La rinascita delle lingue padane (o meglio, presenti in Padania), se da una parte rappresenterà una grande vittoria culturale, dall’altra si porterà appresso alcuni problemi di carattere pratico e amministrativo.
Il renderle ufficiali accanto all’italiano all’interno dei singoli stati federati come l’Emilia, il Friuli, il Veneto, la Valle d’Aosta, presupporrà per ciascuna di esse la presenza di una versione unitaria, una koiné, in grado di supportare documenti pubblici, tecnici e legali senza dare spazio a confusioni interpretative: la precisione semantica è imprescindibile nelle società moderne.
Alcune etno-regioni attuali dispongono già di un discreto standard, o per omogeneità geolinguistica, o grazie all’opera di normalizzazione delle accademie locali. In Liguria, zona di per sé, abbastanza compatta, tende culturalmente a predominare la versione genovese (nel Levante come nel Ponente capita spesso di udire la parola “genovese” quale sinonimo linguistico di “ligure.”).
Del Piemonte sappiamo che esiste una lingua letteraria ormai radicata; in Friuli le varie parlate non si possono dire così distanti da osteggiare un friulano ufficiale; e lo stesso si può affermare per la Valle d’Aosta (francese a parte) e il Veneto. Ma certe realtà, come la lombarda e in misura forse minore l’emiliana, mostrano una tale multiformità da sconsigliare qualsiasi tentativo di normalizzazione, a meno di non voler sfiorare il ridicolo.
La questione della grafia
Anche le regioni meglio messe dal punto di vista della futura lingua ufficiale devono però fare i conti con un altro aspetto non secondario: la grafia. È inutile decretare l’ufficialità del tal vocabolo se poi ognuno lo scrive come vuole. Se questo problema è stato da tempo risolto brillantemente in Piemonte (e a Milano), qualche difficoltà si è verificata in Veneto, malgrado i secoli di autogestione politica.
Anni fa lo studioso Manlio Cortellazzo e la Società Filologica Veneta proposero propri sistemi di trascrizione, i quali non ebbero però il successo sperato. Bisogna attendere il 1995 per assistere a un’operazione forse definitiva, il manuale Grafia veneta unitaria, pubblicato a Venezia dalla casa editrice La Galiverna per conto della Giunta regionale del Veneto. La stesura è stata curata da una commissione scientifica nominata dalla Giunta e diretta dallo stesso Cortellazzo. Il lavoro è stato condotto con grande intelligenza e forte senso pratico, nell’intento di consentire la scrittura di varietà locali anche territorialmente ristrette o più distanti dal corpo principale della lingua (come i dialetti ladino-veneti, l’agordino).
Ovviamente non è stato possibile rinunciare a simboli diversi da quelli presenti nella lingua italiana, ma essi sono stati contenuti nei limiti dello stretto necessario. Per esempio, c’è una fricativa interdentale (cioè pronunciata con la punta della lingua tra gli incisivi) che suona imparentata alla “theta” greca o al “th” inglese: gli studiosi l’hanno resa con una “d” attraversata da una lineetta (esiste qualcosa del genere nel feringio e nell’islandese), ma anche con un più accessibile “dh”. La stessa lineetta attraversa la “l” quando si voglia indicare l’inconfondibile elle evanescente veneta. Il simbolo lo si vede già da tempo come prima lettera di “Liga”, e infatti la parola si pronuncia “gliga” ma… senza il “gl”.
Una moltitudine sonora
Ci si chiederà che bisogno ci sia di scomodare simboli appositi per indicare certe pronunce; in fondo i toscani dicono “hasa” e “scena” ma scrivono casa e cena. Il fatto è che in Veneto esiste anche la elle normale (laterale alveolare, dicono gli esperti, cioè con la lingua appoggiata al palato vicino agli incisivi superiori), e può succedere che due vocaboli abbiano significato diverso a seconda del tipo di elle. Si tratta dunque di due lettere ben distinte, esattamente come la “ö” celtopadana che non è, come credono gli italici. il modo lombardo o emiliano di pronunciare la “o”, bensì una lettera ben distinta come nel francese o nel tedesco.
Gli autori del saggio fanno un esempio in tal senso, riferito ai dialetti ladino-veneti e riguardante le due “d”, la normale e la fricativa interdentale di cui abbiamo accennato: “al dòu”; nel primo caso vuol dire “il giogo”, nel secondo “ha dato” .
Comune alle lingue padane propriamente dette è la copia “sc” , che in italiano si legge come in “sciare”, ma a nord della linea LaSpezia-Senigallia vale quasi sempre per due suoni distinti, la “s” più la “c” di “ciao” ; la commissione di studio ha proposto la grafìa “s-c”, adottando, non sappiamo se volontariamente o meno, il sistema piemontese.
Per finire, un discorso a parte merita la “x”, la “ìc-chese”, direbbero i toscani. In italiano sta per “cs”. ma il suo uso in Padania e in Veneto è ben diverso. In Liguria si pronuncia come la “j” francese, di cui un esempio è “bixiu”, grigio, donde il nome (ovviamente italianissimo!) del garibaldino Nino Bixio.
In Veneto, ma anche in antichi testi lombardi e emiliani, la “x” compare a rappresentazione della esse sonora di “rosa”. Lo scopo era differenziarla dalla esse sorda di “sera”. Dato il valore, per così dire, storico della “x”, il manuale finanziato dalla Regione Veneto ne codifica il mantenimento in alcuni casi particolari, tra cui la terza persona dell’indicativo presente di “èssar” (essere): “xe” (è, sono).
Ettore Beggiato: l’esperienza veneta, un esempio per tutti
Ettore Beggiato, consigliere regionale del Veneto per la Lega Nord, è il principale ispiratore dell’iniziativa che ha portato alla normalizzazione della lingua veneta.
Che una Giunta regionale abbia votato una deliberazione come quella sulla grafia veneta desta come minimo stupore. Sarà stata un’impresa difficile…
“Abbastanza, sì. Una proposta simile l’avevo già avanzata nel gennaio 1989 senza successo. Identico risultato in due successive occasioni. Pensa che nel 1991 l’ufficio legislativo della Giunta aveva addirittura bollato la proposta di normalizzare la grafia veneta come un ‘fattore di disgregazione dell’unità nazionale’! Aggiungi a questo bell’atteggiamento il fatto che io non ero assessore regionale alla Cultura ma… all’Emigrazione, e immagina quanto poco spazio avessi per manovrare. Così sono ricorso a un escamotage. Ho mostrato una documentazione ìnviatami dalle comunità venete in Brasile, che sono venetofone, in cui si lamentava la mancanza di una regolamentazione della lingua scritta. In pratica si rivolgevano a me come rappresentante della madrepatria per lamentare di essere lasciati culturalmente soli. A quel punto, chi poteva occuparsene se non l’assessore all’Emigrazione?”
E così la proposta e passata. Chi l’ha avversata di più?
“Questa volta, nessuno in particolare”.
I precedenti tentativi di adottare una grafia veneta unitaria non hanno avuto il successo sperato. Stavolta e andata meglio?
“Gli esiti sono abbastanza soddisfacenti. Ci sono state risposte interessanti, specialmente dal mondo della scuola. Il manuale Grafìa veneta unitaria, momentaneamente esaurito, è stato tirato in 5000 copie che sono state inviate a tutte le biblioteche della regione, ai circoli veneti nel mondo e alle scuole medie. Teniamo comunque conto che si è trattato di un semplice punto di partenza. Bisogna fare di più e di meglio”.
In che senso?
“Se proprio devo essere sincero, non condivido fino in fondo l’impostazione del manuale. Si mantengono troppe opzioni. A volte si propongono due o tre simboli per indicare lo stesso suono; rispetto per le tradizioni, non discuto; ma il processo di salvaguardia di una lingua passa per una ferrea normalizzazione. Però, ripeto, è solo il primo passo. Dovremo arrivare a una stesura definitiva con meno varianti”.
Nella commissione che ha elaborato la nuova grafia sono presenti esponenti del mondo accademico. Qual è il vostro rapporto di venetisti con gli studiosi cosiddetti ufficiali?
“È un rapporto che va in buona parte costruito. Soprattutto nel Veneto, il mondo accademico guarda con distacco, se non con ostilità, al lavoro di riappropriazione culturale, storica e linguistica. Anche se alcuni suoi esponenti – come Manlio Cortellazzo dell’Università di Padova, che ha presieduto la commissione scientifica per la grafìa – si stanno pian piano rendendo conto che l’università non può più rinchiudersi in una torre d’avorio, ma deve entrare in contatto con là realtà circostante”.
Una realtà che, per quanto riguarda il Veneto, viene ormai liquidata da tutti i giornali come ignorante e antistorica.
“Quegli otto sono finiti sul campanile di San Marco anche per questo. La gente qui non ne può più del disprezzo per i veneti, di quell’atteggiamento spocchioso e sufficiente che ha adottato in particolare una certa sinistra. Quando sento che un ministro dell’attuale governo, Livia Turco, parla testualmente di ‘malessere del benessere’, mi rendo conto che ci sono individui totalmente incapaci di capire la situazione. Sono davvero convinti che si occupino i campanili per ottenere due chilometri in più di autostrada o per avere la terza macchina? In nessuna realtà come nel Veneto c’è una così potente saldatura tra il progetto politico indipendentista e la fortissima necessità di riappropriazione della propria storia”.