Nel folklore biellese compare di tanto in tanto il personaggio fantastico e fuori norma dell’“uomo selvatico”, il solitario abitante dei boschi e della montagna che nasconde tanti incredibili segreti. Secondo la tradizione, egli viveva nella ben nota “Caverna dell’uomo selvatico” posta sopra il Tracciolino a poca distanza dal ponte sull’Elf: un precario rifugio sotto roccia che, tuttavia, suscita molti interrogativi sia sulla sua effettiva funzione sia sull’identità del suo presunto abitante.
Secondo la leggenda, l’antro montano sarebbe stato abitato da un individuo solitario e scontroso che non infastidiva nessuno, limitandosi a chiedere un po’ d’ospitalità e di compagnia negli alpeggi, dando agli ignoranti montanari preziosi consigli sulla lavorazione del latte per farlo coagulare, sul modo di fare la toma e il burro, utilizzando una speciale erba di montagna. La convivenza si sarebbe interrotta quando un margaro irriguardoso o forse ubriaco avrebbe cercato di bruciare la barba all’uomo delle selve che, spaventato e furioso, sarebbe fuggito nella sua caverna negando agli alpigiani i suoi preziosi consigli.
Lungo il Tracciolino, la cavità dell’òm salvej é indicata da un cartello posto a fianco della strada asfaltata, ma la salita all’antro per un viottolo ripidissimo è disagevole poiché la vegetazione spontanea tende sempre più a coprirlo e le piogge torrenziali hanno rovinato gli scalini pietrosi. Nell’angusto pianoro al termine del percorso si apre la caverna alta circa tre metri. Appare subito molto antropizzata, ampliata all’ingresso dal lavoro dell’uomo, che ha lasciato la sua impronta allineando su un lato diverse pietre squadrate a formare un rudimentale giaciglio o la base per sostenere dei pesi.
La parete rocciosa è stata scavata per ricavare una vaschetta per raccogliere l’acqua ed è stato praticato un foro quadrato che sembrerebbe utile a sorreggere dei pali. La cavità naturale, lunga una quindicina di metri e terminante a imbuto, tuttavia, malgrado queste misere migliorie è un oscuro e umido anfratto ristretto e non sembra poter garantire condizioni sufficienti all’abitabilità umana. Se poi, come si racconta, la caverna doveva servire da rifugio, sarebbe stata il luogo meno indicato poiché è esattamente all’altezza del prospiciente ex convento della Trappa, da cui si vede benissimo l’ombra oscura della cavità quando la vegetazione è scarsa nella stagione invernale.
Verrebbe dunque logico pensare che l’òm salvaj leggendario fosse il proprietario della grotta, ma non ci vivesse e semmai vi esercitasse una qualche attività estrattiva: molto comune in tutto il Biellese dove, accanto alla raccolta dell’oro nei fiumi, erano attive parecchie miniere di rame e d’argento, al punto che in Valsessera se ne conserva memoria nel toponimo “Costa Argentera”. Se davvero in val dl’Elf, accanto alle miniere ufficiali, era stata avviata da qualche individuo ardimentoso una personale e segreta attività di scavo, niente era più utile della diceria su una presenza inquietante per poter lavorare senza nessuno attorno.
A meno che proprio in quell’antro fosse stata celato il favoloso tesoro nascosto dai frati all’inizio dell’Ottocento per sottrarlo al saccheggio dei “liberatori” venuti dalla Francia dopo la fasulla “rivoluzione” dei tagliagole giacobini. L’immensa fortuna dei trappisti, frutto forse di fortunate pesche d’oro nell’Elf, ben occultata, non venne mai rinvenuta benché cercata fra i ruderi del convento. Il loro tesoro potrebbe essere stato celato in un luogo più sicuro dai monaci prima di andare in esilio; e se davvero fosse stato occultato nella grotta posta dirimpetto al convento, la leggenda dell’uomo dei boschi minaccioso sarebbe servita a tener lontani curiosi, predoni e ficcanasi.
In ogni caso, l’om salvaj é un personaggio sapienziale, esperto eccelso nell’arte casearia di cui avrebbe trasmesso i segreti ai popolani locali, spesso refrattari a riceverli, ostili a un individuo diverso e “straniero”, come i nani delle selve conosciuti come Gnero ghignarel che in piemontese significa sia bambinello sorridente sia pastore sghignazzante.
Quella sull’Elf non è la sola caverna biellese ritenuta rifugio dell’om salvaj, poiché anche nell’alta valle del rio Sarv è nota la leggenda del selvaggio solitario rifugiato in una grotta del Dèir dij Colomber, sopra il santuario di San Giovanni, in un territorio dove in passato erano attive molte miniere per la ricerca di “cuivre & argent”, rame e argento, come quelle di Rialmosso, della Tëggie dël Camp o di Campiglia. Anche nella leggenda della val del Sarv l’eremita non scavava ma, come quello dell’Elf, insegnava a fare burro e formaggio. Sarebbe poi diventato un pericoloso nemico dell’armonia comunitaria per aver rapito una giovane di cui s’era innamorato, finché i valligiani infuriati l’avrebbero costretto ad andarsene una volta per tutte.
A differenza del selvaggio sopra Sordevolo ricordato solo nelle leggende, quello del Sarv ha avuto la singolare fortuna d’essere raffigurato, sia pure sotto identità fittizie, in una statua all’interno della cappelletta cristiana eretta nel Seicento e oggi compresa nel “Percorso etnografico della religiosità popolare”, che sale direttamente da Campiglia Cervo al santuario di San Giovanni per scendere al luogo di partenza passando per la frazione Oretto. Ai lati del sentiero che si snoda impervio nel bosco, subito dopo il ponte che a Campiglia collega le due rive del Sarv, sono state edificate cinque cappellette di devozione per personaggi di particolare santità, tutti accomunati dall’aver trascorso gran parte della loro vita di meditazione in luoghi isolati o selvaggi.
Eremiti “anacoreti” e ascetici furono i santi Paolo, vissuto in una grotta per 60 anni, e Antonio, fondatore del monachesimo orientale, celebrati assieme nella prima edicola; Ilarione di Gaza ricordato nella seconda; il dottore della Chiesa Girolamo, vissuto nel deserto; e anche Maria Maddalena di Magdala, che avrebbe trascorso 30 anni in una caverna dopo aver attraversato il Mediterraneo ed essere sbarcata in Francia.
La grotta della Maddalena presso Saint-Maximin prese il nome di “Sainte-Baume”, un toponimo che foneticamente è del tutto affine alla borgata della Balma nel Comune di Quittengo, non lontana dalle cappelle votive della val del Sarv.
La quarta cappella che s’incontra salendo, quella totalmente immersa nella magia ombrosa dei faggi, è dedicata al poco noto sant’Onofrio, raffigurato con una statua posta all’interno del tempietto dove, come spiega un cartello, l’eremita vissuto 60 anni nel deserto “appare sempre come un uomo selvatico, con il volto sofferente, i folti capelli lunghi inanellati, la barba incolta e molto lunga, il perizoma di foglie”: proprio la descrizione di un òm salvaj come quello che la leggenda voleva vivesse a poca distanza. Ci vuol dunque poco a sostenere che il santo vestito di fronde intrecciate si sovrappone e assume le caratteristiche del personaggio misterioso che più ha affascinato la fantasia popolare delle montagne. Purtroppo la statua è oggi a pezzi, e tra le grate della finestrella s’intravedono soltanto la parte del corpo e la testa barbuta buttata a terra nella polvere. La suggestiva scultura sarebbe stata ridotta in pezzi da misteriosi e sciagurati teppisti che sarebbero riusciti, chissà come, a compiere il loro misfatto all’interno del piccolo edificio tutto cementato e con l’unica apertura nella finestrella, protetta da una robusta grata di ferro.
Le pareti della cappelletta dovevano forse rappresentare delle scene particolari perché, a fine Ottocento, col pretesto d’un restauro vennero completamente imbiancate. Ma il santo vestito come un òm salvaj c’é ancora.