Risale a 20 anni fa un mio incontro con alcuni esponenti delle comunità indigene del Cauca, in Colombia, sottoposte a dura repressione, sotto il tiro sia dei militari sia delle squadre della morte filogovernative.
Tra gli altri avevo intervistato un insegnante elementare, Carlos Romero, esponente della Fondacion Aurora del Cauca. All’epoca, della Colombia si parlava soprattutto come patria del narcotraffico e per l’endemica violenza; magari sorvolando sul fatto che almeno due degli assassinati giornalieri (in media) lo erano per ragioni politiche: o direttamente per mano dell’esercito colombiano, o in alternativa per mano degli squadroni della morte al servizio dei proprietari terrieri o di qualche multinazionale.
“Anche ai tempi di Escobar”, mi aveva spiegato Carlos Romero, “solo una percentuale minima dei morti era conseguenza degli attentati operati dai narcotrafficanti. Quanto alle vittime della guerriglia [FARC, ELN…], si calcola che corrispondano al sette per cento [secondo il gesuita padre Giraldo che consultai all’epoca forse ancora meno]. I rimanenti, ossia la stragrande maggioranza, sono contadini, indios, sindacalisti, insegnanti, membri delle classi popolari caduti sotto i colpi dell’esercito e dei gruppi paramilitari mentre lottavano per i diritti più elementari”.
E tuttavia, continuava, “la cosa più incredibile non è il numero di oppositori o sindacalisti che vengono ammazzati ogni giorno, ma il fatto che quotidianamente altri prendano il loro posto”.
Poco tempo prima dell’intervista (che risale, ripeto, a vent’anni fa) nel sud-ovest del Paese era avvenuto l’ennesimo massacro di contadini: 14 uomini e tre donne, tra cui una incinta. L’esercito, presente in zona con una base militare, aveva come al solito accusato la guerriglia. Soltanto dopo l’intervento del Tribunale Internazionale per i Diritti Umani – ricordava il giovane insegnante – “i veri responsabili, i militari, vennero individuati. Ogni dubbio sulla matrice dell’eccidio venne chiarito e i colpevoli furono condannati a un risarcimento”.
Nota bene: solo a un risarcimento… ma in quel contesto era già molto, dato che “nella maggior parte dei casi le uccisioni rimangono del tutto impunite”.
Una delle ragioni di questo drammatico conflitto, secondo Carlos Romero, derivava dal fatto che la Colombia era “un vero e proprio paradiso naturale, ricco di risorse, ma con gravi contraddizioni sociali. In un Paese di quaranta milioni di abitanti le proprietà sono concentrate nelle mani di circa 120mila persone. Inoltre ci sono almeno sei milioni di analfabeti e il salario minimo percepito dalla maggioranza dei lavoratori è a malapena sufficiente per vivere”.
Ovviamente le politiche neo-liberiste adottate dai vari governi colombiani avevano ulteriormente aggravato la situazione. In particolare “molti contadini rischiano letteralmente di morire di fame dato che otto milioni di tonnellate di alimenti vengono importate a prezzi inferiori di quelli prodotti in Colombia”. Come da manuale, erano stati privatizzati la sanità, la scuola, la produzione di energia elettrica, gli acquedotti, i telefoni. Producendo “ulteriore miseria, denutrizione, mancanza di servizi sanitari”.
Ma comunque, soprattutto nel sud-ovest del Paese, la popolazione si organizzava, resisteva.
Così come del resto avviene ai nostri giorni, se pur pagando purtroppo un caro prezzo. Per esempio, continuava Carlos, “nella regione da cui provengo, il Cauca, si è sviluppato un forte associazionismo tra contadini, educatori e popolazione. Noi vogliamo recuperare le conoscenze tradizionali, ancestrali dei contadini. Studiamo e lavoriamo per conservare e proteggere i semi autoctoni, per impedire che quelli transgenici invadano le nostre terre, azzerando la nostra agricoltura e la nostra economia”.
Concetti simili mi erano stati forniti da un cabildo (guida tradizionale) degli u’wa, una comunità particolarmente perseguitata e a rischio di estinzione che tuttavia insegnava “ai nostri bambini a conservare ogni pianta della foresta, o almeno i semi”. Ad alimentare la resistenza di queste popolazioni, l’indispensabile solidarietà reciproca basata sul lavoro comunitario, sugli orti e le mense comunitari. Così come erano – e sono – di natura comunitaria l’autodifesa e la difesa dell’ambiente naturale (in particolare delle foreste e dei fiumi).
Carlos Romero aveva poi ricordato un episodio specifico risalente all’anno precedente (novembre 1999) quando “abbiamo strappato al governo una piccola parte del bilancio per le infrastrutture indispensabili nella nostra zona. Per 26 (ventisei !) giorni migliaia di contadini avevano bloccato la principale strada internazionale che attraversa la Colombia”. Un modo per far pressione sul governo affinché “investisse nel sociale e non nella guerra e nella repressione”.
Ho riesumato questa antica testimonianza perché in questi giorni, proprio nella regione del Cauca, si è consumata l’ennesima violazione dei diritti umani e del diritto dei popoli. Ancora ai danni, com’era scontato, delle popolazioni indigene.
Durante un’operazione di sgombero delle terre comunitarie occupate, due indigeni, Abelardo Liz e Johel Rivera, sono stati ammazzati e almeno altri tre feriti dalla polizia nazionale e dall’esercito. L’episodio si è svolto a El Barranco, zona rurale del comune di Corinto, nel Cauca.
Abelardo Liz era un attivo collaboratore della radio comunitaria locale, mentre Johel Rivera era conosciuto come attivista delle azioni dirette denominate “liberazione della Madre Terra”. Ossia, le occupazioni collettive a causa del non rispetto, da parte delle autorità governative, degli accordi in merito al recupero da parte degli autoctoni di porzioni di terre comunitarie di cui in passato erano stati espropriati.
L’Associazione dei Cabildo Autoctoni del Nord del Cauca ha esplicitamente accusato l’esercito di aver utilizzato armi da guerra contro i manifestanti e di aver impedito l’accesso alle autoambulanze.
Per chi aveva scommesso sulla intrinseca bontà degli accordi di pace tra le FARC e il governo, forse è questa l’occasione (l’ennesima) per ricredersi. Anche senza contare gli ex guerriglieri assassinati, in Colombia da allora la lista di militanti ed esponenti della società civile vittime della repressione e di esecuzioni extragiudiziali non ha fatto altro che allungarsi.