Premessa. Assuefatti come siamo ai ricorrenti incidenti alpinistici, per quanto mi riguarda la notizia di quello capitato in una grotta del vicentino, la Poscola, non mi avrebbe provocato altro che un perplesso commento. Incidenti, tra l’altro, in costante aumento forse proprio a causa dell’eccessivo interventismo degli elicotteri del soccorso alpino (in sostanza: se sai che in caso di contrattempo, tecnico o atmosferico, rimani appeso in parete o bloccato sul ghiacciaio, ci pensi due volte prima di avventurarti… e magari ripieghi su un’escursione più sicura o vai al bar). E il discorso vale, almeno in parte, anche per la speleologia visto che, dopo aver estratto l’incauto, è quasi sempre l’elicottero a trasportarlo celermente all’ospedale.
Ma qui si trattava della Poscola. Un mito adolescenziale per il sottoscritto fin dagli albori della mia attività speleologica (seconda metà degli anni sessanta). Percorsa ancora prima delle “imprese” alla grotta del Torrione di Vallesinella (agosto 1968), delle “prime” alle voragini dello Spitz e del Paradiso (1970 circa), del Finestron sul Grappa, o dell’onore di avere – senz’altro indegnamente – percorso per primo il cunicolo (viscido e fangoso) di comunicazione tra il Ramo Destro e il Ramo Sinistro del Buso della Rana (1971, forse).
La Poscola dicevo. All’epoca ancora poco conosciuta, per lo meno come grotta. Al massimo quando ne parlavo con qualche amico alpinista, costui la confondeva regolarmente con la “Borcola” (il passo tra Pasubio e Monte Maggio, sopra Posina). Caso mai godeva di una maggiore notorietà il torrente che vi fuoriesce e che dopo un non brevissimo tragitto andava e va a sfociare nell’allora inquinatissimo Guà. Ancora nella seconda metà degli anni settanta, dai microfoni di Radio Vicenza (quella fondata dal compianto Rino Refosco) si denunciava ad alta voce come questo corso d’acqua venisse pesantemente contaminato da sostanze tossiche di varia natura. Tra cui i nitroalogenoderivati (NAD o BTF nel 1977) provenienti, pare, dalla RIMAR (Ricerche Marzotto). All’epoca – mi “rassicurano” – addirittura legalmente…
Caritatevolmente sorvoliamo sulle successive vicende relative alla MITENI, sua derivata (vedi lo “scandalo” della Zanoobia, la nave dei veleni in Nigeria; vedi l’altro scandalo, più noto, dei tensioattivi perfluorurati, universalmente conosciuti come PFAS).
E dato che non c’è limite al peggio, per non farci mancare niente, nel 2017 vi fu anche il crollo dell’alveo provocato dai lavori per la nuova superstrada pedemontana.
Ma lasciando da parte il torrente omonimo, tornerei a occuparmi della Poscola in quanto grotta.
Se non ricordo male la mia prima “esplorazione” completa della cavità dovrebbe risalire al 1967 o 1968. Con Tiziano Zanella avevamo raggiunto in bici Priabona verso sera, appena in tempo per individuare un ampio spazio aperto e piantare la tenda. Al mattino presto fummo repentinamente strappati a Orfeo dal lacerante rombo delle moto in arrivo su quella che in realtà era una pista da motocross. Tolti frettolosamente i picchetti e levata la tenda – appena in tempo prima che un gruppo di centauri ci travolgessero balzando in alto da un dosso soprastante – accendemmo la lampade a carburo penetrando nel buio anfratto.
Sinceramente di quel giorno non ricordo altro. O meglio, i ricordi si confondono con quelli successivi di decine di altre visite. Sia con amici con cui condividere la mia passione, sia in seguito con i figli fin da piccoli. Una grotta tranquilla, senza – almeno apparentemente – pericoli o inconvenienti. Come diceva qualcuno con un brutto ma efficace paragone: una sorta di “aperitivo” prima del favoloso e impegnativo “Buso della Rana” (all’epoca ancora considerata la grotta più lunga del territorio italiano) che si apriva poco lontano lungo la strada per Monte di Malo.
Un doveroso accenno anche al paese, Priabona, dove la grotta si apre e sgorga il torrente: ebbe l’onore di battezzare già nel 1893, su proposta di due geologi francesi, nientemeno che un tempo geologico, il Priaboniano appunto, ultimo “stratotipo” dell’Eocene.
Di composizione marnosa, il suo limite inferiore – mi spiegano – è caratterizzato dalla comparsa di nanoplancton calcareo (Chiasmolithus oamaruensis), quello superiore dall’estinzione dei foraminiferi del genere hantkenina.
Questo per la geologia. Ma in passato il paese, o meglio i suoi abitanti godevano di pessima fama, in quanto piuttosto “rognosi”. Diciamo combattivi, refrattari all’ordine costituito, forse per le ascendenze vagamente cimbre (siamo pur sempre nei Lessini orientali, quelli “vicentini”) se non addirittura longobarde.
Due episodi emblematici.
Tutti i vicentini doc conoscono la statua all’esterno del Duomo che raffigura un vescovo, Giovanni de Surdis Cacciafronte, con un pugnale infisso nel petto. In memoria dell’assassinio risalente al 16 marzo 1184 dell’alto prelato da parte di un certo Pietro di Pietramala, l’attuale Priabona. Si ritiene che il mandante fosse il conte Uguccione e comunque l’esecuzione nasceva direttamente dal conflitto ideologico-religioso in corso tra guelfi e ghibellini.
Altra ipotesi. Una ritorsione per le dure persecuzioni, ordinate dal vescovo, subite dagli eretici vicentini (veri o presunti), in particolare dai catari locali.
E ancora. Quando le truppe napoleoniche si erano accampate nei pressi di Malo, nottetempo vennero assalite da un gruppo di priaboniani che riuscirono a impadronirsi anche di alcune bandiere di un reggimento. Il giorno dopo i francesi partirono all’attacco del paese ribelle, ma dovettero desistere in quanto i sentieri erano stati interamente riempiti con fascine di arbusti spinosi rendendoli inaccessibili. Da qui – e da altro – la fama di duri.
Va anche ricordato che con i decreti napoleonici venne disciolta la Confratenita del Gonfalone (erede della fratalea, o fraglia, S. Mariae de Domo) che aveva per patrono proprio Cacciafronte.
Questo e altro mi tornava fatalmente alla mente leggendo della tragica vicenda in cui un riminese ha perso la vita mentre andava alla ricerca di fossili all’interno della grotta. O almeno era questa l’ipotesi formulata da un esponente del gruppo speleologico di Malo: la fatale lastra di roccia si sarebbe quindi staccata per il tentativo di estrarne un fossile. A martellate ovviamente.
Ora, con tutto il rispetto dovuto a chi muore, direi che forse non era il caso. In questi ultimi 50 anni ho assistito a devastazioni di ogni genere in grotte, splughe, covoli e cavità varie. Sia da parte di chi si vuole portare a casa un souvenir (stalattiti, stalagmiti, fossili), sia da chi opera un autentico sterminio (il termine non è usato casualmente) di chirotteri, insetti e crostacei troglobi (magari sotto copertura “scientifica”), talvolta anche mettendoli poi in commercio su internet.
Gli esempi si sprecano. Pensando solo a Lumignano, dalla “Grotta del tesoro” (così chiamata per essere in passato un autentico scrigno, ricoperta di concrezioni sia sul soffitto sia sulle pareti) ormai trasformata in anonima cava, alle grandi stalattiti del Broion ridotte a moncherini da qualche esuberante freeclimber padovano. Sorvolando – ne ho già parlato anche qui – sulla strage di pipistrelli di un paio di anni fa alla Grotta della Guerra.
Oppure – e voglio vedere chi me lo contesta – l’utilizzo di esplosivi, definiti eufemisticamente “microcariche”, per aprire passaggi e superare strettoie inaccessibili. Non soltanto per mano di speleologi fai-da-te, ma anche da gruppi socialmente riconosciuti. In almeno un caso (vedi la “Grotta di Sante” sempre a Lumignano) mentre percorrevo ignaro la Val Cumana, mio malgrado, mi è capitato di assistervi senza poterlo impedire.
Insomma, come per altre attività del “tempo libero” sarebbe forse il momento di interrogarsi sul loro impatto ambientale e magari darsi una regolata. O almeno finirla di blaterare di “amore per la Natura”. Che di sicuro non è ricambiato.