico ma anche protagonisti di atroci pulizie etniche.
Giocoforza sono divenuti bersaglio di organizzazioni umanitarie e di dossier post guerra civile redatti da Amnesty International che documentano atti di omicidio, stupri e torture avvenuti soprattutto nelle zone di Korhogo e Odienné.
In sostanza possiamo affermare che si sono ritrovati vittime di un regime basato sulla violenza, che li ha militarizzati senza riconoscerli come parte ufficiale della sicurezza pubblica, e che li ha poi demonizzati per aver tradotto la violenza in maniera tangibile.
Pur facendo parte di un flusso storico culturale importante, a tutt’oggi si ritrovano esclusi da un serio ed effettivo processo di integrazione sociale, intrappolati in una identità “non catalogata nella società moderna”… parere del tutto personale ovviamente.
Tuttavia troviamo notizia sul web di iniziative di delegazioni e capi dozo atte a combattere la decadenza della confraternita, che fanno onore all’antico spirito di orgoglio e dignità che anima questa comunità.
Vi sono molti studi in corso in tal senso, molte le domande a cui antropologi e storici proveranno a rispondere. 1) Certamente una riflessione è d’obbligo: quanto danno può fare il potere sull’animo umano, seppur tra i più nobili?
N O T E
1) Per approfondire, suggeriamo la lettura di La Confrérie Des Chasseurs Malinké Et Bambara, dall’etnologo maliano Youssouf Tata Cissé, pubblicato nel 2004.
L’immagine di copertina è di Terry Bianchi.