Evidentemente la fine dell’impero romano non ha insegnato nulla. Eppure si sostiene che tra i molteplici fattori che ne determinarono la caduta non fosse secondaria l’inveterata abitudine di servirsi dell’acetato di piombo per “insaporire” e addolcire il vino. Soprattutto tra le classi alte.
Oltre ai casi da manuale degli “imperatori folli”, se pur a diversa intensità e con beneficio d’inventario, come Caligola, Nerone, Commodo, Domiziano, Tiberio e Claudio, pare che la pazzia indotta dal saturnismo – l’avvelenamento da piombo – avesse irreparabilmente colpito anche un buon numero di romani nobili e benestanti, la classe dirigente, diciamo. Va aggiunta l’aggravante dell’utilizzo del piombo per tubature, otri e pentole.
Tale avvelenamento assumendo caratteri di cronicità comportava anemia, stipsi, dolori addominali, meteorismo, ipertensione, problemi renali, problemi alla struttura ossea e, nei bambini, ritardo mentale. Senza escludere il rischio di malattie neurovegetative e l’insorgere di tumori.
Ai nostri giorni le fonti di possibile inquinamento da piombo dell’organismo sarebbero soprattutto i cereali, le verdure, l’acqua del rubinetto. Per inciso, i più esposti al rischio potrebbero essere proprio i benemeriti vegetariani. Il cui contributo alla salute del pianeta è indiscutibile, ma che rischiano di assorbirne in maggior quantità dato che il piombo prevale nelle diete acide e in quelle a base prevalente di carboidrati e scarse di proteine. Quando si dice che al mondo non c’è proprio giustizia…
Detto ciò, esistono numerose variabili, ovviamente. E le cose possono cambiare radicalmente da zona a zona. Per esempio in certe aree della pedemontana veneta in generale e vicentina in particolare (zone di passo migratorio, valichi) la situazione appare piuttosto allarmante. A causa del piombo qui sparso nella cosiddetta “attività venatoria” volgarmente conosciuta come caccia.
Analogamente (fatte le debite proporzioni) al caso dell’uranio impoverito, possiamo dire che “le armi uccidono anche quando hanno smesso di sparare”, come è stato ampiamente dimostrato e denunciato nella mostra del febbraio 2024 realizzata dal Comune di Brescia: Il veleno dopo lo sparo – L’avvelenamento da piombo negli uccelli selvatici.
Ulteriori conferme arrivano dall’omonimo seminario Il veleno dopo lo sparo, tenutosi sempre a Brescia presso il comando della polizia provinciale il 27 aprile 2024. Dove, tra le tante cose, veniva denunciato che il 60 per cento di tutti i rapaci italiani sono intossicati da piombo in modo più o meno grave.
In tale àmbito risulta purtroppo ancora tragicamente attuale un documento, presentato anche a Brescia, risalente ormai a quasi dieci anni fa e prodotto dal Coordinamento Protezionista del Veneto. Il cpv, costituito da una dozzina di associazioni ambientaliste e animaliste (lav, enpa, lac, una, wwf, oipa, lipu…) era nato fondamentalmente per “fronteggiare la politica di liberalizzazione dell’attività venatoria [vedi cacce in deroga, cacce da capanno, da altane] portata avanti dalla Regione Veneto”. Tra l’altro recentemente riesumata con la proposta di poter sparare anche a peppole, fringuelli, storni…
Dalla lettura dei calcoli riportati in Considerazioni sull’inquinamento da piombo nella fascia pedemontana vicentina del gennaio 2015, si apprende con approssimazione molto verosimile “quanto piombo è stato sparso attraverso l’attività venatoria sulle colline e nelle valli della pedemontana vicentina”. Località che essendo “situate sulle rotte di migrazione dell’avifauna, da sempre sono meta di un grandissimo numero di cacciatori”.
Le quantità considerate nel documento si riferivano soltanto al periodo successivo al 1960, quando la caccia era diventata un fenomeno di massa. Ossia era stato considerato “un periodo di 54 anni [e dopo altri nove, 63 in totale, la situazione può essere soltanto peggiorata] e un numero di cacciatori medio di 20.000 all’anno, anche se negli anni ‘70 ed ‘80 questo numero era molto superiore”; stimando (per difetto) che ogni cacciatore avesse sparato 400 cartucce, ognuna contenente 33 grammi di piombo. Fermo restando che ancora nel 1968 l’Associazione Libera Caccia aveva effettuato un sondaggio su 176.890 cacciatori (pari all’11,8% del totale di quell’anno) e la media aveva sparato 830 cartucce. Ossia più del doppio delle 400 prese in considerazione nei calcoli del documento.
Quindi risultava che: “20.000 cacciatori x 54 anni x 400 cartucce x 33 grammi/cartuccia = 14.256.000.000 grammi, pari a 14.256 tonnellate, corrispondenti al contenuto di 4 treni merci completi, 810 autobetoniere a 4 assi, circa 18.000 automobili utilitarie”.
Il territorio sul quale è possibile esercitare la caccia a Vicenza è di circa 250.000 ettari. All’epoca (come riporta il documento del 2015, ma nel frattempo non è cambiato molto) solamente in tale provincia veneta non veniva rispettata la Legge 157 del 1992 che imporrebbe di destinare a parco o comunque sottrarre alla caccia almeno il 20 per cento del territorio. Si poteva quindi agevolmente calcolare che questa attività venisse praticata su circa 225.000 ettari.
Alcune zone però non risultano abbastanza “interessanti” dal punto di vista del cacciatore. Mentre altre, troppo vicine alle case o alle strade, sarebbero interdette. Almeno in teoria: abbiamo tutti fatto esperienza dei pallini che piovono in giardino o sul pergolo (o peggio, direttamente sul pargolo). Gran parte di tale attività si mantiene tuttora sulle colline della fascia pedemontana, specialmente durante le migrazioni. Per cui si poteva legittimamente stimare che “circa il 65 per cento dei cacciatori vicentini abbiano cacciato nella fascia pedemontana, che rappresenta circa il 30% dell’area provinciale”.
Si ha quindi che “14.256 tonnellate x 65 % = 9266,4 tonnellate pari a 9.266.400 kg di piombo sono stati sparsi sul 30 % di 225.000 ettari, cioè su 67.500 ettari”. La “densità” del piombo sparso sul suolo era dunque di “9.266.400 kg : 67.500 ettari, cioè 137,28 kg/ha, pari a 13,72 gr/mq”.
Il suddetto calcolo però – si precisava nel documento – ha un limite ben preciso: “Questa è la densità media del piombo su tutta l’area considerata, mentre è evidente a tutti che i crinali, per una fascia di poche decine di metri di larghezza, sono interessati da una attività enormemente più intensa, rispetto ad esempio ai versanti collinari, o ancor più, al fondo delle valli”. Da cui si deduce che molto probabilmente “nelle zone a più alta concentrazione di cacciatori i valori sopra enunciati debbano essere moltiplicati per decine o per centinaia di volte”.
Ricordo che i tecnici quando setacciano il terreno e prelevano i campioni da analizzare tolgono preventivamente i pallini, per cui le concentrazioni si riferiscono solamente al piombo disciolto nel terreno, nell’humus acido.
Per il Decreto Legislativo N° 152 del 3 aprile 2006 (che considera le concentrazioni massime degli inquinanti nel terreno, misurato come sostanza secca, senza calcolare quindi il peso dell’umidità), le concentrazioni massime ammesse nei terreni (distinguendo i terreni agricoli, a verde pubblico e privato da quelli a uso commerciale e industriale) devono rientrare in limiti ben precisi: quello di 100 milligrammi per ogni chilogrammo per i terreni agricoli e dieci volte di più, cioè 1000 milligrammi per chilogrammo, per le aree commerciali e industriali. Oltre tali limiti il D.Lgs 152 impone la bonifica dell’area che viene considerata contaminata e quindi nociva per la salute.
Ovviamente la caccia può essere esercitata solamente nelle aree verdi e agricole, dove il limite viene fissato in 100 milligrammi per ogni chilogrammo di terreno (secco).
Inoltre, sempre in Considerazioni sull’inquinamento da piombo nella fascia pedemontana vicentina, si sottolineava che “tra gli studiosi è opinione comune che i pallini si fermino nei primi uno o due centimetri di profondità del suolo, perché le radici e la densità stessa del terreno impediscono che si disperdano più in profondità. Si ritiene che i pallini non possano comunque mai scendere oltre i cinque centimetri. Qui il suolo è prevalentemente vegetale, e quindi acido, e questi acidi deboli riescono a disciogliere lentamente il piombo facendolo assorbire dalle radici delle piante, da dove entra nel ciclo dell’agricoltura, della zootecnia e della viticoltura. Una piccola frazione scende a inquinare le falde acquifere. Se ipotizziamo che i pallini si fermino nel primo centimetro, calcolato che il terreno vegetale (secco) ha un peso di 1450 kg al metro cubo, abbiamo che i 13,72 grammi di piombo al metro quadrato sono contenuti in una massa di 14,5 kg di terreno, quindi con una concentrazione di 946 mg/kg, cioè 9,46 volte di più del limite ammesso, mentre se ammettiamo che si disperdano nei primi due centimetri, abbiamo 473,10 mg/kg, cioè 4,73 volte di più dei limiti di legge”.
Facile conclusione: è alquanto probabile che molti dei terreni della fascia pedemontana vicentina siano da ritenere inquinati in modo gravissimo, tanto da dover “rendere necessaria, a termini di legge, la asportazione dello strato superficiale di quelli più avvelenati, e la bonifica dell’intera area pedemontana”.
Con una nota finale paradossale (per non dire allucinante): proprio alcuni di quei terreni risultano essere gli stessi della produzione di svariate “eccellenze” alimentari del Vicentino: vino, patate, latte e formaggi.
Nel documento si riportava il caso di una latteria sociale della Valle del Chiampo che produce un formaggio “a pasta morbida” alquanto rinomato. L’area del pascolo delle mucche si troverebbe sul crinale tra la Valle dell’Agno e quella del Chiampo. Storicamente impestato di roccoli, altane e capanni. Oltre che da cacciatori vaganti.
“Le nostre analisi sulla concentrazione del piombo”, spiegano gli autori del documento, “sono state effettuate su campioni prelevati in queste zone”; raccontando poi di aver saputo dai soci di tale latteria che “è capitato che il latte non cagliasse perché c’era così tanto piombo nel latte da impedire la proliferazione dei batteri necessari a farlo cagliare”.
All’epoca quelle analisi erano state inviate all’assessorato all’Ambiente della Provincia di Vicenza. “Se le analisi trovassero conferma bisognerebbe provvedere”, fu la lapidaria risposta. Ma in seguito (ne dubitavate?) la cosa è rimasta lì. E il piombo pure, evidentemente.