Quando sono nate le favole? A chi erano rivolte in origine? E cosa intendevano gli antichi con il termine col quale oggi nella lingua italiana si identificano le “favole”? Questi sono i primi interrogativi a cui dobbiamo provare a dare una risposta se vogliamo davvero conoscere il mondo delle favole sia nel suo evolversi storico che nella sua funzione culturale, pedagogica e sociale.
L’evoluzione storica
Il termine italiano “favola” (fable in inglese e in francese, fabel in tedesco, fabula in spagnolo, басня [basnya] in russo), deriva dal latino fabula, collegato a sua volta al verbo fari che significa “dire”, “raccontare”. L’etimologia, dunque, ci dimostra già chiaramente quanto sia antica questa forma letteraria, legata a brevi racconti in prosa o in versi di carattere morale che avevano come protagonisti uomini o animali parlanti, simboli essi stessi della varia umanità.
Il genere favolistico, tuttavia, ebbe origine ben prima di trovarne traccia esplicita nella letteratura latina, con Fedro, uno dei più grandi favolisti dell’antichità, vissuto a cavallo tra il I secolo a.C. e il I secolo d.C.

Non esiste invece un termine specifico per definire questo tipo di composizioni nel greco antico, anche se è proprio nella letteratura greca del VI secolo a.C., con Esopo, che possiamo registrare le prime favole, i cui testi ci sono però giunti grazie a Demetrio Falereo che due secoli dopo raccolse in un corpo unitario le “favole esopiche”: il termine usato dai greci per indicare queste brevi composizioni (μύθος) era tuttavia uguale a quello dagli stessi usato per le narrazioni epiche sulla vita e le avventure di dèi ed eroi, cioè i “miti”. 1)
Ma l’origine di queste composizioni era, con ogni probabilità, ancora più antica dello stesso Esopo greco. Un certo travaso di elementi favolistici era giunto nell’antica Grecia attraverso la Mesopotamia e la regione ionica dell’odierna Turchia dalle coeve forme letterarie indiane e mesopotamiche, in particolare sumere, probabilmente in forma orale prim’ancora che scritta, come dimostrano alcuni proverbi popolari con figure di animali di cui troviamo varie trascrizioni d’epoca sicuramente successiva nelle raccolte e negli scritti di autori di tali letterature.
Comunque, sulla base di tali testimonianze, possiamo affermare con una certa sicurezza che le favole mesopotamiche, un po’ come quelle indiane contenute nel Pañcatantra – presumibilmente nate attorno al V secolo a.C. ma solo parecchi secoli dopo rielaborate in forma scritta – siano proliferate all’interno di una “letteratura sapienzale”, come venne definito in quei due àmbiti culturali il filone legato alla letteratura morale e pedagogica, contenente cioè consigli forniti da un padre a un figlio o da un consigliere al proprio sovrano.
Tale caratteristica venne meno nella favolistica del mondo greco-romano, che iniziò ad avere intenti morali ben più “popolari”, legati cioè a una sorta di canale letterario di livello inferiore rispetto alle narrazioni degli autori più importanti, mirato alle classi popolari (l’analfabetismo era sicuramente meno presente allora rispetto ai successivi secoli dell’alto e del basso medioevo) e all’eventuale scopo di una letteratura educativa anche per i più piccoli; sebbene la simplicitas dicendi dello stesso Fedro non debba tranne in inganno, dato che corrispondeva alla brevitas poetica a quel tempo di moda e non certo alla consapevole esigenza di elaborare una forma letteraria dedicata esclusivamente ai ragazzi.
Per Fedro e gli altri autori romani meno noti del genere favolistico, per altro coscienti del loro essere in un certo senso autori di “serie B” rispetto a poeti e letterati autori di opere ben più famose già all’epoca, il termine fabula indicava comunque una narrazione di “fatti inventati”, spesso con intenti pedagogici e legati a un tema morale, cioè a un insegnamento relativo a un principio etico o un comportamento. Tale intento in alcuni casi poteva essere sottinteso e in altri, sicuramente in numero maggiore, veniva invece formulato esplicitamente alla fine della narrazione.
La letteratura favolistica progredirà anche in epoca medievale e poi nei secoli successivi, diversificandosi in due differenti filoni. Il primo, più tradizionale, frutto soprattutto delle rielaborazioni e delle riscritture delle favole classiche con uomini e animali come protagonisti, capaci di mettere alla berlina i vizi e i difetti umani, per poterne anche ridere oltre che fornire insegnamenti morali, un po’ come le parabole della tradizione cristiana. Il secondo, all’interno del quale faranno la loro comparsa anche personaggi legati alle leggende popolari di altri popoli nordici (orchi, maghi, fate e folletti, eccetera), dove l’elemento fantastico, avventuroso e novellistico prenderà il sopravvento lasciando in secondo piano ogni matrice morale e dove la funzione narrativa, che potremmo definire “d’evasione”, apparirà a questo punto fondamentale.
Da questa diversificazione, comunque meno netta di quanto si possa pensare, si giunse in alcune lingue persino a una diversificazione di termini, con l’utilizzo parallelo, per esempio in italiano, del termine “fiaba“ accanto a quello di “favola” (in francese conte de fées accanto a fabl, in tedesco märchen accanto a fabel). Benché spesso i termini fossero – e siano tuttora – utilizzati come sinonimi,a partire dal tardo ‘700 “fiaba” e “favola”per alcuni studiosi iniziarono a indicare duediversi generi narrativi, differenti per modalità, luoghi e personaggi.
La fiaba, secondo questa dicotomia, metteva in scena storie fuori dal tempo e in luoghi non determinati in cui i personaggi, solitamente umani, affrontavano situazioni difficili riuscendo infine a superarle.
La favola invece metteva in scena un’ambientazione diversa, con protagonisti spesso animali coinvolti in situazioni talvolta paradossali e una conclusione in cui emergeva come vero elemento caratterizzante la“morale”, ovvero l’insegnamento di un giusto comportamento.
Fa parte di questa evoluzione storica delle favole anche il successo della “novellistica”, la quale interessò tutto l’occidente con nuovi componimenti in prosa che dilagarono nel medioevo sull’esempio della novellistica proveniente dall’oriente, che grazie soprattutto alle traduzioni arabe veniva a sua volta tradotta in latino e nelle lingue volgari della nuova Europa medievale, fornendo nuova linfa vitale anche a un genere letterario del tutto nuovo. Al suo successo furono funzionali le figure dei troubadours, ed ebbe in opere come il Decameron di Boccaccio o i Racconti di Canterbury dell’inglese Geoffrey Chaucer alcuni dei massimi esempi, ormai lontani dai contenuti delle favole di Esopo, Fedro ed epigoni.
Con il Decameron ebbe inizio, quanto meno per la cultura occidentale, un nuovo genere letterario che per lungo tempo prese il posto della favolistica del mondo antico, incamerando al proprio interno le logiche di una società sempre più lontana dalla necessità di affidare a metafore, parabole e miti l’interpretazione della vita e della storia; e, al contrario, sempre più vicina alla vita reale di tutti i giorni, segno di un cambiamento dei tempi di cui la letteratura, come l’arte, si faceva interprete facendo da specchio alla società del tempo.

Dal rinascimento fino a tutto l’800, grazie anche all’utilizzo della stampa, fu poi tutto un fiorire di pubblicazioni di testi antichi o di componimenti popolari trasmessi fino a quel momento solo per via orale in cui molto spazio occupò proprio la letteratura favolistica. Si pensi alle raccolte di favole pubblicate in Francia da La Fontaine e Perrault, a quelle del palermitano Giovanni Meli o del napoletano Giambattista Basile (il primo in Europa a mettere per iscritto, tra le altre, la fiaba di Cenerentola, del Gatto con gli stivali, di Biancaneve e della Bella e la Bestia), o a quelle del mondo germanico raccolte minuziosamente dai fratelli Grimm, o a quelle del danese Hans Christian Andersen o dei russi Ivan Krylov e Aleksandr Sergeevic Puskin.
Così si giunge al periodo moderno e contemporaneo nel quale l’evoluzione dei metodi di pubblicazione e il passaggio dalla stampa in bianco e nero a quella a colori, avvenuto a partire da ’800, finisce col rendere sempre più indispensabili soprattutto nei libri per ragazzi le immagini accanto ai testi. Si tratta non solo di un’evoluzione formale, ma funzionale al cambiamento di prospettiva della stessa letteratura favolistica, dato che pian piano saranno le illustrazioni a prendere addirittura il sopravvento; e questo porterà anche alla realizzazione dei primi fumetti e alla produzione dei primi cartoni animati, che possono essere considerati gli epigoni della letteratura favolistica del passato, nati peraltro entrambi come “epilogo” dei giornali o come comica finale dei primi film del cinema muto, prima di migrare in televisione e poi, in modo autonomo, come film per il grande schermo grazie a disegnatori e soggettisti quali il grande Walt Disney o l’altrettanto famoso “duo” Hanna & Barbera.
Archetipi e interpretazioni: il mondo animale
È chiaro che, con queste premesse e in un contesto evolutivo storico così complesso e variegato, il mondo delle favole ha subìto soprattutto nell’ultimo secolo e mezzo una rivoluzione che ne coinvolge sia i contenuti, sia (e in maggiore misura) forme, adattamenti, strumenti e target di riferimento; con un universo favolistico che, pur rimanendo vivo soprattutto nell’àmbito della letteratura per l’infanzia, ha via via perduto molti dei suoi contesti operativi, finendo col disgregarsi in forme innovative e in filoni fino a quel momento inesplorati (si pensi, per esempio, all’universo delle Favole italiane di Calvino, autore anche di quella famosa trilogia letteraria del Barone rampante, del Cavaliere inesistente e del Visconte dimezzato, a torto ancora oggi considerati “libri per ragazzi”); e ciò grazie anche alle innovazioni tecnologiche e massmediologico che si sono via via succedute modificandone radicalmente anche la fruizione.
Ma, pur alla fine di questa grande e variegata avventura, perché per esempio il lupo è sempre rimasto in tante culture il simbolo del “cattivo”, del “male”? È come se alcuni archetipi non avessero subito mutamenti nonostante l’evoluzione secolare del mondo delle favole, la cui funzione quindi travalica di gran lunga il contesto letterario e il target di pubblico per il quale sono state ideate e scritte e che, pur con tutte le evoluzioni occorse, rimane strutturalmente simile.
Nel caso specifico, sappiamo bene che il lupo ricorre da tempo immemorabile come personaggio ambiguo, fedifrago e dolorosamente cattivo nella narrativa popolare; ed è perciò considerato una sorta di rappresentazione simbolica del male e del pericolo da cui guardarsi e tenersi alla larga (anche se non sempre: un esempio al contrario è quello della celebre figura della lupa che nutrì Romolo e Remo, fondatori di Roma). Ma, se la sua immagine allegorica legata al male è quella preponderante, e se questa rimane fissata in modo specifico, come abbiamo già visto, nell’immortale favola di Cappuccetto Rosso, sappiamo che la sua valenza simbolica è presente già nella favolistica di Esopo e arriva senza sostanziali mutamenti fino al cristianesimo medievale con san Francesco d’Assisi che ammansisce il lupo (atto attraverso il quale il male viene sopraffatto). Ma non dimentichiamo che già nel Vangelo Gesù paragona più volte i lupi ai falsi profeti, nemici del gregge umano; né si dimentichi che per la società cristiana il lupo è la raffigurazione del male, poiché esso è il più grande cacciatore e nemico dell’agnello, che rappresenta invece la bontà e la sottomissione (a Dio). 2)
Se si può ipotizzare che le più antiche popolazioni nomadi dedite alla caccia lo ammirassero per la sua abilità predatoria, si può dedurre che quando l’umanità mutò il suo stato sociale trasformandolo in una sedentarietà diffusa, con pastori e agricoltori, il lupo apparve pericoloso per le pecore e gli altri animali che nel frattempo erano diventi utili all’uomo, e per questo fu perseguitato e cacciato lontano dal contesto umano.
Proprio da questo atteggiamento sarebbero poi nate tutte le favole che vedevano il lupo cattivo e antagonista della civiltà e della serenità del mondo. Di tutto ciò abbiamo perso ogni ricordo storico, è evidente, ma ancora oggi l’immagine del lupo rimane largamente associata agli antichi miti e alle favole che lo descrivevano come terribile predatore. Ancora oggi, in pieno XXI secolo, in alcuni ambienti si cerca di impaurire i bambini quando fanno le loro marachelle e deviano dalla “retta via” impaurendoli con la storia del lupo che viene quando meno se l’aspettano e se li porta via. “Racconti, fiabe, ammonizioni per bambini, raccomandazioni e persino funebri auspici di fortuna vedono protagonista il progenitore del migliore amico dell’uomo […] Maggiormente conosciuto per la sua ingiusta fama di animale cattivo che per il suo essenziale ruolo ecologico, infatti, il lupo […] rappresenta l’emblematica specie per eccellenza, la cui immagine è ancora oggi largamente associata a storie di conflitti e terribili pregiudizi”. 3)
L’enorme somiglianza tra il carattere di questo animale e quello dell’uomo (o, quanto meno, di alcuni uomini) rende così assai semplice una sovrapposizione di ruoli per rendere elementare la gestione dei conflitti e tradurre con maggiore efficacia i riferimenti simbolici: più facile parlare del cattivo in veste di lupo piuttosto che dover discernere tra uomo e uomo, cioè tra buoni e cattivi.
Il lupo incarna l’ancestralità della bestia selvaggia, cioè dell’uomo asociale, fuori dalle norme della civile convivenza, portatore del caos e della distruzione. “Il terrore che incute questo animale è però atavico e universale: può essere associato al buio della caverna, all’abisso delle sue fauci fameliche, alle fitte pericolose foreste […] Ma come tutti i simboli, anche il lupo ha una natura ambivalente: la sua gola è la caverna, l’inferno, la notte, l’antro pericoloso il cui passaggio, tuttavia, è necessario poiché porta alla liberazione simboleggiando così un vero e proprio viaggio iniziatico che prevede l’inderogabile necessità per l’uomo di attraversare, per la sua stessa salvezza, il mondo degli inferi, per riportare la luce nella comunità umana. 4)
Una conferma di questa funzione totemica del lupo ci giunge anche da tutti quei detti popolari che fanno ricorso all’animale per esorcizzare paure e timori, parte integrante del nostro linguaggio quotidiano senza che ci si renda più conto della loro origine simbolica: “Il lupo perde il pelo, ma non il vizio”; oppure: “In bocca al lupo; crepi il lupo” e “C’è un tempo da lupi”, tutti modi di dire che sottintendono una funzione scaramantica, un processo inconscio quasi sciamanico per superare una prova difficile, in grado di generare paura, foss’anche una pioggia torrenziale, situazione atmosferica a cui la nostra razionalità dovrebbe averci abituato senza stimolare inconsce paure di pericolo e sopravvivenza, ma che invece continua a incutere timore poiché richiama l’oscurità, nemica della luce (a sua volta con tutte le relative valenze simboliche).
Il lupo attraversa un po’ tutto l’universo delle favole, da Esopo a La Fontaine, senza mutare la sua simbologia; la sua storia è alla fine l’evidenza di una percezione istintiva del male che il contenuto e la trama delle favole esorcizzano nella logica dell’ammaestramento morale dei più piccoli. Ma, in una prospettiva più profonda, è anche l’incontro con quello che Jung definisce “l’archetipo dell’ombra”, 5) ossia tutti quei contenuti psichici che sono stati rimossi e vanno a costituire lo strato dell’inconscio personale e tutti quegli aspetti primitivi e disprezzabili, inaccettabili per l’Io.
L’ombra è il lato oscuro che vive al nostro interno, quella parte di noi, dei nostri istinti e delle nostre angosce che dobbiamo imparare prima a vedere e riconoscere e poi a dominare e contrastare. La maggior parte della nostra ombra deriva dalla “repressione delle emozioni che scivolano nell’inconscio e diventano sempre più potenti perché non le viene permesso di esprimersi”:6) l’Io deve imparare a riconoscere le emozioni negative ed esprimerle in qualche modo (catarsi, sport, arte, eccetera), perché solo così può contattare le emozioni positive che si trovano a un livello più profondo. L’ombra va riconosciuta e affrontata nei suoi tratti più penosi e conturbanti e solo così non procurerà dolore e non si trasformerà in elemento persecutore della nostra serenità e della nostra razionalità. 7)
Il lupo diventa quindi il simbolo dei nostri stessi istinti, dell’impero dei sensi che è dentro di noi e che tenderebbe a governare le nostre azioni se non intervenisse il sistema delle leggi e della morale a guidarci. Finanche un archetipo che incarna motivi sessuali ancestrali, ancor più paurosi della sua stessa animalità, in grado di evocare un’idea di forza che spesso solo a stento siamo in grado di contenere.
In tal senso diventa la proiezione all’esterno del nostro inconscio, quasi un’operazione difensiva che talvolta può salvaguardare l’integrità psichica da pericolose spinte distruttive, se non anche auto-distruttive: si pensi alle credenze e alle leggende degli uomini-lupo, i licantropi, esseri diabolici che sfuggono ai propri freni inibitori nei periodi di plenilunio e che quindi vanno annientati prima che i loro istinti bestiali e la loro sete di sangue si materializzino.
Tutto questo, e molto altro ancora, si nasconde dietro la figura del lupo delle nostre favole, proponendoci chiavi di lettura e interpretazioni che fin troppo evidentemente vanno ben oltre l’innocente prospettiva della “favola” come racconto nato per i bambini e ancora a essi rivolto nello specifico.
Ma ciò che abbiamo detto del lupo può essere esteso a tantissimi altri animali che fungono da allegorie dei tipi umani nel mondo delle favole. La formica, per esempio, si erge a simbolo del duro e instancabile lavoro, grazie alla sua pazienza e all’elevata resistenza, nonché a simbolo della sua obbedienza alle leggi in quanto animale sociale per eccellenza, che finalizza quindi il suo sforzo al raggiungimento di una meta prefissata e socialmente accettata.
Al contrario il gatto racchiude in sé il lato istintivo della natura e quindi appare il simbolo della libertà e dell’indipendenza. La volpe è invece da sempre il simbolo dell’astuzia, poiché riesce con maestria a sfuggire alle situazioni più difficili muovendosi con grazia e agilità.
Più complessa la decifrazione della simbologia del serpente: è un animale legato emblematicamente alle energie della profondità terrestre, e quindi da un lato simboleggia il male che ci può condurre agli inferi; ma dall’altro evidenzia il forte legame con la vita stessa poiché emerge dalle profondità della madre terra. Proprio per questo lo stesso Jung ne parlò come simbolo di trasformazione e rinnovamento, archetipo di tutte le culture, simbolo della conoscenza poiché dall’oscurità riemerge verso la luce; e il fatto che cambi pelle lo lega anche al processo di trasformazione interiore e al risveglio spirituale a suo volta collegato al ciclo della vita, della morte e della rinascita.
Superuomini, maghi e burattini
Non sono solamente gli animali a fungere da archetipi simbolici di tali narrazioni, qualunque sia il canale per veicolare la favola (testo scritto o immagini o una sommatoria di entrambi). Proprio tra questi ve n’è uno che ci interessa qui sviluppare, anche per una lettura diversificata dei suoi significati: si tratta in realtà di una figura abbastanza complessa, che trova concretezza in una serie di personaggi pseudo-umani o comunque super-umani presenti spesso in alcuni racconti popolari e in alcune favole dove – anziché utilizzare un animale come allegoria dell’uomo o di un suo specifico atteggiamento-virtù-vizio – si fa ricorso a un protagonista dalle fattezze umane che tuttavia, o non ne ha i limiti, o evidenzia caratteristiche e poteri magici (sia positivi sia negativi).
Ovviamente la prima figura di riferimento che viene in mente è proprio quella del “mago” in tutte le sue già note sottospecie, compresa la versione femminile, la maga, con la sua scala di positività che vede all’apice la fatina buona e la sua scala di negatività con all’apice opposto la strega cattiva, per chiudere con il burattino o l’uomo di sabbia e di latta (e quindi il robot della fantascienza).
Partiamo dal mago: la parola proviene dal termine greco μάγος, che letteralmente significa sapiente, titolo riferito specificamente ai magi, re-sacerdoti dello zoroastrismo dell’ultimo periodo dell’impero persiano e figure di spicco anche del Nuovo Testamento. Il mago, con i suoi poteri sovrumani, non è presente nella favolistica antica, essendo i poteri sovrumani già appannaggio degli dèi della mitologia, mentre le favole, come abbiamo visto, ricorrono abitualmente alla sfera degli animali per dare un’interpretazione del mondo e delle forze positive e negative che lo governano. Ma, a parte la maga Circe o le sirene, presenti nell’Odissea con i loro poteri sovrumani, fatti salvi sporadici altri esempi (comunque marginali all’interno della narrazione), la figura del mago e della maga diventano una consuetudine nei racconti favolistici a partire dal medioevo.
Il più famoso dei maghi del periodo è sicuramente Merlino, uno dei personaggi centrali del ciclo bretone e delle leggende arturiane. Fu lui l’artefice della tavola rotonda. Grazie a un suo incantesimo, inoltre, Uther Pendragon giacque con Ygraine e così fu concepito re Artù. E fu ancora lui ad allevare Artù e a condurlo con tutti i suoi consigli e i suoi poteri, quando necessari, fino al trono. Come ogni buon mago, anche Merlino ebbe la sua rivale, Morgan Le Fay, che era stata anche sua allieva e che poi acquisterà spazio indipendente in alcune leggende successive, come la Fata Morgana.
Nell’universo femminile troviamo poi Armida, maga musulmana presente nella Gerusalemme liberata di Torquato Tasso, mentre il mago Prospero è il protagonista de La tempesta di Shakespeare.
Ma la figura del mago e della maga investono con tutta la loro potenza anche la favolistica moderna con la fatina di Pinocchio e il Mago di Oz dell’omonimo romanzo di Baum; e ancora con Gandalf nel Signore degli Anelli o col maghetto Harry Potter, protagonista dell’omonima saga della Rowling. E ancora col Mandrake protagonista dell’omonimo fumetto creato nella prima metà del ‘900 dallo statunitense Lee Falk, un supereroe considerato anche il mago più affascinante nella storia del fumetto. Le sue gesta prodigiose e i suoi arcani poteri sarebbero nati dalla trasposizione sulle strisce dei comics degli spettacoli di illusionismo che imperversavano all’epoca negli Stati Uniti con famosi “maghi” come Blackstone, Thurston, Cardini, i quali con un loro colpo di bacchetta magica illudevano gli spettatori che fosse possibile risolvere tutti i problemi.
La funzione del mago e il meccanismo delle sue azioni in qualunque favola, antica o moderna, rimangono sempre gli stessi: il mago si impone come superuomo, alla stregua di un eroe “consolatore”, attraverso i suoi superpoteri che si sintetizzano nella sua capacità, appunto sovrumana, di trasformare la realtà cambiando la coscienza e creando un campo di energia positiva in grado di realizzare i desideri e le aspirazioni del pubblico (come Mandrake) o di un re (come Merlino con Artù) o di un qualunque altro essere (la fatina con Pinocchio).
Vi sono altre figure di protagonisti di favole che evidenziano immaterialità o caratteristiche diverse da quelle degli uomini normali. A questo insieme possiamo ricondurre il Pinocchio di Collodi, burattino che aspira a diventare davvero umano, o l’uomo di latta, uno dei personaggi del già citato romanzo di Frank Baum Il meraviglioso mago di Oz, il quale prima di ridursi in quello stato era un ragazzo in carne e ossa.
Possiamo poi citare l’uomo di sabbia, protagonista di uno dei più celebri racconti dello scrittore tedesco E. T. A. Hoffmann, Der Sandmann, collegato a un personaggio del folklore germanico (il lettore tedesco, inglese o danese del tempo aveva subito in mente l’humus fiabesco a cui il racconto fa riferimento), che cosparge sabbia magica sugli occhi dei bambini per farli addormentare serenamente. 8)
Al contrario del mago, con la sua funzione consolatoria, l’essere pseudo-umano (di latta, di legno o di sabbia) aspira solamente a diventare umano, in un’ascesi che può essere letta in modo introspettivo come un viaggio di elevazione esoterica che alla fine lo renderà un vero uomo, padrone delle sue forze e delle sue potenzialità, in grado di comprendere ciò che è bene e ciò che non lo è, quasi un auto-eroe “liberatore”. 9)
Funzione pedagogica, dimensione psicologica
Ora, il problema è che la favola, come il cartoon o il fumetto del mondo moderno, invadono la coscienza e sono in grado di scavare in profondità nella psiche di un bambino come di un adulto, facendo vivere esperienze nuove, formative e pedagogiche, o facendo rivivere e riaffiorare complessi ed esperienze nascoste nell’inconscio. Il bambino si identifica facilmente con i personaggi che suscitano la sua affezione (solitamente i buoni) e decide a sua volta di essere buono. La fiaba, qui considerata in senso lato, pertanto “racconta il percorso attraverso il quale la mente giunge alla sua maturazione, liberandosi dai complessi che la mettono alla prova (gli ostacoli, le lotte, le sfide), attraverso la funzione archetipica (un oggetto magico nelle storie o un feticcio animato nella vita del bambino) che invece di annientarla finisce per fortificarla”. 10)
Nel suo piccolo anche il bambino, quando entra in contatto con una favola, con animali, maghi o altri personaggi emblematici e irreali, non è un soggetto passivo rispetto alla storia che legge o che ascolta (più superficiale è la sua partecipazione di fronte alle sole immagini di un cartone animato o di un film); bensì partecipa attivamente con le sue emozioni e la fantasia, avverte che è un racconto che lo riguarda in profondità. Avviene in tal modo la sua identificazione con i personaggi della trama, che sono personaggi “tipici”, unidimensionali, così come lo sono le loro azioni, affinché siano facilmente comprensibili: perché proprio questo rispecchia la mentalità del bimbo, abituato a vedere la realtà non attraverso una scala di grigi ma attraverso la più banale polarizzazione bene-male, buoni-cattivi.
Perché egli possa credere nella storia fantastica della fiaba e iniziare a interpretarla, càpita che legga e rilegga (o ascolti e voglia riascoltare) più volte la stessa favola: in tal modo a mano a mano riesce a interiorizzarne i significati che la prima volta non è riuscito a scoprire al di là della semplice trama. La ripetitività del contenuto fa breccia pian piano nel suo inconscio, ancorché egli sia del tutto inconsapevole di tale processo. È un gioco che si sviluppa in libere associazioni che lo aiutano a elaborare dalla storia della favola e dalla contrapposizione tra i suoi personaggi il significato personale che la favola gli può offrire, aiutandolo così ad affrontare e risolvere i problemi della vita, enormi per la sua età anche se ai grandi possono apparire del tutto microscopici o inesistenti. Egli riesce a carpire dalla fiaba un mondo di esperienze via via più ricche e profonde per la sua crescita interiore e ne chiede insaziabilmente la ripetizione.
In tal modo il bambino impara a superare le situazioni conflittuali e angoscianti, cerca di liberarsi dai sentimenti aggressivi e dallo stato di impotenza che spesso proprio la sua dimensione lillipuziana rispetto ai “grandi” o il suo obbligo morale all’obbedienza gli impongono; e così, pian piano, crescendo acquista le percezioni mediate che gli saranno necessarie per la sua vita adulta, non senza aver attraversato nel corso degli anni dell’adolescenza il periodo di rifiuto dell’autorità genitoriale ed esterna. Ma anche in quel caso, la componente aggressiva e trasgressiva tipica dell’adolescenza può essere mediata attraverso gli archetipi delle “favole per adulti”, un’altra tappa naturale nella crescita di un individuo. Si tratta di “deviare da un sentiero segnato da istanze super-egoiche non ancora assorbite dalle figure di riferimento adulte”. 11)
La trasgressione è una specie di immersione nell’inconscio personale e una protesta nei riguardi del mondo adulto che il bambino prima, e l’adolescente poi, non riescono a integrare nel proprio Io, nella quale percepiscono i conflitti interni personificati in immagini che provocano paura e panico e che lo obbligano quindi a una resistenza rispetto alle regole imposte.
Cappuccetto Rosso non segue i consigli della madre e si perde nel bosco dando ascolto al lupo con tutto quanto le accade dopo; Pinocchio si lascia sedurre dal gatto e dalla volpe, incontra Mangiafuoco e si perde nel Paese dei Balocchi prima di venire inghiottito nella pancia della balena (come la stessa Cappuccetto Rosso dal lupo).
L’ansia vissuta dal protagonista della favola e in cui si identifica il bambino, è uno stato d’animo suscitato da eventi che non riesce a integrare, prima che da draghi o orchi, e rappresenta una reale minaccia per l’Io. Nella loro immersione nel mondo fantastico e simbolico delle favole, i bambini si identificano con i protagonisti stessi delle varie storie, eroi, antieroi e figure fantastiche che diventano elementi interni alla mente, non proiezioni ma reali presenze con cui la loro esperienza entra in contatto: ecco quindi prendere corpo così i complessi dell’inconscio personale e gli archetipi dell’inconscio collettivo descritti da Jung.
Poi il lieto fine scioglie dall’ansia e dalla paura, portando alla salvezza del protagonista o alla sua trasformazione: il brutto anatroccolo diventa un cigno, Pinocchio finalmente si trasforma nel tanto agognato bambino di carne e ossa a cui aspirava, Cenerentola e Biancaneve diventano principesse. E per quanto il/la protagonista della favola o della novella, del fumetto o del cartone animato, diventi l’eroe positivo sul cui esempio riprogrammare i princìpi imitativi dei propri comportamenti, il bambino nel momento in cui tende a identificarsi in un personaggio positivo che affronta e vince prove pericolose, comprende (o dovrebbe comprendere) anche il limite morale della favola o della trama che ha davanti agli occhi. Nel senso che dovrebbe riuscire, man mano che cresce, a staccarsi da quella realtà di buoni che lottano e vincono sui cattivi. Perché altrimenti non crescerà mai!
D’altronde, diventando più grande, e sicuramente prima di entrare di diritto nel mondo degli adulti, egli dovrà imparare a comprendere che soltanto i personaggi delle fiabe non sono mai ambivalenti, buoni e cattivi allo stesso tempo, come invece accade nella realtà con le persone.
La scelta della rapida prosa di una favola o del breve tempo in cui un cartone animato o anche un film vengono proiettati, offre in un certo senso una strada “obbligata” che non consente di articolare il racconto approfondendolo come invece può avvenire in un ben più lungo romanzo (anche del genere fantasy); il lieto fine è pressoché scontato, ma non è così lineare; e poi non sempre nella vita reale esiste un lieto fine rispetto alle magagne e ai problemi che si incontrano e che, per quanto non necessari, rimangono utili poiché ci formano anche nella disgrazia e nella cattiva sorte. Se si rimane legati, invece, al mondo delle favole, queste risulteranno dannose per la crescita, in quanto limiteranno fortemente il campo dell’esperienza e delle emozioni.
Secondo Piaget, che è stato uno dei massimi studiosi della psiche infantile, “allo stesso modo come costruisce la ‘sua’ verità, il fanciullo costruisce la ‘sua’ realtà: non ha il senso della resistenza delle cose più che non abbia quello della difficoltà delle dimostrazioni”. 12) Il principio logico del suo ragionamento elementare lo porta ad assumere una costruzione ontologica del reale semplificata e confusa: la magia sul piano ontologico e la credenza immediata sul piano logico lo inducono alla stessa “illusione egocentrica”: “la confusione del proprio pensiero con quello degli altri, e la confusione dell’io col mondo esterno”. 13)
È ovvio che questo accada: “Il bambino si identifica facilmente con i personaggi che suscitano la sua affezione (solitamente i buoni) e decide a sua volta di essere buono […] Non è la virtù a fare buoni ma l’imitazione di un eroe con i caratteri della bontà; diversamente è richiesta una capacità astrattiva, che di norma manca al bambino. Proiettando se stesso nel personaggio il meccanismo dell’interiorizzazione completa la formazione della sua personalità. La simbolizzazione è necessaria come mediazione con un linguaggio cosciente e la rappresentazione è una forma di simbolizzazione necessaria alla comunicazione con la parte in ombra della personalità”. 14)
Il mondo delle fiabe nel suo complesso (compresi cartoni animati, fumetti, narrativa e film del genere fantasy) è d’altronde molto più omogeneo di quanto non si pensi, al di là delle diverse trame e delle variegate forme in cui si è evoluto; e ciò semplifica il piano elementare dell’apprendimento infantile.
Schemi e strutture comuni
Rimane sicuramente valida la struttura individuata da Vladimir Propp nell’analisi che egli fece della fiaba a metà del ‘900: tutte le fiabe, per l’antropologo russo, presentano elementi comuni, ovvero una stessa struttura che ritrova al suo interno i medesimi personaggi che ricoprono le stesse funzioni in relazione allo sviluppo della storia. In particolare la fiaba presenta un equilibrio iniziale (inizio), la rottura dell’equilibrio (avventura) seguita dalle peripezie del personaggio principale, per giungere a un ristabilimento dell’equilibrio (conclusione). 15) L’iter strutturale può essere quindi così sintetizzato:
Questo schema universale fa da cornice al processo di simbolizzazione all’interno della fiaba, in quanto il contesto stesso della fiaba è simbolico: attraverso la via dell’immaginario, favole e novelle, fumetti e cartoni animati accomunano civiltà e culture lontane, dimostrando come in esse siano assorbiti gli elementi dell’inconscio personale e gli archetipi di quello collettivo.
La validità di questo schematismo strutturale è confermata anche dal lavoro più recente di Marie-Louise von Franz, 16) che ha dedicato molti suoi studi all’interpretazione psicologica delle favole. Analizzando le strutture archetipiche della fiaba, la psicoanalista puntualizza: “Al di sotto della superficie delle nostre vite quotidiane esiste uno strato della vita psichica dove gli eventi scorrono proprio come nelle fiabe. I grandi miti emergono e si sviluppano a partire da tale livello, per poi ridiscendere nuovamente nel profondo dell’inconscio e trasformarsi in fiabe”. 17)
Le fasi per una corretta interpretazione evidenziate dalla Von Franz, con una tecnica che ricorda quella strutturalista, sono:
- introduzione: c’era una volta, la formula indica una collocazione fuori dallo spazio e dal tempo e dunque in un luogo immaginario, e perciò comune, collettivo
personaggi, la “tipicità” dei quali “si definisce nel rapporto di questi col riconoscimento che il lettore può effettuarvi” 18) e che può essere utile per cogliervi un elemento archetipico - esposizione: l’inizio del problema, la crisi e le difficoltà che caratterizzano la fiaba
- avventura, che può articolarsi in varie peripezie fino a giungere al vertice della tensione
- epilogo, con una soluzione in genere positiva.
Tornando ai personaggi, possiamo altresì notare che più essi si presentano godibili per il lettore o lo spettatore, più acquistano una loro intrinseca credibilità: “Questa ‘credibilità’ che si attua nella ‘godibilità’ ci dice che, realizzandosi come termine di un processo artistico e consegnandosi al lettore (o allo spettatore) solo al termine di un apprezzamento estetico, il tipo perdura nella sua memoria e gli si può riproporre come esperienza morale. Effetto di un processo estetico, esso funziona nella vita quotidiana come modello di comportamento o formula di una consapevolezza intellettuale, metafora individuale sostitutiva, insomma, di una categoria”. 19)
La spettacolarizzazione dannosa
Tuttavia la dimensione simbolica dei personaggi delle favole e quella dei protagonisti dei fumetti o dei cartoni animati va analizzata in modo più approfondito. Come il personaggio dei miti classici, anche quello delle favole tradizionali incarna una sorta di legge universale: le sue azioni si svolgono lungo i binari di un percorso consolidato, soggetto a regole strutturali che aiutano il pubblico a immedesimarsi nel personaggio stesso e a rivivere quasi il contesto della trama come se si trattasse di una compartecipazione alla stessa azione. Nel fumetto e nel cartoon, invece, si assiste – e per giunta passivamente – a una trama che viene ravvivata solo dai continui e diversi colpi di scena, la cui imprevedibilità appare l’unica variante di una trama già scritta nella sua ripetitività e nella sua logica seriale.
Quella ripetitività nella lettura o nell’ascolto delle favole che il bambino pretendeva nei primi anni per acquisire pian piano i significati più profondi della storia, adesso scompaiono in una diversa logica: l’avventura in cui si tuffa di volta in volta il protagonista, rimasto l’unica variabile dell’azione e della singola trama dei vari “episodi”, non ha altro significato se non la spettacolarizzazione e l’ingegnosità delle invenzioni sceniche che tendono a mostrarsi come fatti inaspettati, mentre rimangono cristallizzati la fisionomia e persino l’aspetto del protagonista e degli altri personaggi che fungono da contesto, quasi chiusi all’interno di una sfera di totale immortalità. Lo “spettacolo”, con le sue forme apparentemente diverse ma strutturalmente sempre uguali, prende il sopravvento e dematerializza l’unicità del contenuto strutturale e lo sforzo di una pluriforme interpretazione.
Qui, nelle strisce di un fumetto o nelle azioni di un cartoon, lo spettatore non ha bisogno di cogliere sfumature di significati, ma solo di assistere allo spettacolo apparentemente sempre diverso nella trama ma sempre uguale nella struttura. E così il protagonista rimane come un’icona identica a se stessa: infatti, né Topolino, né Gatto Silvestro, né la Pantera Rosa o qualsiasi altro protagonista di questo mondo rinnovato di favole-che-non-sono-più-favole è mai invecchiato dalla sua prima apparizione o ha mutato la sua fisionomia nel tempo! Non lo potrebbero mai accettare le aspirazioni collettive del pubblico, il quale sembra costringere i suoi beniamini a immobilizzarsi in una fissità emblematica che li renda facilmente riconoscibili, quasi una somma delle aspirazioni collettive, archetipi di una nuova mitologia basata però solo sul loro vorace e insaziabile “consumo” a oltranza (come alcuni degli stessi cartoons autoironicamente ammettono).
N O T E
1) Il concetto di “coincidenza strutturale” tra mito e fiaba, quasi una “versione debole del mito stesso” è stato d’altro canto formulato anche di recente da Lévi-Strauss in appendice a La struttura e la forma di V. Propp, Torino 1966.
2) Non è un caso se l’agnello, vittima pasquale per eccellenza, rappresenta nella propria immagine il sacrificio ultimo di Cristo per la redenzione degli uomini.
3) M. Savarese, Un mito da sfatare: il lupo cattivo, da “Vita sul pianeta”, febbraio 2016.
4) F. Lo Manno, La simbologia del lupo, da “Hyperborea”, maggio 2017.
5) Cfr. Simboli della trasformazione, Torino 1973.
6) C. Jung, Psicologia dell’inconscio, Torino 1983.
7) Per questo, come abbiamo già scritto, nella favola di Cappuccetto Rosso l’incontro con il lupo rappresenta per la bambina la perdita dell’innocenza; ma è proprio grazie a quell’incontro che la piccola e ingenua bambina potrà diventare donna adulta e matura.
8) Esiste una fiaba di Andersen, Ole Lukøje (in italiano Ole Chiudigliocchi), in cui alla sabbia è sostituito il latte spruzzato negli occhi dei bimbi con una sorta di siringa.
9) Sulla differenza strutturale tra eroe consolatore ed eroe liberatore, cfr. M. Karra, Eroi, Palermo 2020.
10) G. Buonofiglio, L’archetipo e la favola.
11) Cfr. B. Bettelheim, Il mondo incantato: uso, importanza e significati psicoanalitici delle fiabe, Milano 1977.
12) La rappresentazione del mondo del fanciullo, Torino 1973.
13) Ibidem.
14) G. Buonofiglio, op. cit.
15) Morfologia della fiaba, Torino 1966.
16) Le fiabe del lieto fine; psicologia delle storie di redenzione, Milano 2004.
17) Se il mito, come la fiaba, può rappresentare un conflitto interiore in forma simbolica e suggerire la soluzione, ovviamente la sua storia è comunque espressa in una forma colta, il più delle volte inaccessibile alla lingua e, a maggior ragione, alla fantasia del bambino.
18) Umberto Eco, Apocalittici e integrati, Milano 1990.
19) Ibidem.
Chi volesse approfondire gli argomenti trattati in questo articolo potrà leggere, dello stesso autore, il libro Il mondo delle favole, Fotograf Edizioni, 2020.