Il 14 ottobre a Buea, la morte di una bambina per un colpo d’arma da fuoco a un posto di blocco aveva scatenato la violenta reazione della folla, che aveva letteralmente linciato il poliziotto ritenuto responsabile. Un episodio destinato a infiammare ulteriormente gli animi in questa regione anglofona dell’ovest del Camerun, dove le istanze indipendentiste sembrano talvolta degenerare in “guerra sporca a bassa intensità”.
Una tragedia purtroppo destinata a riproporsi il 12 novembre con dinamiche simili.
Era da poco passato mezzogiorno quando un’altra bambina, Brandy Tataw di sette anni, veniva uccisa all’uscita da scuola. Stando alle ricostruzioni, così come in ottobre, sulla strada si stavano svolgendo normali controlli quando un’auto, invece di fermarsi, proseguiva nella sua corsa. La polizia sparava per fermarla, ma un proiettile, forse di rimbalzo, andava a colpire la bimba alla testa uccidendola.
Centinaia di persone, a piedi, in auto o in motocicletta, trasportando il corpicino inerte della piccola vittima, si dirigevano allora verso il quartiere amministrativo di Upstation dove si trova il governatorato. Le forze dell’ordine intervenivano per disperdere la folla aprendo il fuoco. Oltre ad alcuni feriti, si parlava almeno di un morto (non ufficialmente confermato al momento).
Mbarga Nguélé, responsabile della sicurezza nazionale, ha espresso le proprie condoglianze alla famiglia della bambina uccisa, mentre il governatore Aldophe Lélé ha promesso che sul tragico episodio si svolgerà un’accurata inchiesta e che il poliziotto responsabile del colpo fatale verrà arrestato.
Ancora sangue il giorno successivo, il 13 novembre, quando un ordigno rudimentale (IED) veniva fatto esplodere al passaggio di un mezzo della polizia. Stando alle poche informazioni reperibili, il terribile attentato – attribuibile a qualche fazione indipendentista – avrebbe causato una vera strage con la morte di cinque poliziotti e tre militari.
I tragici episodi, in qualche modo, hanno confermato l’apprensione del mese scorso per possibili disordini in occasione dell’anniversario della nascita della Repubblica Federale del Camerun, che cadeva venerdì 1° ottobre. Infatti, nel 2017 la stessa data era stata scelta da un movimento separatista per proclamare l’indipendenza dell’Ambazonia, la terra degli amba corrispondente grosso modo ai territori in passato sotto il dominio coloniale britannico (British Southern Cameroons). L’Ambazonia è già provvista di una bandiera, un inno nazionale e una costituzione, oltre che di un sito web, un canale televisivo e anche un presidente. Quello attualmente in carica ha dovuto sostituire il suo predecessore dopo che questi era stato sequestrato dal governo centrale e messo in carcere.
Quest’anno gli indipendentisti (alcuni, almeno: si parla di una decina di gruppi diversi) avevano decretato una sorta di “autoconfinamento” da parte della popolazione che avrebbe dovuto chiudersi in casa per protestare contro le “menzogne” governative..
Del resto i precedenti non mancavano. Sono infatti trascorsi poco più di due mesi da quando quindici soldati e quasi altrettanti civili (non esistono dati precisi) venivano uccisi nel corso di due diversi attacchi, opera presumibilmente dei soliti gruppi secessionisti anglofoni.
Il primo episodio risaliva al 12 settembre. A Bamessing un convoglio militare veniva colpito con lanciagranate e IED. L’altro, simile per dinamiche, avveniva a Kumbo (sempre nella regione occidentale, quella contesa).
Il conflitto tra separatisti e governo negli ultimi quattro anni ha provocato, secondo agenzie onusiane, oltre 4mila vittime e l’esodo di circa 700mila “profughi interni” (sfollati). Sia le forze governative sia i gruppi secessionisti si sarebbero resi responsabili di molteplici violazioni dei diritti umani, comprese esecuzioni extragiudiziali di civili e distruzione di interi villaggi.
Anche a causa della recente pandemia, nel marzo 2020 uno dei gruppi separatisti (le Forze di Difesa del Camerun Meridionale) aveva proclamato un cessate-il-fuoco unilaterale e il governo di Yaoundé aveva accettato di confrontarsi con Sisiku Julius Ayuk Tabe, leader di un altro gruppo separatista nell’ottica di un auspicabile “dialogo nazionale”.
Ma evidentemente, nonostante il riconoscimento e l’adozione di uno status speciale per le due regioni anglofone del Nord-Ovest e del Sud-Ovest (e la contemporanea liberazione di centinaia di prigionieri), la situazione era rimasta incandescente. Nell’ottobre 2020, nonostante le trattative in corso, un gruppo armato non ben identificato (non si esclude la possibilità di una provocazione pilotata, in stile “strategia della tensione”) assaltava una scuola a Kumba e provocava la morte di sette bambini e il ferimento di almeno un’altra dozzina, tra cui alcuni gravemente.
Nel gennaio di quest’anno erano stati invece i militari a uccidere una decina di civili disarmati a Mautu.
Il contenzioso quindi rimane aperto e, al solito, a farne le spese sono soprattutto vittime innocenti.