Nella storia si sono succedute tre forme di Inquisizione. La prima venne istituita da papa Gregorio IX, nel 1231, per combattere l’eresia dei catari diffusasi nella Francia meridionale. Formalmente però può essere fatta risalire a papa Lucio III che nel 1184, durante il Sinodo di Verona, promulgò la bolla Ad Abolendam.
La seconda Inquisizione fu quella spagnola, istituita nel 1478 da Sisto IV: un’Inquisizione nazionale controllata e gestita in autonomia dai re di Spagna, come sarà successivamente quella dei re del Portogallo (1536).
La terza fu l’Inquisizione romana di papa Paolo III, istituita nel 1542 per combattere luterani e calvinisti. Con la bolla Licet ab initio il papa intendeva dare piena attuazione a quanto sarebbe stato poi sancito durante il Concilio di Trento e limitò la sua azione quasi esclusivamente all’Italia centro-settentrionale   
Nella sua accezione storico temporale, l’Inquisizione è materia ampia e controversa. Chi scrive non ha certo la pretesa di essere divenuto improvvisamente storico e teologo distillando nuove verità, ma solo quella di aver acquisito nuove conoscenze in merito da condividere con i lettori.
Se affrontare l’Istituzione non fu certo una passeggiata di salute per chi vi fu sottoposto, negli ultimi decenni, grazie a nuovi studi e a nuovi esami critico-specialistici dopo l’apertura degli Archivi dell’ex Sant’Uffizio, si sono modificate e diffuse molte posizioni sul suo operato.
L’idea collettiva dell’Istituzione è tuttora il prodotto di una sedimentazione propagandistica antiecclesiale, anche a causa dell’autoflagellazione e dei mea culpa unilaterali degli ultimi pontefici, a partire da Giovanni Paolo II. Lo storico Giovanni Romeo, docente all’Università di Napoli e autore di Inquisitori, esorcisti e streghe nell’Italia della Controriforma (1990), scrisse: “Il XX secolo ha lasciato in eredità al terzo millennio una immagine sorprendentemente nuova dei tribunali inquisitoriali, relegati dall’immaginario collettivo tra gli orrori del fanatismo clericale”.
Le centrali di diffusione della “leggenda nera” si possono scovare nella libellistica protestante del Cinquecento, nell’Inghilterra dei Tudor, nella Francia di Voltaire e dell’Enciclopedia, e infine nell’Italietta unificata. Sulla falsariga di questa letteratura speculeranno le storiografie marxiste e liberali del Novecento; peraltro senza l’uso di fonti primarie, visto che la maggior parte degli archivi inquisitoriali vennero distrutti durante le rivoluzioni europee tra Settecento e Ottocento.
Alessandro Barbero, ordinario di Storia Medievale all’Università del Piemonte Orientale, contestualizza la nascita del tribunale dell’Inquisizione all’interno di un tessuto sociale integralmente cristiano: “Abbiamo un’immagine pornografica di questa istituzione prodotta dai polemisti protestanti a partire dal ‘500; quella di inquisitori che godono nel torturare donne nude”.
L’Inquisizione rispetto ai tribunali civili operò con tutele severe: convocò testimoni e verbalizzò (per questo conosciamo il funzionamento dei processi dell’Inquisizione e non di quelli dello Stato). Il potere costituito agì con severità e con processi sommari condotti da giudici digiuni di teologia. Nei tribunali civili la tortura era una prassi. Generazioni di magistrati, fino al ‘700, dànno per scontata la tortura per gli imputati che non vogliono confessare. L’Inquisizione, al contrario, favorì la nascita del diritto pubblico europeo.
Barbero aggiunge: “Le torture degli inquisitori erano sottoposte a dei limiti indicati dal papa: bisognava osservare dei giorni di riposo, doveva esserci un consulto medico e si poteva praticare solo per alcune ore al giorno”. Il suo scopo non è bruciare la gente, ma spiegare a tutti che chi ha sbagliato deve chiedere scusa e pentirsi. Meglio se pubblicamente. Ordinariamente un processo dell’inquisizione si conclude con l’accusato che “confessa, chiede perdono a Santa Madre Chiesa e fa penitenza”.
Il Sant’Uffizio introdurrà un principio di moderazione e – come poté – di diritto laddove il potere politico e il popolo avrebbero agito non sempre con discernimento attraverso una giustizia brutale e sommaria. Quando l’inquisitore si presentava in un determinato paese, dava inizio al Tempo di Grazia. Durante questo periodo chiunque fosse entrato in contatto con l’eresia, poteva confessarsi e ricevere un documento che attestava il suo pentimento. Veniva così integrato in seno alla Chiesa, e se per caso fosse stato fatto il suo nome, sempre in confessionale, poteva dimostrare di essersi riconciliato con Dio.
L’Inquisizione medievale ricondusse nel quadro di una prassi giuridica gli improvvisati tribunali locali antiereticali, con garanzie per gli imputati. L’utilizzo della pena capitale per arsione, solo per casi estremi e oltre ogni ragionevole dubbio, verrà applicata solamente dalle autorità laiche.

L’Inquisizione medievale

La prima ondata eretica che sconvolse l’Europa, intorno all’anno mille, fu il catarismo, diffuso soprattutto nella Linguadoca e nelle terre d’Oc. La Chiesa, nell’XI e nella prima metà del XII secolo, la contrastò con sanzioni di ordine spirituale. Oltre che un’eresia compiuta da una setta pseudo ascetica, divenne una piaga sociale che s’infiltrò negli strati più poveri della popolazione. Predicò la revoca dei poteri costituiti in una sorta di proto-comunismo e, credendo che la materia fosse cattiva, rifiutò la procreazione e il matrimonio. Favorì la pratica dell’“endura”, cioè l’astinenza di cibo e acqua, un digiuno che sfociò nei suicidi di massa.

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Espansione del catarismo.

San Bernardo, monaco cistercense, il quale lasciò la sua abbazia di Chiaravalle e nel 1145-1146 predicò a Bordeaux, Bergerac, Périgueux, Sariat, Cahors, Tolosa, Albi, Verfeil, non riuscì a fermare l’eresia. La conversione e le pene canoniche come la scomunica gli sembravano da preferirsi alle condanne secolari. Alla folla che trascinava gli eretici al supplizio, gridò: “Approvo lo zelo ma disapprovo quel che avete fatto, perché bisogna condurre gli uomini alla fede con la persuasione e non con la forza”.
Con eguale spirito la monaca tedesca Santa Ildegarda di Bingen scrisse ai principi cristiani: “Mettete gli eretici fuori della Chiesa, ma non uccideteli perché sono fatti come noi a immagine di Dio”.
Secondo lo storico Jean-Baptiste Guiraud, l’Inquisizione medioevale “fu un sistema di misure repressive, le une di ordine spirituale, le altre di ordine temporale, emanate simultaneamente dall’autorità ecclesiastica e dal potere civile, per la difesa dell’ortodossia religiosa e dell’ordine sociale minacciati dalle dottrine teologiche e sociali dell’eresia”. 
L’eresia venne strumentalizzata dai feudatari autoctoni, titolari di pubblici poteri, per le loro trame politiche. Tra loro citiamo Raimondo Ruggero Trencavel, visconte di Albi e Béziers, e Raimondo Ruggero, conte di Foix: i “protettori dei catari”. L’analisi della casata dei Saint-Gilles di Tolosa è complessa, sia per la loro condotta ondivaga, sia perché tentarono di difendere le loro terre dalla corona di Francia. Raimondo IV conte di Tolosa e marchese di Provenza prese parte alla prima crociata indetta da Urbano II in Terra Santa. Fornì i suoi cavalieri alla Reconquista, e fu un nobile tra principali attori delle lotte contro i musulmani di Spagna.
Raimondo V scrisse una missiva di questo tenore nel 1177 all’ordine cistercense a proposito dei catari: “Questo pestilenziale contagio si è talmente diffuso, che ha gettato la discordia tra coloro che erano uniti, dividendo il marito e la moglie, il padre e il figlio, la suocera e la nuora. Si rifiuta il battesimo, l’eucarestia è esecrata, la penitenza è disprezzata, si negano la creazione dell’uomo e la resurrezione della carne”,
Raimondo VI invece appoggiò gli eretici; dopodiché si tirò indietro, per poi nuovamente difenderli, fino al Concilio Laterano IV dove fu scomunicato. Raimondo VII combatté contro i francesi, ma nel 1229 si piegò al trattato di Meaux (Parigi) e ritirò l’appoggio agli eretici; rialzò la testa nel 1242 ma capitolò nuovamente, ossessionato dalla brama di riabilitare il padre morto sotto scomunica. Finì la sua vita nello zelo filo-cattolico che gli fece organizzare un rogo di ottanta catari nel 1249 ad Agen, sul fiume Garonne.
Lo storico Jacques Le Goff – che non fu mai in sintonia con la Chiesa – stigmatizzò la calunnia storica contro il vescovo domenicano e inquisitore Bernardo Gui, formulata da Umberto Eco nel romanzo Il nome della Rosa (1980) e scimmiottata dal regista Jean-Jacques Annaud nell’omonimo film del 1986. Tralasciando il falso storico della pellicola, davvero insopportabile, che vorrebbe una popolazione insorta contro Bernardo Gui fino a ucciderlo, mentre egli morì nel suo letto, oggi gli specialisti hanno completato lo spoglio dei suoi processi inquisitoriali. Dal 1308 al 1323, su 930 imputati solo 42 furono rimessi al braccio secolare, mentre 139 vennero assolti e gli altri condannati a pene minori. Dall’esame degli archivi risulta che nella seconda metà del secolo XIII gli inquisitori di Tolosa, con a capo Gui, pronunciarono condanne a morte nella misura dell’1% delle sentenze.

L’Inquisizione spagnola

L’Inquisizione spagnola fu il frutto della Reconquista antimusulmana. Sisto IV permise alla Spagna, unificata dal matrimonio di Ferdinando II d’Aragona e Isabella di Castiglia, di avere un tribunale inquisitoriale proprio che agisse sul territorio senza dover dipendere da Roma: lo stesso inquisitore generale quindi sarebbe stato nominato dalla Corona spagnola.
Scopo dell’Inquisizione, oltre alla difesa dell’identità religiosa delle Spagne, che avrebbe unito regni dalla secolare storia di indipendenza e autonomia, fu il consolidamento di un Paese pieno di culture, etnie e tradizioni diverse. Fu un’inquisizione religioso-politica, per la quale uno Stato gestì i rapporti di forza interni, individuando i fattori destabilizzanti che potevano minare la sua esistenza e sicurezza.

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Ferdinando II d’Aragona e Isabella di Castiglia.

La Spagna, unificata dalle armi e dall’unione delle corone di Aragona e Castiglia, lottò contro i musulmani ancora presenti sul suo territorio e contro il fenomeno del marranesimo: ebrei che dissimulavano la conversione al cristianesimo, ma che in segreto continuavano a professare la loro religione tramando anche come nemici della Spagna.
Questo controllo portò a circa cinquantamila processi giudiziari, di cui meno del due per cento conclusi con la pena capitale, altri con espulsioni, molti altri ancora con ritorni (autos da fè, atti di fede) nel seno della comunità spagnola. La Spagna ebbe in molti di questi (veri) conversos e nei loro discendenti figure di primissimo livello in tutti i campi della vita pubblica e religiosa.
Sotto i grandi inquisitori, Torquemada e poi Cisneros, questo difficile compito fu condotto a termine: il tutto non senza eccessi e abusi, determinati dalla gravità della posta in gioco, da un certo parossismo popolare, dalle ingerenze laicali e politiche. Resta il fatto che questa Inquisizione preservò le Spagne dalle terribili guerre di religione che insanguinarono l’Europa.

L’Inquisizione romana

La terza Inquisizione fu il Sant’Uffizio romano, fondato da Paolo III Farnese con la bolla Licet ab inizio del 1542, in funzione antiprotestante quasi esclusivamente relativa all’Italia centro-settentrionale. Già nel 1532 il cardinale Gian Pietro Carafa, futuro papa Paolo IV, sollecitò Clemente VII ad agire con la massima urgenza davanti a una situazione ormai insostenibile che vedeva una larga penetrazione delle nuove idee religiose da nord.
Nel 1542 Paolo III affidò allo stesso Carafa il compito di riorganizzare l’Inquisizione, mediante l’istituzione di una apposita congregazione cardinalizia che vigilasse sull’operato dei tribunali locali. Fondamentale, anche nel caso dell’Inquisizione romana, fu l’appoggio degli ordini religiosi, tra cui i francescani e, in particolare, i domenicani. Anche questa Inquisizione anticipò di alcuni secoli il diritto pubblico europeo: libertà nella scelta del difensore, difesa d’ufficio, prudenza nell’utilizzo della custodia cautelare, severo vaglio delle istanze accusatorie, possibilità di contro-interrogatorio per i testimoni dell’accusa.
Dal 1542 al 1761 il Sant’Uffizio emise soltanto 97 condanne a morte, rispetto alle medie elevatissime di qualunque tribunale laico dell’epoca.
Le attuali ricerche documentali vogliono mostrare la reale portata storica di un fenomeno oggetto più di caricatura malevola che di conoscenza, stimolando a una lettura più attenta. Come sappiamo, oltre a quelli dell’ex Sant’Uffizio, gran parte degli archivi inquisitoriali sono stati oggetto di distruzione e di vandalismi durante le grandi rivoluzioni europee tra Settecento e Ottocento.
Per questo nel 1998 il prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, il cardinale Joseph Ratzinger, elevato nel 2005 alla Sede di Pietro con il nome di Benedetto XVI, aprì l’archivio storico del dicastero permettendo ai ricercatori di consultare i documenti sull’Inquisizione romana: 4500 volumi con quattro secoli e mezzo di storia, a partire dal 1548, con atti consultabili fino al 1939 (fine del pontificato di Pio XI). I Decreta Sancti Officii dell’archivio si dice abbiano lacune solo per quanto riguarda gli anni 1772-1779, 1810-1813 e 1872. Chiunque abbia un diploma certificato che attesti la capacità di analizzare i documenti, può consultare gli atti dell’Inquisizione Romana. Secondo Adriano Prosperi, docente di Storia Moderna all’Università di Pisa, studioso dell’età della Riforma e della Controriforma, l’apertura degli archivi ha un valore simbolico importante per gli storici poiché si basa sulla fiducia nella ricerca e sulla conoscenza analitica del passato; così come è importante studiare una lunga fase della storia della Chiesa, che va dal Concilio di Trento al nostro secolo, attraverso i documenti della Congregazione che più di tutte ne ha espresso l’identità. Sempre nel 1998, la commissione storico-teologica per il Giubileo del 2000 organizzò in Vaticano il convegno internazionale sull’Inquisizione.
Inoltre si svolsero i seminari internazionali dell’Istituto Storico Domenicano sui rapporti dell’ordine con l’Inquisizione medievale (2002) e con le Inquisizioni iberiche (2004). Nel 2003 l’archivio della Congregazione per la Dottrina della Fede promosse un’indagine presso le diocesi italiane a proposito dei fondi inquisitoriali, insieme alla documentazione dell’attività del Sant’Uffizio presso i tribunali periferici. Una storiografia, quella sull’Inquisizione romana, che si è aperta a nuovi settori di ricerca estendendo le indagini alla storia della Riforma, al dissenso religioso e alla censura di celebri inquisiti come Galileo Galilei.

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Domenicani.

Caso, questo di Galileo, da considerare come un episodio privo di quella ferocia repressiva che affascinò l’anticlericalismo risorgimentale e il laicismo odierno. Il cardinale Roberto Bellarmino, prefetto del Sant’Uffizio, chiese allo scienziato di valutare l’idea copernicana come una delle ipotesi e non come l’assioma. Chiese di non pubblicare nulla sulle nuove concezioni cosmologiche, se non quando fossero state rigorosamente dimostrate. Galileo non si schiodò dalle sue posizioni, pubblicò il Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo (1632) pensando che Urbano VIII, suo vecchio amico, sarebbe stato comprensivo. Cadde sotto i rigori dell’Inquisizione, che aprì un processo terminato con la condanna e la richiesta dell’abiura. Galileo favorì così l’emergere di una forma nuova di religione, “lo scientismo”, la cieca devozione alla scienza, finendo per spezzare l’equilibrio tra fede e scienza disegnata da San Tommaso d’Aquino.
Un autorevole vaticanista, Marco Tosatti, nel suo blog Stilum Curiae www.stilumcuriae.com aggiunge: “Non è vero che la Chiesa ammise l’errore giudiziario contro Galileo Galilei solo nel 1992 con papa Giovanni Paolo II. Nel 1820 il Sant’Uffizio, stigmatizzando l’atteggiamento dei cardinali dell’Inquisizione ai tempi di Galileo, sentenziò la compatibilità tra la fede cristiana e il sistema copernicano e le sue opere. Nel 1851, dopo le conferme di Jean Bernard Léon Foucault sulla teoria copernicana, l’Università Cattolica fu la prima a inserirla nei propri corsi scientifici”.

Una “vecchia” storia

La storia, pur di infondere complessi d’inferiorità alla cattolicità, è stata corrotta minuziosamente in tutte le forme. Tuttavia la ricerca storico-archivistica, compiuta da specialisti di aree di pensiero differenti, ha in qualche modo capovolto i luoghi comuni sull’“Inquisizione nera”, anche se continua la saggistica torrentizia di quei raccontatori che non ripetono mai allo stesso modo le leggende che hanno sentito da altri.
L’imponente documentazione ha messo i ricercatori di fronte a tribunali non arbitrari, che scoraggiavano denunce e delazioni. Luigi Firpo, lo storico più laicista d’Italia, cui il cardinale Ratzinger volle aprire le porte dell’Archivio dell’ex Sant’Uffizio, arrivò a dichiarare: “Davanti a quel tribunale, più che dei colpevoli di reati di opinione, dei paladini della libertà di pensiero, comparvero delinquenti comuni, persone colpevoli di atti che anche il diritto moderno considererebbe come reati”.
Ma è opportuno stemperare gli entusiasmi di chi è a favore di una rilettura documentata della storia: la leggenda nera sul cosiddetto Medioevo (che la medievalista Régine Pernoud pregava di scrivere sempre tra virgolette) è un misto di verità e di immaginazione; ma è pia illusione che un qualsiasi archivio possa avere la meglio sui pregiudizi, che qualsiasi atto possa confutare tabù cristallizzati. Molti storici non hanno dovuto aspettare l’apertura degli archivi per avere una conferma di conclusioni già raggiunte dopo aver superato visioni apologetiche o demonizzanti. Come dice il medievalista Franco Cardini: “É sempre necessaria la revisione delle interpretazioni storiche pregresse: se non fosse tale, non sarebbe nulla”; anche rischiando a mio avviso, ma ne vale la pena, di esporsi alle critiche di revisionismo.
È infine fondamentale che l’eco di atti e studi sconosciuti fuori dal giro accademico, dai mass media e da molti cattolici giunga alle orecchie del pubblico dei non specialisti di medievalismo scientifico e modifichi la “leggenda nera” sulla materia; senza per forza sposare quella “rosa”.