Nel 2019 il Ladakh si ritrovò separato dallo Stato indiano di Jammu e Kashmir, passando sotto il controllo amministrativo diretto di Nuova Delhi. Anche se all’epoca quella sembrava una buona notizia per un gran numero di abitanti (ladakhi e ciangpà), costoro hanno poi avuto tutto il tempo per ricredersi. Di fatto, si perdeva gran parte dell’autonomia di cui prima godevano, la disoccupazione aumentava e – non ultimo – gli ecosistemi risultavano gravemente intaccati.
Da parte sua il governo centrale appariva intenzionato a sviluppare soprattutto il turismo (una forma di colonialismo interno) e gli impianti fotovoltaici industriali a spese di migliaia di ettari di terreno.
Per protesta un gruppo di militanti ambientalisti – il più noto è Soman Wangchuk – ha iniziato in settembre uno sciopero della fame. Una lotta rimasta sostanzialmente pacifica per circa due settimane finché, il 24 settembre, centinaia di giovani sono scesi in strada innescando scontri con le forze dell’ordine, lanciando pietre e assaltando la sede locale del partito della destra nazionalista indù bjp (Bharatiya Janata Party, partito del popolo indiano), poi data alle fiamme.
Quando la polizia ha aperto il fuoco, almeno quattro manifestanti sono rimasti uccisi e i feriti si contavano a decine.
Accusato di aver provocato i disordini con la sua protesta, Soman Wangchuk veniva quindi arrestato, insieme a diversi suoi sostenitori, in base alla legge sulla sicurezza nazionale. Ma, dato che le proteste non si fermavano, in ottobre il governo ha rimesso in libertà una trentina di manifestanti (ma non Sonam Wangchuk che rimane dietro le sbarre).

Settarismo…

Sempre rovente poi la questione innescata ancora nel 2021 dalla legge che colpisce con pene fino a 10 anni coloro che cambiano religione per vantaggi economici o per coercizione (spesso solo presunta).
Nel nord-ovest del Paese, nel distretto di Kathua (Stato di Jammu e Kashmir), una decina di agenti sono stati sospesi in quanto non erano intervenuti allorché un gruppo di estremisti indù, guidati da Ravinder Singh Thela (dirigente locale del bjp) e muniti di spranghe di ferro, aveva attaccato una quindicina di predicatori cristiani che viaggiavano su un furgone. L’episodio, le cui immagini eloquenti sono state diffuse nei social, risale alla notte del 24 ottobre.

…e colonialismo

Altro discorso complicato, tutto da decifrare, quello della per ora ipotetica (ma comunque possibile, viste le circostanze locali e internazionali) scomparsa di uno dei più antichi movimenti di opposizione in India: i naxaliti (il nome deriva dal villaggio di Naxalbari, Bengala Occidentale).
Si tratta di comunisti di tendenza maoista, attivi fin dal 1967 in numerosi distretti dell’India, in particolare in quelli del cosiddetto “Corridoio Rosso” (circa 225, i più poveri del Paese), che coprono territori di una ventina di Stati, tra cui Chhattisgarh, Bihar, Jharkhand, Odisha, Madhya Pradesh, Andhra Pradesh, Uttar Pradesh.
Si battono soprattutto al fianco dei dalit (i paria), degli adivasi (le popolazioni indigene) e di contadini poveri, diseredati delle bidonville, soggetti marginali sottoposti al lavoro forzato (vethi); intervenendo con particolare determinazione in difesa delle donne tribali che subiscono ogni genere di angherie da soldati, milizie e – anche – operatori turistici.
Si ritiene che l’eventuale scomparsa della guerriglia cosiddetta “maoista” potrebbe verificarsi, più che per sconfitta sul campo, per la resa o diserzione, in gran numero, di quadri e di militanti di base. Anche per un nuovo atteggiamento assunto dalle popolazioni, verso le quali il governo sta da tempo operando per conquistarne “le menti e cuori” costruendo strade, ripetitori e altre opere di modernizzazione.

Tempo di resa

Emblematica la capitolazione degli esponenti dell’ufficio politico del Comitato Centrale Naxaldel Maharashtra (con la consegna delle armi dell’Esercito Guerrigliero Popolare di Liberazione). Tra coloro che si sono arresi direttamente al governatore Devendra Fadnavis, anche il noto comandante Mallujola Venugopal Rao (detto “Bhupathi”, militante della guerriglia fin dal 1980) il quale avrebbe dichiarato di essere “ormai stanco del movimento”.

Mallujola Venugopal Rao, detto “Bhupati”.

Non manca qualche precedente. Per dirne uno, nel 2015, dopo che suo fratello era caduto in combattimento, si era arreso il noto comandante Gajarala Ashok. Diversa la sorte toccata a un’altra importante esponente naxalita, Narmada Akka, arrestata nel 2019 a Hyderabad dove cercava le cure per un tumore e deceduta tre anni dopo in carcere.
Non poche perplessità aveva poi suscitato un comunicato, ufficialmente del Partito Comunista dell’ India (Maoista), in cui si annunciava la sospensione della lotta armata in considerazione del “cambiamento dell’ordine mondiale e della situazione nazionale”. Un riferimento, presumibilmente, al miglioramento delle relazioni tra Nuova Delhi e Pechino dopo i recenti incontri tra Narendra Modi e Xi Jinping in occasione della riunione a Tianjin (fine agosto, primi di settembre) del Consiglio dei capi di Stato dell’ocs.
Verso la fine di ottobre tale comunicato veniva smentito da un altro del Comitato Centrale, in cui si ribadiva che il partito intendeva resistere sia alla politica governativa per favorire la resa dei militanti (dando non solo garanzie ma anche denaro in cambio delle armi), sia alla “linea reazionaria e repressiva del governo”. E definendo il primo comunicato un’operazione di intossicazione dei servizi. In pratica, di “guerra psicologica” che si coniuga con le operazione di “guerra sporca” e i rastrellamenti.
Ma poi una notizia dell’ultima ora informava che altri dirigenti naxaliti si erano arresi il 28 ottobre.
Si tratta di Pulluri Prasad Rao (“Shankaranna”, membro del Comitato Centrale, 62 anni) e di Bandi Prakash (43 anni) del Comitato di Telangana. Con questi ultimi due sarebbero almeno otto i membri del Comitato che si sono arresi dall’inizio del 2024. Altri otto dirigenti invece sono stati uccisi in combattimento o assassinati, sempre dall’inizio del 2024.
Quindi solamente sette esponenti del Comitato Centrale sarebbero ancora attivi nella clandestinità.
Una conferma che – al di là delle dichiarazioni ufficiali – ormai la situazione sta diventando sempre più difficile, forse insostenibile, per i dissidenti maoisti.
Forse un ulteriore segno che i tempi sono cambiati. Pensando a quanto è avvenuto negli ultimi decenni in Irlanda, Paesi Baschi, Colombia, e ora anche in Kurdistan, va preso atto che quel tipo di lotte di liberazione probabilmente ha fatto il suo tempo.