Proseguono e si intensificano gli scioperi della fame a oltranza, sia di Leyla Guven, sia di altri prigionieri ed esponenti politici curdi. È di questi giorni la notizia che agli oltre 300 prigionieri già in sciopero se ne sono aggiunti molti altri. A migliaia. E anche, per la seconda volta, alcuni prigionieri turchi comunisti.
Purtroppo la risposta della solidarietà internazionale non è stata, almeno finora, adeguata alla gravità della situazione. Così come l’opinione pubblica non sempre è apparsa correttamente informata. Del resto anche le istituzioni internazionali, Unione europea in primis, non sembrano aver colto – se non addirittura volutamente ignorato – le ragioni profonde di tale lotta estrema, radicale. Ossia, la necessità della fine dell’isolamento per Ocalan, segregato a Imrali da venti anni, senza la quale non è possibile prospettare una “soluzione politica del conflitto” degna di tale nome.
Eppure è fuori discussione che i curdi e le FDS hanno rappresentato l’essenza delle forze di terra nella lotta contro il Califfato. Sia catturando o eliminando circa 30mila miliziani dello Stato Islamico, sia pagando un prezzo molto alto con la vita di migliaia di combattenti per la libertà. Ma questo non ha potuto arrestare gli attacchi di Ankara (oltre che in Bakur naturalmente) contro le regioni autonome curde nel Nord della Siria. Prima nel 2016; poi, in profondità, nel 2018 (Afrin).
Possiamo parlare di un ennesimo tentativo di pulizia etnica da parte della Turchia. Consentito dal ritiro (totale o parziale, non si è ancora ben capito; adesso pare ne rimangano 200) degli americani. Una ghiotta occasione per la Turchia che non aspettava altro.
Al momento sembrerebbe che la Francia intenda proporsi come garante dell’incolumità delle popolazioni curde. O almeno questo è quanto lasciano intravedere sia gli appelli del Partito Socialista francese (14 febbraio), sia le dichiarazione dell’ex presidente Hollande (a Kirkuk il 27 febbraio). Così come il recente appello rivolto all’Unione europea da Generation-s (il movimento fondato dall’ex candidato premier dei socialisti, Benoit Hamon) per “creare una zona di protezione sotto l’egida dell’ONU nel Nord della Siria”.
Quanto all’offerta del movimento curdo per una soluzione che comporti la realizzazione di una Siria decentralizzata, federale (e quindi non la divisione del Paese come pretendono i detrattori del movimento curdo di liberazione, anche quelli di sinistra), per ora non viene presa in considerazione da Damasco.
Erdogan è ormai letteralmente ossessionato dai curdi. Ma – dovendo render conto sia a Putin sia a Trump – appare incerto, al di là delle dichiarazioni roboanti e dei propositi di “far pulizia”, e la situazione rimane ancora sospesa. Fino a quando?
È possibile che la questione sia anche – o soprattutto – di natura economica, commerciale. Vedi l’acquisto da parte di Ankara del sistema S-400 dalla Russia, vedi la questione degli aerei F-35 statunitensi…
Staremo a vedere, comunque.
Nel frattempo, il 28 febbraio, si è tenuta presso il Parlamento di Bruxelles (con la partecipazione del Collectif belge pour la prévention des crimes de génocide et contre le negationisme,Women for justice, Centre laic juif David Susskind (CCLJ) e AGBU Europe) una conferenza dedicata alle donne yazidi e alla tragedia subita da questa popolazione curda (uccisioni, stupri, rapimenti, riduzione in schiavitù).