Non solo in Zimbabwe (di cui si era già parlato per il litio), ma anche in Marocco, Burkina Faso, Congo, Mali, Sudafrica: attorno all’“estrattivismo” ruotano sempre più i possibili scenari futuri dell’Africa. Alle tradizionali risorse minerarie come oro, argento, diamanti, rame e manganese, si aggiungono coltan, cobalto, grafite, litio…
E mentre per le compagnie, sia internazionali sia locali, gli affari si preannunciano a gonfie vele, all’orizzonte vanno profilandosi ulteriori nuovi conflitti.
Se, come recitava negli anni settanta la rivista “Hérodote” (di cui conservo gelosamente due-tre numeri dell’edizione italiana pubblicati dal mai dimenticato Bertani), “la geografia serve a fare la guerra”, parafrasando possiamo aggiungere che “la geologia la determina”. O quantomeno la indirizza e alimenta. Per cui, volendo azzardare ipotesi sui futuri conflitti, sarebbe opportuno munirsi di aggiornate carte minerarie.
Litio, cobalto, stagno, rame, grafite, nickel, eccetera, risultano indispensabili per quella fantomatica “transizione energetica” (dove l’unico verde identificabile sembra quello dei dollari) a cui tendono in maniera talvolta spasmodica compagnie minerarie e produttori di automobili. Con il continente africano che al momento sembra essere quello più ambìto. Convinti – soprattutto le compagnie minerarie e alcuni governi, africani e non – che molte risorse minerarie dell’Africa finora siano state non adeguatamente sfruttate (qualcuno dice “trascurate”). Ora evidentemente costoro intendono rimediare alla dimenticanza riattivando antiche miniere e aprendone di nuove; e pazienza per l’ambiente e le popolazioni indigene, ovviamente.
Sudafrica: meglio il litio del carbone?
Il litio? Non solo in Zimbabwe a quanto sembra. Dal 2023, stando a una recente dichiarazione, la compagnia mineraria Marula Mining darà il via alla vendita di litio a una filiale della lussemburghese Traxys. Quanto alla provenienza del minerale, sarebbe la miniera di Blesberg, in disuso da tempo e riaperta nel dicembre 2022. Anche se per ora i lavori proseguono lentamente e su piccola scala, in attesa di ulteriori perforazioni e carotaggi.
Oltre al litio (sotto forma di spodumene, che qui ne contiene in misura del 6-7%), la miniera sarebbe in grado di fornire anche tantalio.
Ma in materia di miniere non son tutte rose e fiori per il Sudafrica. Quelle abbandonate di carbone, per esempio, rappresentano, oltre a una potenziale fonte di pericolo, una documentata fonte di inquinamento per le sorgenti e le falde acquifere, ossia una grave minaccia per la salute delle popolazioni. O almeno è quanto sostiene Human Rights Watch in un suo recente rapporto (The Forever Mines: Perpetual Rights Risks from Unrehabilitated Coal Mines in Mpumalanga, South Africa) con cui accusa il governo sudafricano di non garantire la bonifica, il risanamento delle miniere abbandonate. Insomma, di non aver fatto nulla per contrastare tale “eredità tossica”.
E ovviamente vengono messe sotto accusa anche le compagnie minerarie che “per anni hanno tratto profitti dallo sfruttamento del carbone, ignorando però le proprie responsabilità al momento di ripulire, bonificare il degrado, l’inquinamento che si sono lasciate alle spalle”, affidando sovente alle comunità locali l’onere di rimediare ai danni.
Alla realizzazione del dossier di Human Rights Watch hanno contribuito decine di esponenti delle comunità locali (compresi i genitori di numerosi bambini che hanno perso la vita precipitando in pozzi a cielo aperto), rappresentanti di associazioni locali e di ong, ricercatori universitari e personale sanitario. E anche molti “minatori individuali” o che operavano comunque a livello artigianale e al di fuori delle compagnie minerarie, in genere tra i residui dei siti abbandonati con gravi conseguenze per la salute.
Lo ha ben documentato Human Rights Watch riportando oltre 300 decessi di questi informali chiamati zama zama. Deceduti in gran parte per il crollo dei tunnel, per intossicazione da gas o incidenti con esplosivi. Inevitabile un raffronto con i garimpeiros di Brasile e dintorni o con i minatori, in genere persone anziane o giovanissime, che scavavano (scavano?) tra residui e scarti delle miniere boliviane.
Su circa 2300 miniere prese in esame e classificate “ad alto rischio” (tra cui sono centinaia quelle di carbone), soltanto 27 sono state bonificate in Sudafrica. Si tratta di quelle da cui si ricavava l’amianto; in genere quell’“amianto nero”, più nocivo ma meno costoso da estrarre, che ha distrutto la salute di migliaia e migliaia di minatori neri.
Specificatamente per quelle di carbone, si è potuto documentare come i residui minerari esposti alle intemperie contribuiscano ad aumentare notevolmente l’acidità dell’acqua e dei terreni. Il fenomeno conosciuto come “drenaggio minerario acido” provoca sia l’inquinamento delle acque sia la sterilizzazione dei terreni, oltre a corrodere e danneggiare irreparabilmente le infrastrutture di approvvigionamento dell’acqua potabile.
Affari… d’oro in Marocco
Novità rilevanti anche dal Marocco con l’ormai centenaria compagnia Managem, sempre più “leader regionale”, ma con aspirazioni evidentemente “continentali”, nell’industria mineraria africana. Da circa vent’anni va ampliando il suo raggio d’intervento in Sudan (oro), Gabon, RdC (sarà mica per il coltan?) e Guinea (ancora per l’oro).
Verso la fine di dicembre il direttore generale di Managem ha annunciato di aver sottoscritto un accordo (una transazione dal valore di circa 280 milioni di dollari) con la canadese Iamgold Corporation per acquisire la proprietà di alcuni progetti di estrazione aurifera in Mali (progetto Diakha-Siribaya), Senegal (progetti Boto, Boto ovest, Daorala, Senala ovest) e Guinea (progetto Karita).
Con la dichiarata intenzione di aumentare la propria produzione di oro, dato che finora si era posizionata ben lontana dai livelli di produzione di compagnie maggiori come Iamgold, Endeavoure, B2Gold e Kinross Gold.
Il Mali verso la liberalizzazione?
Mentre il regime militare del Mali annunciava la creazione di una compagnia mineraria nazionale, quasi contemporaneamente, i primi di dicembre, dal ministero delle Miniere arrivava un comunicato con cui si apriva la strada a significative liberalizzazioni in materia di “permessi di esplorazione e permessi di sfruttamento minerario”.
Con ogni probabilità, viste le recenti difficoltà incontrate nel settore, lo Stato ritiene così di attrarre investimenti stranieri nello sfruttamento delle risorse.
Ma non tutti esultano, ovviamente. Per esempio i portavoce di un consiglio locale della zona aurifera di Kenieba (regione di Kayes, dove già sono attive una mezza dozzina di società minerarie) hanno protestato vigorosamente in quanto, “prima di concedere i permessi di esplorazione e di sfruttamento, si deve consultare la popolazione”. Per “valutare l’impatto ambientale” e sapendo che “verranno espropriate terre coltivabili per cui alla popolazione si dovrà quantomeno offrire delle adeguate compensazioni”.
Per la cronaca: attualmente tra i minerali estratti in Mali, l’oro rappresenta il 10% del pil e circa l’80% delle esportazioni.
Sterili polemiche sul Burkina Faso
Da segnalare anche la polemica (strumentale?) scatenata dal presidente del Ghana, Nana Akufo-Addo, mentre si trovava (guarda caso) a Washington. Accusando il Burkina Faso di aver ceduto alla compagnia russa Wagner una miniera d’oro a pagamento dell’intervento militare contro l’insorgenza jihadista.
Notizia immediatamente smentita da Simon Pierre Boussim, ministro di Energia, Miniere e Cave, durante una conferenza stampa organizzata il 20 dicembre con l’itie-Burkina (comitato per la trasparenza nelle industrie estrattive) nella capitale Ouagadougou dell’ex Alto Volta.
In realtà in Burkina Faso esiste già una presenza russa in campo minerario (si parla di tre miniere sfruttate da Nordgold). Ma qui operativa da oltre dieci anni.
La zleca si va espandendo
Risale a tre anni fa l’annuncio da parte di Albert Muchanga (commissario allo sviluppo economico, al commercio, all’industria e all’attività minerarie dell’Unione Africana) di consultazioni amichevoli tra due delle maggiori entità minerarie dell’Africa: il Congo e lo Zambia. Nazioni nei cui territori sono sepolte ingenti quantità di minerali fondamentali per la produzione delle batterie per i veicoli elettrici e che ora, in base ai futuri accordi, dovrebbero poterle produrre autonomamente e direttamente.
A suo tempo, per esporre i progressi di tale progetto Muchanga aveva scelto l’occasione del Mining Indaba, il maggior meeting del settore minerario africano.
E fondamentale, ricordo, era stato l’anno scorso il ruolo di Muchanga nel veder ratificare l’accordo sulla zona di libero-scambio continentale africano (zleca).
E gli usa non stanno a guardare
Gli Stati Uniti non stanno a guardare naturalmente. È stato recentemente firmato da Washington un un memorandum d’intesa con RdC e Zambia (quelli con i maggiori giacimenti di cobalto e rame) sui metalli per le batterie. Nell’accordo è previsto un investimento da 55 miliardi di dollari nel giro di tre anni. Fondi elargiti dalla Minerals Security Partnership (vi aderiscono Corea del Sud, Canada, Australia, Regno Unito, Giappone) a sostegno dei sistemi sanitari, per la tutela del lavoro femminile, nella lotta ai cambiamenti climatici…
Ma anche, o soprattutto, per investire nei progetti per le auto elettriche, al fine dichiarato di contrastare l’egemonia cinese (visto che Pechino, a titolo di esempio, controlla già gran parte delle miniere di cobalto nella RdC).
Come ha preannunciato il segretario di Stato, Antony Blinken, “Washington esplorerà meccanismi di finanziamento e di sostegno agli investimenti nelle catene africane dei veicoli elettrici”.
In pratica verranno finanziate sia le estrazioni minerarie sia la lavorazione dei metalli estratti (raffinerie e affini). Oltre alle operazioni di riciclaggio. Alla vasta operazione partecipano alcune case automobilistiche (General Motors, Ford, Tesla…) e le compagnie minerarie Albemarle e Piedmont Lithium.
Ennesimo ecocidio in Congo
Suscita preoccupazione questo ulteriore coinvolgimento della RdC in progetti estrattivi di rilevanza internazionale. Sia per la drammatica situazione in cui versano le popolazioni del nord-est del Paese (sotto accusa l’estrazione del coltan e le milizie di M23 sostenute dal Ruanda), sia per il già bistrattato ecosistema naturale. Ça va sans dire, soprattutto nelle zone sottoposte a estrazioni petrolifere o minerarie e alla deforestazione.
Anche per diretta responsabilità del governo congolese che “svende le foreste che dovrebbe proteggere” (come denunciava un portavoce di Greenpeace).
Governo e ministri sotto accusa non soltanto da parte dei “soliti” ambientalisti, ma anche da associazioni di studiosi e scienziati. Come il consiglio per la difesa ambientale attraverso la legalità e la tracciabilità (codelt) e l’acedh (una ong regionale) che hanno condotto studi approfonditi sulla foresta pluviale della Cuvette Centrale (provincia di Ituri, sotto stretto controllo militare dal maggio del 2021), dove appunto si estraggono gas, petrolio e oro.
Sarebbero soprattutto le miniere aurifere, in continua espansione anche nelle aree protette, a contaminare o distruggere gli ultimi lembi di foresta pluviale dove sopravvive un mammifero raro (da “lista rossa”), a rischio estinzione, come l’okapi. Oltre ad abbattere le piante e dragare illegalmente i fiumi, i minatori si dedicherebbero al bracconaggio.
Da quasi un decennio l’area viene sfruttata – previo accordo con il governo – dalla compagnia Kimia Mining. L’anno scorso ben 205 ong locali, a cui si associava Greenpeace, avevano chiesto al governo della RdC di ritirare le concessioni minerarie alla società cinese. O almeno quelle all’interno della riserva naturale per le okapi.
D’altra parte per l’Africa, con una perdita annua di quattro milioni di ettari di foreste, questo è “mal comune” (ma senza “gaudio” ovviamente). In base agli atti recentemente pubblicati dalla National Academy of Sciences, l’aumento esponenziale delle attività estrattive in aree forestali costituisce il 47% (oltre 3200 chilometri quadrati) della distruzione delle foreste tropicali dal 2000 a oggi. Soprattutto in Ghana, Tanzania, Zimbabwe e Costa d’Avorio.