Il periodo risorgimentale rappresenta un momento di fervore senza uguali nella cultura popolare siciliana, come testimoniano le liriche, i canti popolari e altre forme artistiche come il teatro dei pupi o la stessa pittura, che accompagnarono la popolazione dell’isola nel corso di tutto l’800, e in particolare negli anni a cavallo della metà del secolo: un supporto letterario, artistico e in qualche modo simbolico alle istanze di libertà delle masse contadine rurali e del proletariato urbano. Oggi, a distanza di tanto tempo, quelle forme culturali diventano una testimonianza alternativa alla narrazione del risorgimento e dell’unità nazionale, tutte da conoscere.
La letteratura popolare
I versi di brevi liriche e canti popolari, legati alla vita vera della gente, alle sue aspirazioni e anche alla sua rabbia, prendono diffusamente corpo nell’àmbito delle classi subalterne dell’Isola, per la prima volta poste di fronte a un passaggio della storia in cui operare da protagoniste. Come nota Alberto Maria Cirese, “se nel componimento popolare, che pur nasce in circostanze determinate, i fatti vengono sottoposti a un processo deformante, secondo i modi della psicologia e della tradizione che si sono venute elaborando nel mondo semi-ufficiale delle classi subalterne, a noi è dato cogliere, nel rapporto che così si istituisce tra la realtà storica e il rispecchiarsi di essa nella psicologia delle classi popolari, in qual misura e in che modo queste abbiano vissuto gli avvenimenti del loro tempo”. 1)
Ora, nel mezzogiorno d’Italia, e soprattutto in Sicilia, le masse popolari partecipano alle varie fasi del risorgimento nella misura in cui sperano di ottenere, attraverso l’abbattimento dei vecchi istituti e la formazione dello Stato unitario, la soluzione del secolare problema della terra. Il crollo di queste speranze nel corso del processo di unificazione determina in esse l’insorgere di moti di rivolta contro il nuovo ordine che non scioglie i vecchi nodi, poiché non sa o non vuole sbarazzarsi della pesante eredità lasciatagli dalle classi dirigenti locali.
Bisogna notare come lo stesso patrimonio culturale popolare depositato nelle forme tradizionali della poesia, del canto, della leggenda, risenta in maniera notevole dell’impulso nuovo col quale le masse urbane e rurali dell’Isola scendono in lotta nel corso del processo unitario; come questo impulso stimoli una partecipazione meno casuale e più attenta alla vita (sociale e politica) del Paese, imponga un rinnovamento di temi (fino a quel momento incentrati praticamente solo sull’amore) e di forme di ampiezza inusitata e, con ciò, imponga almeno una parziale rinunzia ai modi di una tradizione definitasi fuori dalla tradizione ufficiale. Non è un caso, quindi, se per tutto l’800, e in particolare nella seconda metà del secolo, si registra una fioritura di poesie e canti popolari di carattere storico-sociale, una sorta di commento – volta a volta pieno di speranza o sarcasmo, stupore o delusione, entusiasmo o rabbia – ai vari eventi.
Una fioritura di storie si era avuta in realtà già a partire dal 1837, in occasione dello scoppio del colera, considerato un castigo inflitto alle persone per mano dei Borboni, e varie poesiole e canti popolari avevano cercato di identificare i responsabili della sua diffusione nel re e negli sbirri che tenevano la popolazione in miseria; una poesia, con un mix di sarcasmo e di rabbia, così recita:
Binidichi lu culera,
quantu vicchi ni livàu!
Lu pituttu lu lassàu,
cà a Francia è sempri ccà. 2)
Un altro momento di grande fermento poetico è nel corso dei moti rivoluzionari del ‘48, e poi nel 1860 con l’arrivo dei Mille e di Garibaldi, accolti come liberatori, con l’esultanza per il trionfo della rivoluzione e la cacciata del tiranno, cui segue ben presto, però, la delusione e la nuova rabbia per le prime repressioni delle rivolte contadine. In questo contesto, il processo di trasformazione che la poesia e il canto popolari subiscono diventa fenomeno di ampie proporzioni, dato che il componimento, sempre o quasi rimasto anonimo, viene assunto dalle masse popolari a strumento di partecipazione diretta allo svolgimento della stessa storia; anche grazie all’opera dei cantastorie i quali, di paese in paese, diventano gli strumenti per la composizione, le manomissioni e gli adattamenti dei vari versi che recitano in pubblico, con il necessario pathos e a volte, a seconda dell’argomento, perfino con piglio aulico e melodrammatico.
Due esempi di poesie recitate nelle varie piazze siciliane da cantastorie dell’epoca e dedicate a Garibaldi fanno comprendere meglio questo fenomeno; 3) la prima recita:
‘Aribaldi ha statu lu sustegnu
contra la tirannia di li Barbuna,
omu di sperienza e omu dignu
ca pu lu munnu la so vuci sona. 4)
La seconda, altrettanto agiografica, racconta il modo melodrammatico la battaglia di Milazzo vinta dai Mille:
Quattru surdati ccu i sciabuli addritta
jèvanu contra di lu Generali;
ma ‘Aribaldi ccu la sò listrizza
morti ddà in terra li fici tutti cascari. 5)
Ma ben presto, andato via Garibaldi, le speranze della povera gente svaniscono davanti alla repressione dei soldati e dei carabinieri sabaudi che nel frattempo hanno occupato la Sicilia (si pensi alla strage di Bronte operata dal luogotenente Nino Bixio, ma anche alle tante rivolte di piazza sedate ben presto nel sangue in tanti paesi del palermitano e dei Nebrodi). E allora ecco le invettive scagliate contro i nuovi repressori:
Si bbiri a cocchi sbirru,
e si ‘nzi bbistu,
struppèddici l’ossa.
A vita notti e jornu ti l’attassa,
ti spogghia e t’ammutta n’ta la fossa. 6)
La stessa rabbia viene espressa nei confronti dei nuovi governanti che si insediano al posto dei vecchi:
Beddu Scialoja pi mìttiri pisi
mancu ‘ncoddu li ponnu li vastasi.
Regnu vinnùtu, citati e paisi,
un manciatariu nesci e l’autru trasi;
doppu sintiti diri: si sdimisi,
frattantu nesci Brasi e trasi Masi. 7)
Il bersaglio dei risentimenti popolari è solo in alcuni casi il re, piuttosto lo sono i governanti locali, i burocrati autoritari e brutali che riscuotono le imposte con i quali anche il piccolo contadino è costretto a misurarsi nella sua vita, entrando in contatto con gabellieri, cancellieri, uscieri, guardie: tutti complici delle ingiustizie che egli subisce, tutti compresi nell’odioso epiteto di “sbirri”, tutti indicati come surci e taschittara (topi di fogna e spie). Emblematico di questo atteggiamento è la sempre anonima storia di Gioacchino Leto, uno dei più noti esattori delle tasse dell’800 siciliano, finito ammazzato in una delle tante rivolte contadine del periodo, di cui vogliamo riportare i versi centrali:
Quannu Jachinu Letu fu pigghiatu,
java circannu pietà ed ajutu;
ma ognunnu chi lu sentii cci ha sputatu:
“‘Nfami, chi a Cristu stessu l’ha’ tradutu!”
Cci hannu la facci e l’oricchi tagghiatu
e cu sfrègiu e virgogna cunnuciutu:
fora la porta poi cci hannu sparatu,
lu spàccunu e lu cori hannu arrustutu.
E allura comu l’arma cci spirau /
vola pri l’àriu e a la porta juncíu;
San Petru aísa l’occhi e s’addunau:
vitti a Jachinu Letu e si chiudíu.
Iddu, mischinu, cci tuppuliau,
e súbitu San Petru arrispunníu:
“Vattinni, ‘nfami sbirru!”, e cci sputau,
“‘nnimicu di la Patria e di Diu!”. 8)
In un lungo canto popolare del territorio monrealese si descrivono le condizioni della Sicilia dopo la riunificazione; l’Isola è vista allegoricamente come una donna che maledice il giorno del matrimonio (il plebiscito che l’aveva riunita al resto d’Italia), perché da quel momento avevano avuto inizio i suoi guai, essendo stata derubata delle sue ricchezze, simbolizzati da li circeddi, a spatuzza d’argentu e pure l’aneddi (i gioielli, la spadina d’argento con cui si riunivano i capelli e pure gli anelli, tutti simboli della “dote”); ora essa era ridotta in miseria ancor più che sotto i Borboni, morta di friddu e fami (morta di freddo e di fame), con i figli ammazzati in guerra, con riferimento alla leva obbligatoria e alle continue guerre che li richiamavano al fronte, mentre li re, a tavola, a zicchinetta si jocanu lu sangu di li genti (i re sui loro tavoli si giocano alle tre carte il sangue dei loro popoli). E quando i vecchi tarì siciliani d’argento vennero sostituiti dalle banconote, la gente gridò alla rapina: l’oru e l’argentu squagghiàru pi l’aria, di carta a vistèru a Sicilia (l’oro e l’argento si dissolsero nell’aria, di carta rivestirono la Sicilia). Per finire con i versi estratti da quest’altra poesia:
Non sacciu comu ‘un mi vota a testa
pinzannu a lu presenti e a lu passatu.
Nascii in Sicilia e sugnu ‘talianu. 9)
D’altronde, la Sicilia e tutto il sud liberati da Garibaldi furono costretti a sopportare le leggi del Piemonte, alcune delle quali del tutto estranee alla mentalità secolare della propria popolazione; furono costretti a sopportare una pressione fiscale feroce, come la legge sul macinato, ma anche a misurarsi con nuove norme del tutto impopolari, come quelle della leva obbligatoria che depauperava le campagne di braccia giovani adatte al lavoro, impoverendo ulteriormente la classe proletaria.
Su questo punto di recente uno storico siciliano, Elio Camilleri, ha parlato di unità “malvissuta” dai siciliani, nonostante l’appoggio dato in modo un po’ incondizionato da quasi tutte le classi sociali –
dalla nobiltà, almeno in parte, fino al popolino – alla spedizione garibaldina. 10)
Quella dei Savoia, per Camilleri, è infatti solo l’ultima dominazione che si abbatte sull’Isola, abitata da un popolo disposto o costretto da sempre a essere sottomesso.
Con l’avvento del fascismo poco cambiò; in ogni caso, caduto il fascismo, i vecchi equilibri riemersero nuovamente con tutto lo strapotere dei nuovi governanti, soprattutto in Sicilia dove a guidare lo sbarco e l’avanzata degli Alleati, come è conclamato storicamente, furono in alcuni casi i capimafia d’oltreoceano.
Scrive sempre Camilleri che “nel secondo dopoguerra la ‘malvissuta unità’ produsse l’autonomia siciliana, il successo della tesi riparazionistica e la promozione del sud come questione meridionale. I nuovi gruppi di potere, non più aristocratici e/o latifondisti, ma legati al ‘nuovo’ degli investimenti, del capitale, delle speculazioni edilizie, bancarie, della gestione pura e semplice del potere, continuarono a operare indisturbati per la soddisfazione dei propri interessi e privilegi”, con la collusione o l’aperta collaborazione della classe politica. 11)
Conseguenze ed effetti sono tuttora sotto gli occhi di tutti. E più di altri autori, è stata voce simbolo delle grida dei siciliani per tutto il ‘900 il poeta bagherese Ignazio Buttitta, che con le sue liriche è stato in grado di tradurre in versi un intero secolo di storia sociale, politica, intellettuale della Sicilia, impegnandosi nelle cause e nelle conseguenze del disagio economico delle classi subalterne.
Il teatro dei pupi
Ad accompagnare la vicenda risorgimentale nella cultura popolare siciliana, un posto di primo piano è occupato anche da un’altra caratteristica forma di spettacolo: il teatro dei pupi. Divenuto negli ultimi anni una manifestazione di moda per intellettuali e turisti, dopo che con le sue particolarissime valenze socio-culturali ha rischiato di estinguersi con l’avvento della televisione (non essendo più ricercato nemmeno nei piccoli centri siciliani), il teatro dei pupi e la figura del puparo hanno fornito una connotazione fortemente popolare fin dalla sua nascita, decretandone il definitivo successo in coincidenza con il periodo risorgimentale: proprio i pupi siciliani, infatti, concorsero durante il risorgimento a plasmare la coscienza dei patrioti siciliani i quali, nell’assistere ai cicli di rappresentazioni effettuati nelle piazze cittadine dalle varie compagnie di pupari, finirono con l’identificare nel pupo Orlando l’eroe Garibaldi e nel pupo Carlo Magno il re Vittorio Emanuele, simboli della liberazione dall’oppressione dei Borboni, identificati nei saraceni.
Anche se questo tipo di rappresentazione ha origini molto più antiche di quelle ottocentesche, che affiorano fin dal ‘500, soltanto agli inizi dell’800 il teatro dei pupi si arricchisce in modo predominante delle leggende cavalleresche dell’epica francese medievale e delle chansons de geste, delle corazze metalliche che rendono splendenti quelle che nessun siciliano chiamerebbe mai “marionette” e dei fragorosi combattimenti con le spade. È con queste peculiarità che l’opera dei pupi si sviluppa in tutta l’Isola agli inizi dell’800, con le storie di Orlando e Rinaldo. Nella leggenda dei paladini di Francia si intrecciano diversi temi relativi alla guerra tra cristiani e saraceni, e i vari protagonisti si ritrovano saldamente irreggimentati in stereotipi ben saldi, in cui i buoni sono chiamati perennemente a fronteggiare i cattivi in un susseguirsi di situazioni che rispecchiano fedelmente i modelli di tutti i giorni.
Ma le vicende del risorgimento fanno da lievito naturale allo sviluppo di questa forma teatrale attraverso i simbolismi che rivivono nei personaggi dei pupi siciliani rispetto alle figure storiche coeve: i Borboni con i loro “sbirri”, i “picciotti” con i Mille e Garibaldi, Vittorio Emanuele e le truppe sabaude che subentrano ai garibaldini nel periodo post-unitario. È soprattutto dopo la spedizione dei Mille che i pupi di ferro e legno dei siciliani hanno il loro massimo successo sia a Palermo sia a Catania e Siracusa, dove a seguire gli spettacoli erano tutte le generazioni del popolo, con un tifo che oggi definiremmo “da stadio”. Orlando e Rinaldo erano gli eroi positivi (e la gente del popolo vi identificava Garibaldi), Angelica era capricciosa e non riusciva ad accettare le doti dei paladini, Carlo Magno (come Vittorio Emanuele) era prepotente e al tempo stesso debole e si lasciava facilmente ingannare da Gano di Maganza, mentre Ferdinando di Borbone era ovviamente il simbolo figurale del feroce Saladino.
Nel periodo delle lotte risorgimentali, che hanno coinciso col periodo di massimo splendore dell’opera dei pupi, la Sicilia ha vestito di ferro i suoi burattini, ha dato ai suoi attori di legno la solennità austera dell’epopea, ha infuso nelle loro anime di stoppa tanta fiamma ed eroismo. Il pubblico popolare della Sicilia del tempo, preferendo “incocciamenti” di spade, scagliamenti di dardi, accoltellamenti e mucchi di feriti e di morti, si appassionava fino al delirio per le battaglie combattute in difesa di un popolo oppresso e partecipava alle recite con primitiva passione, parteggiando per l’uno o l’altro degli eroi, esaltandosi al trionfo del bene e al prevalere della giustizia, esprimendo al contrario la propria violenta e sprezzante condanna per ogni traditore: la sola presenza di Gano di Maganza, raggiratore e subdolo, elevava un’ondata di invettive, mentre all’ingresso in scena di Carlo Magno o di Orlando gli spettatori scattavano in piedi e applaudivano.
Ed ecco che tutti questi personaggi calano nelle storie risorgimentali il loro bagaglio di virtù e di vizi, la loro carica di umori e di passioni. Nel valoroso patriota rivive Orlando, in Garibaldi la maestà di Carlo Magno, mentre Gano è sempre lì pronto a impersonare la figura dello sbirro o del Borbone. Stimolata dalla realtà storica, la leggenda dei paladini acquista così una dimensione epica e fatale, esemplare della condizione umana in generale.
Da un punto di vista tecnico, va ricordato che le rappresentazioni del teatro dei pupi palermitani si avvalevano e si avvalgono tuttora di pupi alti circa ottanta centimetri, con il ginocchio articolato e il ferro principale che attraversa la testa e si aggancia al braccio destro. Vengono manovrati dai lati del palcoscenico, che ha sei quinte diverse e permette quindi la messa in scena di tre sequenze sceniche contemporaneamente.
Invece i pupi catanesi, presenti in tutta la Sicilia orientale, sono alti un metro e venti, hanno il ginocchio rigido e il ferro che attraversa la testa e si aggancia al tronco e al braccio destro; e per tale ragione vengono manovrati dall’alto di un ponte dietro il fondale, cosicché la rappresentazione avviene con una sola scena per volta.
Nell’800 gli spettacoli dell’opera dei pupi venivano rappresentati a puntate, in serie che duravano anche un anno e in locali chiusi. Le scene più frequenti erano i “consigli”, nei quali un capo arringava i suoi fedeli, e le “battaglie”, nelle quali si arrivava allo scontro fisico. Gli spettatori erano quasi esclusivamente maschi adulti che si recavano a vedere l’opera dei pupi subito dopo il lavoro e seguivano con grande partecipazione emotiva i vari episodi, identificandosi negli eroi positivi e infierendo sui cattivi, fino a distruggere con il lancio degli oggetti più disparati il pupo odiato. Nel corso delle battaglie il maestro puparo batteva i piedi sul palcoscenico per dare l’illusione dei corpi che cozzavano; da qui il detto siciliano, tuttora in uso, “fare l’opra”, nel senso di fare una gran confusione.
Certo, l’opera dei pupi di un tempo era una cosa seria, da non sottovalutare, come afferma Alfio Triolo. Vi lavoravano e ci vivevano intere famiglie, e l’arte passava di generazione in generazione. “I pupari erano artisti completi, non soltanto realizzavano interamente a mano i pupi, non soltanto li manovravano dando loro la voce e movimenti, ma dovevano anche essere impresari di se stessi, usando un gran fiuto nella scelta delle vicende da mettere in scena e nel numero di serate occorrenti affinché la storia fosse portata a compimento. Tutto un mondo particolare, che resistette bene fino allo scoppio della seconda guerra mondiale. Poi, sia le distruzioni dei bombardamenti, sia gli sconvolgimenti intellettuali, sia l’anelito verso nuove mode d’oltreoceano e, non ultimo, il fenomeno che vide antichi mestieri andare perduti: l’opera dei pupi andò, come diremmo oggi, in pensione. Un pensionamento breve, perché il sacro furore che era rimasto nei cuori e nelle menti di alcuni cominciò verso gli anni ‘60 del secolo scorso a spingere gli eredi di alcuni pupari di grandi e antiche tradizioni a dare timidamente il proprio impulso all’Opra”. 12)
Non è un caso se l’unesco ha inserito nel 2008 il teatro dei pupi siciliani nel patrimonio immateriale dell’umanità.
Da parecchi anni, ormai, alcuni dei pupari superstiti, come i fratelli Napoli a Catania, non hanno più una sede propria e vagano da un baraccone improvvisato a un teatrino parrocchiale; mentre altri, come i Cuticchio a Palermo (in via Bara all’Olivella), hanno ricreato accanto al locale dedicato allo spettacolo quotidiano del pomeriggio (più per turisti che per un pubblico di siciliani, meno che mai del popolo) un laboratorio museografico e una sorta di “officina” dove i pupi vengono ancora creati o riparati e sistemati quando ne hanno bisogno. Nel primo caso si limitano a ripetere le stesse storie di cui da tempo non rinnovano più il repertorio, facendo di queste trame fissate nei loro canovacci una traccia inviolabile di arcane memorie storiche che non tollererebbero alcuna variante; nel secondo caso, invece, i pupari alla Cuticchio (divenuto personalmente uno dei massimi ambasciatori della cultura siciliana nel mondo) hanno arricchito trame e personaggi attualizzando le storie e variando perfino i contesti, ri-trasformando così gli antichi pupi in marionette (come sono nel resto del mondo).
Le arti figurative legate ai pupi
Il teatro dei pupi, in realtà, era e appare ancora oggi un complesso ben più articolato di quanto il semplice spettacolo non evidenzi a uno sguardo superficiale: come in ogni teatro che si rispetti, per esempio, l’opra dei pupi si avvaleva di pittori, che potevano essere figure diverse rispetto ai pupari e dipingevano le quinte scenografiche (cioè i fondali) delle varie rappresentazioni, nonché i cartelloni che avrebbero pubblicizzato gli spettacoli. Da qui vogliamo partire per descrivere il panorama delle arti figurative nella cultura popolare siciliana.
Il pittore, per dipingere i paesaggi che contestualizzavano le varie “quinte” poste a cornice scenografica allo spettacolo, aveva evidentemente come punti di riferimento i luoghi che conosceva meglio: se doveva dipingere l’interno di una reggia o di un salone nobiliare andava a scrutare l’interno di una palazzo nobiliare cittadino; se doveva dipingere il paesaggio di una battaglia, inseriva in lontananza un fiume (a rappresentare la Senna parigina) che magari aveva le sembianze del Simeto a Catania o dell’Oreto o del Papireto (fiume oggi sotterrato) a Palermo; il passo di Roncisvalle aveva le sembianze di Portella della Ginestra, i Pirenei quelle delle Madonie; e ogni tanto dalla montagna più alta finiva con l’uscire anche un pennacchio di fumo, proprio come accade all’Etna.
Ma anche l’ingresso del “teatro”, che nella quasi totalità dei casi era il portone della casa del capo-puparo o la saracinesca di un magazzino a volte contiguo, doveva essere dipinto così da evidenziarsi subito per ciò che era e per ciò che lì dentro si rappresentava; ecco quindi che a caratterizzare quella che potremmo definire “l’insegna” vi erano le scene più importanti di una battaglia di paladini, o il faccione del capo-puparo che teneva in mano un suo pupo, o semplicemente le figure più emblematiche dei personaggi protagonisti dell’Opra, come Orlando e Angelica.
Il pittore aveva poi un gran daffare per dipingere i vari cartelloni che avrebbero pubblicizzato lo spettacolo del giorno: il cartellone, come ogni manifesto pubblicitario che si rispetti, doveva colpire il passante, così da indurlo a fare attenzione al suo contenuto e convincerlo ad acquistare il “prodotto”, cioè recarsi ad assistere allo spettacolo, in serata. In genere ogni cartellone era incentrato sull’episodio principe dello spettacolo in questione, nonché sui personaggi protagonisti di quell’episodio. Dato che poi pochi sapevano leggere l’eventuale testo riportato sul cartellone, un componente della compagnia aveva il compito di “banniare” (pubblicizzare ad alta voce) lo spettacolo con i punti salienti della storia rappresentata, in modo che tutti ne fossero a conoscenza e potesse partire anche il passaparola per chi non passava dalla piazza dove il cartellone era stato per l’appunto “piazzato”.
Ma i vari cartelloni via via dipinti che fine facevano? La maggior parte di essi, fino a riempimento delle pareti, veniva appesa all’interno del teatro con un duplice scopo: quello di archivio dei cartelloni stessi, pronti a essere prelevati quando si presentava l’occasione di pubblicizzare quel dato spettacolo; e quello di addobbo delle pareti, che altrimenti erano spesso intonacate alla bell’e meglio, soprattutto se si trattava di magazzini presi in affitto per pochi mesi, il tempo giusto per rappresentare un ciclo di storie e poi migrare in una altra piazza.
Ma, come sottolinea lo stesso Mimmo Cuticchio, i cartelloni appesi alle pareti avevano anche una funzione tecnica: 13) nell’utilizzarli come addobbo sui muri rustici di un locale si ricavava un effetto acustico importante per l’uso naturale della voce, facendo sì che non rimbombasse durante lo spettacolo, ma che la recitazione, le grida, i colpi di spada e lo “scruscio” degli scudi fossero contenuti e meglio distribuiti nello spazio del locale come all’interno di un teatro vero, dove si usano, com’è noto, vari espedienti tecnici per ottenere una buona acustica.
La decorazione dei carretti
I soggetti di questi cartelloni ci portano adesso a parlare di un’altra forma artistica tipicamente siciliana, quella del decoro dei carretti. Il carretto siciliano, infatti, ha avuto una prerogativa rispetto a quelli costruiti anticamente in altre parti d’Italia: non è stato mai soltanto un mezzo di trasporto ma qualcosa di più, quanto meno per chi si poteva permettere un lavoro più complesso rispetto a quello dei soli “mastri carrai”, cioè l’opera di scultori, fabbri e pittori, tutti artigiani-artisti che con passione e impegno si dedicavano all’allestimento e alla decorazione dei carretti più sofisticati (i “fuori serie” ante litteram dei veicoli su strada di un tempo).
Erano gli stessi carrettieri a recarsi dai pittori per far dipingere sul loro mezzo “grezzo” soggetti di carattere sacro, come protezione per se stessi e per il carro, poi soppiantati dalle storie dei paladini (ed ecco il connubio con l’Opra dei pupi) o scene della Cavalleria Rusticana, la novella del Verga dedicata proprio alla nobile figura del carrettiere. Vennero così a crearsi vere e proprie scuole d’arte del carretto (a Palermo, Terrasini, Alcamo, Catania, Siracusa, eccetera), all’interno delle quali diverse maestranze, come accennavamo, venivano coinvolte nella lunga procedura di costruzione e decorazione del veicolo, dedicato che fosse al trasporto di persone o a quello delle merci.
Seguendo ancora una volta le cronache di Alfio Triolo, costruttore del carretto in tutte le sue parti (cassa, fiancate, stanghe, portello e ruote) era infatti il “carradore”, mentre a incidere con motivi che andavano dal floreale all’antropomorfo era lo scultore.
Seguiva la fase della pittura. Questa interessava artisti famosi come il Di Mauro, che ha operato fino agli ultimi decenni del secolo scorso nella sua bottega di Aci Sant’Antonio, vicino a Catania, un pittore che si era fatto tutto da solo, lavorando da ragazzo a bottega e imparando come tutti gli artisti del popolo il “mestiere” anno dopo anno. Essi “con semplici colori a olio diluiti con un po’ di acquaragia rendevano ogni singola parte del carro una vera opera d’arte. Si partiva da una base di colore rosso per poi suddividere ogni parte in sottosezioni da decorare con i motivi e i colori più vari e festosi. Completato il carro, si passava al lavoro del sellaio che, in concordanza con le scene e i colori assegnati al carretto, fabbricava e ricamava con nastri, specchietti e sonagli la bardatura del cavallo”. 14)
Appare ovvio che le botteghe dei mastri carrai siano via via scomparse negli anni, a mano a mano che la funzione dei carretti veniva sostituita dalle auto e dai furgoni motorizzati; ma ancora oggi ne esistono per riparare i carri esistenti o per crearne di nuovi, anche se magari con funzioni diverse: infatti, se agghindati di tutto punto, questi carretti non adempiono più la loro originaria funzione di mezzi di trasporto ma restano tuttora “oggetti” di grande ammirazione e curiosità, in occasione di feste e parate o esposti in qualche museo.
Come sottolinea sempre Triolo, dalla piccola bottega che fu del vecchio Di Mauro (oggi portata avanti dal genero Antonio Zappalà e dai nipoti) continuano tuttora a uscire grandi capolavori richiesti dalle varie parti d’Italia, e non solo, ma la committenza non è più quella di una volta. “Il carretto si smembra in più parti per incontrare le esigenze più diversificate e raffinate dei collezionisti. Fiancate, ruote e casse sono tra i pezzi più richiesti e rappresentano per chi non può permettersi un carretto all inclusive un’ottima opportunità per mettersi in salotto un pezzo d’arte sicula che necessita di nuovi adepti per non morire”. 15)
N O T E
1) La poesia popolare, Palermo 1958.
2) Benedetto il colera, / quante bocche (nel senso di persone) ha tolto di mezzo! La fame ci ha lasciato, / dato che la Francia è sempre qua (dove per Francia s’intendono per l’appunto i Borboni, ma anche, per tradizione, fame e miseria).
3) I testi seguenti sono ripresi dalla raccolta Risorgimento e società nei canti popolari siciliani di Antonino Uccello, Firenze 1961; ma si ritrovano prima di tutto nell’antica Raccolta amplissima di canti popolari siciliani di Lionardo Vigo, pubblicata a Catania una prima volta nel 1857.
4) Garibaldi è stato il sostegno / contro la tirannia dei Borboni, / uomo di esperienza e uomo degno / che per tutto il mondo la sua fama risuoni.
5) Quattro soldati (borbonici) con le sciabole sguainate / si avventarono contro il Generale (Garibaldi); / ma lui, con la sua destrezza / morti là a terra li fece cadere.
6) Se vedi qualche sbirro / e non sei visto, / sfasciagli le ossa. / La vita di notte e di giorno ti tira via / e poi ti spinge nella fossa (nel senso che ti fa morire).
7) In gamba questo Scaloja (evidentemente il nome di un sindaco o comunque di un comandante locale) per mettere pesi (nel senso di tasse) / che non possono sopportare nemmeno gli scaricatori. / Stato venduto, in città e nei paesi, / un “mangiatario” (nel senso di ladro) esce e uno entra; / dopo sentite dire: si dimise, / nel frattempo se ne va “Brasi” e arriva “Masi” (cioè due persone uguali).
8) Quando Gioacchino Leto fu catturato (dal popolo), / andava cercando pietà e aiuto; / ma ognuno che lo sentiva gli sputava addosso: / “Infame, che hai tradito perfino Cristo”. / Gli hanno tagliato la faccia e le orecchie / e con questo sfregio (che si suole dare per lasciare il segno indelebile del tradimento e della vigliaccheria, e che fa parte del codice della mafia) e con la vergogna l’hanno condotto / fuori dalla porta (cittadina), e poi gli hanno sparato, / lo hanno squartato e il cuore bruciato. / E allora, non appena la sua anima è volata via / per l’aria ed è giunta alla porta (dell’aldilà), / San Pietro aguzzò gli occhi e lo riconobbe: / vide Gioacchino Leto e gli richiuse la porta. / Lui, afflitto, li bussò di nuovo, / e subito San Pietro gli rispose: / “Vattene, infame sbirro!”, e gli sputò addosso, “nemico della Patria e di Dio!”.
9) Non so come non mi gira la testa / pensando al presente e al passato. / Nacqui in Sicilia e adesso sono italiano.
10) Nell’articolo Percorsi della memoria, pubblicato sul numero 79/80 del bimestrale “Luoghi di Sicilia”.
11) Ibidem.
12) Alfio Triolo, Pupi e pupari di Sicilia, “Il Club” n. 131, marzo 2015.
13) In La macchina dell’Opra, Palermo 1995.
14) Alfio Triolo, L’arte nel carretto, “Il Club” n. 121/122, febbraio 2013.
15) Ibidem.
Il testo dell’articolo è estratto dal volume di Maurizio Karra La cultura popolare in Sicilia, Fotograf Edizioni, Palermo 2021.