Non sappiamo se quando queste righe verranno pubblicate sarà ancora in piedi la statua in memoria di Arin Mirkan (caduta nel 2014 combattento contro l’isis) nella piazza centrale di Kobanê. Me lo auguro, ma intanto incrocio le dita.
Vediamo intanto di aggiornarci sulla situazione.
Uno degli ultimi comunicati (serata del 17 dicembre) del comando generale delle Forze democratiche siriane (sdf, dalla sigla in inglese), dopo aver brevemente analizzato la nuova fase sopraggiunta con il “collasso del regime Ba’th e i significativi cambiamenti che rendono incerto il futuro della Siria”, denuncia gli attacchi dello “Stato di occupazione turco che da anni va attaccando le nostre regioni del nord e dell’est della Siria con i suoi mercenari”.
Dopo Manbij toccherà a Kobanê? Considerando la grande mobilitazione sulla frontiera di soldati e mercenari dotati di armamenti pesanti, e i persistenti, quotidiani attacchi supportati dall’aviazione alla diga Tishreen e al ponte di Qara Qwzaq, pare proprio che questa sia l’intenzione di Ankara. Viene comunque sottolineato che dopo “cinque giorni di feroci scontri e di intensa resistenza, i nostri combattenti hanno respinto tutti questi attacchi”.
La caduta di Kobanê nelle mani degli ascari di Ankara, il cosiddetto Esercito nazionale siriano, consentirebbe alla Turchia di annettere l’intera regione.
Al prezzo di durissime battaglie contro l’isis, le sdf avevano ottenuto il riconoscimento di gran parte della comunità internazionale come “forza legittima”. Appare quindi scandaloso che lo Stato turco stia – di fatto – vendicando Daesh attaccando proprio le medesime aree dove venne sconfitto, quando Kobanê assurse nell’immaginario collettivo a simbolo della resistenza al fascismo islamico.
Già all’epoca da Ankara si declamava che “Kobanê è sul punto di cadere”, non senza compiacimento. Ora il compito, all’epoca delegato agli islamisti, verrebbe portato a compimento (per ora solo a livello di intenzioni) direttamente dallo Stato turco, nell’ingrata indifferenza di quelle nazioni – europee in primis – che trassero gran beneficio dalla sconfitta di Daesh.
Ovviamente le sdf auspicano che “così come Kobanê segnò l’inizio della sconfitta dell’isis, possa ugualmente segnare l’inizio della caduta di Erdogan e dei suoi mercenari”.
Il comunicato sdf chiama quindi a raccolta “i giovani curdi e arabi e tutto il nostro popolo” per integrarsi in massa nella resistenza. Dato che “se aspiriamo a un futuro in cui le nostre famiglie e il nostro popolo possano vivere in sicurezza e onore nella propria terra, dobbiamo arruolarci urgentemente nelle sdf”. Rivolgendosi anche a “tutti i popoli del Medio Oriente, al mondo, agli alleati rivoluzionari, agli amici, ai democratici e chi cerca la libertà affinché sostengano il popolo di Kobanê”.
Sempre nella giornata del 17 dicembre, Mazlum Abdi, comandante delle sdf, ha diffuso una dichiarazione in cui afferma di “proseguire nella ricerca di un accordo di cessate-il-fuoco generale in Siria” e di essere disponibili al “consolidamento di una zona smilitarizzata nella città di Kobanê”, anche sotto la supervisione statunitense, ben sapendo che non è possibile fare troppo affidamento su Washington. Del resto – nonostante le feroci critiche e condanne da parte di “campisti” e rosso-bruni – su questo la posizione dei curdi è sempre stata netta (per chi volesse intendere ovviamente). In sostanza, la collaborazione tra sdf e i militari statunitensi incentrata sulla sconfitta dell’isis, non ha mai assunto valenza strategica. Per questo le sdf hanno sempre insistito sullo statuto di autonomia come una garanzia nei confronti dalla dipendenza militare rispetto agli usa. Con tutte le complicazioni e talvolta contraddizioni che fatalmente si sono via via generate. Per esempio nel 2019 quando (su “suggerimento” o richiesta statunitense) i curdi ritirarono le armi pesanti da Ras al-Ayn (Serêkaniyê) e da Tel Abyad (Girê Spî), per “rassicurare” la Turchia che sosteneva di sentirsi… “minacciata”.
In cambio gli Stati Uniti avevano promesso protezione ai curdi. Sappiamo poi come è andata. Ankara aveva invaso, occupato e “ripulito” (nel senso di pulizia etnica) Serêkaniyê e Tel Abyad. Applicando gli stessi metodi (saccheggi, furti, torture, sequestri di persona) sperimentati nella città di Afrin.
Dovremo assistere allo stesso indegno spettacolo anche a Kobanê?
Significative (propedeutiche?) le dichiarazioni rese alla televisione del ministro degli Esteri e del capo dello spionaggio turchi, secondo cui “i leader stranieri delle ypg devono lasciare la Siria entro il 21 dicembre mentre i siriani nelle ypg devono deporre le armi”. Certo che definire “stranieri” i curdi di ypg e ypj (il Rojava è comunque parte del Kurdistan, non dimentichiamolo) da parte di un esercito invasore in cui combattono uzbeki, tagiki, uiguri, azeri, turchi e presumibilmente anche ceceni, suona perlomeno fuori luogo.
Una conferma che per Erdogan questa parte della Siria rientra nei progetti di un nuovo impero ottomano. Ma soprattutto il pretesto per sradicare definitivamente il confederalismo democratico, potenzialmente pericoloso per il regime turco in quanto “contagioso”.