Vi ricordate dell’indomito leopardo persiano (Panthera pardus tulliana, da me arbitrariamente definito “leopardo curdo”, se non altro per il temperamento) catturato in dicembre nel Bashur, Kurdistan iracheno, e trasportato in uno zoo di Duhok per essere curato? Purtroppo a causa delle ferite provocate dalla trappola (ma non si esclude che sia stato ulteriormente ferito intenzionalmente dagli abitanti del villaggio) ha perso in parte l’uso delle zampe e non sembra possibile rimetterlo in libertà.
Un destino, il suo, analogo ad altri esemplari della rara specie. Se, come raccontano i curdi, ai loro nonni capitava di vederli anche di giorno, attualmente sono quasi scomparsi. Nella migliore delle ipotesi, secondo l’ecologista curda Hana Raga, in tutto il territorio curdo situato entro i confini iracheni ne sarebbero rimasti in circolazione poco più di una ventina. Troppo pochi per garantire la sopravvivenza della specie.
Almeno una decina di esemplari sono stati rinvenuti uccisi da colpi d’arma da fuoco negli ultimi anni. È presumibile che altrettanti siano stati ammazzati e poi fatti sparire dopo averli scuoiati.
Classificato come “specie in via di estinzione” dall’UICN, l’unione internazionale per la conservazione della natura, complessivamente ne sopravvivrebbero in libertà non più di un migliaio, oltre a circa 200 in cattività. Attualmente viene segnalato sia in Iran sia in Afghanistan, ma in un non lontano passato viveva anche in Turchia e nel Caucaso.
Due studiosi, i fratelli Bahez e Nabaz Farroq, hanno installato alcune fototrappole sulle pendici del monte Bamo per poterne documentare la presenza in Bashur e avviare una campagna di protezione. Non solo dei leopardi superstiti, ma anche dell’habitat. Coinvolgendo le comunità locali e organizzando direttamente le campagne contro un ulteriore degrado. Per esempio (recentemente, nel 2020), riuscendo a impedire l’apertura di alcune cave di calcare in questi territori da salvaguardare.
Per i due protezionisti, “luoghi come la montagna Bamo, se efficacemente protetti, potrebbero diventare un luogo di riproduzione”. Per questo, aggiungono, “dobbiamo salvarli, in quanto fanno parte della nostra cultura e della nostra identità”.
Oltre che dal bracconaggio (in Iraq la caccia alle specie in via di estinzione è comunque proibita), il leopardo è minacciato dalla perdita di ambiente naturale e dagli “effetti collaterali” delle guerre. Non dimentichiamo che fino al 1991 questi territori curdi subivano una pesante repressione, con bombardamenti ricorrenti e sistematici (anche con armi chimiche) da parte di Saddam Hussein. Quando gli abitanti sono rientrati nei loro villaggi, ritrovandoli quasi completamente distrutti, per sopravvivere hanno ripreso a cacciare in maniera indiscriminata, soprattutto le capre selvatiche abituali prede dei leopardi.
Inoltre alcune zone – e in particolare proprio sul monte Bamo – sono infestate dalle mine antiuomo (molte di fabbricazione italiana, tra l’altro) qui deposte da entrambi i belligeranti negli anni ottanta, all’epoca della guerra Iran-Iraq. Oltre a rendere difficile il lavoro di ricercatori e protezionisti, le mine hanno fatto strage sia di umani sia di animali, capre selvatiche e leopardi compresi.
Senza poi dimenticare che il Bashur, stando ai dati forniti dal governo regionale del Kurdistan (KRG), avrebbe perso circa la metà delle sue foreste tra il 1999 e il 2018 (durante quello che viene considerato un periodo di fiorente sviluppo economico, aumento del PIL, eccetera).
Va anche detto che il rispetto per la natura, l’ambiente, la flora e la fauna sembrerebbe in aumento tra gli abitanti del Bashur. Sorgono associazioni per la protezione degli animali e cresce l’indignazione per gli atti di crudeltà nei loro confronti. Soprattutto contro il diffuso bracconaggio ai danni dell’avifauna selvatica e dei rari esemplari di grandi predatori (oltre ai leopardi, anche gli orsi cadono sotto i colpi dei fucili).
Ma impedire bracconaggio risulta alquanto difficile, sia per la vastità del territorio da controllare, sia per la scarsità di mezzi a disposizione della polizia forestale. Oltretutto, lamentava un loro responsabile, “i bracconieri hanno armi e fuoristrada migliori dei nostri”.