Come era già accaduto, e non solo in Africa, la qualifica di “terrorista” può talvolta venir applicata anche a sproposito (o comunque con il beneficio del dubbio). In base alla situazione, al contesto, agli interessi in gioco in quel momento storico. Vedi il caso dei curdi o, in passato, dei neri del Sudafrica all’epoca dell’apartheid.
Qualcosa del genere sembra stia accadendo in questi giorni confrontando due esempi da manuale: il primo in Etiopia, dove un’organizzazione viene tolta dalla “lista nera”; l’altro nel Ciad, dove con l’accusa di “terrorismo” si infliggono centinaia di ergastoli in maniera quantomeno sommaria.
Nel novembre dell’anno scorso, dopo dieci giorni di trattative in Sudafrica, si concordava tra i ribelli del tplf (fronte di liberazione del popolo del Tigray) e il governo etiopico la “cessazione permanente delle ostilità e il disarmo sistematico, ordinato, regolare e coordinato” (delle milizie tigrine che stavano per consegnare le armi pesanti).. Ponendo termine, almeno per ora, a due anni di sanguinosa guerra civile, con oltre mezzo milione di vittime e milioni di sfollati. Un conflitto fratricida in cui entrambi i contendenti – così come l’Eritrea scesa in campo a fianco dell’Etiopia e le milizie etniche – si erano resi responsabili di crimini di guerra.
Forse parlare di “accordi di pace” veri e propri era prematuro, ma comunque si stava imboccando la strada giusta. Veniva infatti trovato un accordo anche in materia di sicurezza e per il ritorno a una vita, compatibilmente con il contesto, normale. Ossia “il ripristino dell’ordine pubblico e dei servizi pubblici, l’accesso senza ostacoli alle forniture umanitarie, la protezione dei civili”.
Nella dichiarazione congiunta si evocava “un programma dettagliato di disarmo […] e il ripristino dell’ordine costituzionale nel Tigray”. Così da “mettere a tacere permanentemente le armi e fermare ogni forma di conflitto e propaganda ostile”.
È di questi giorno la notizia di un altro fondamentale passo avanti: la decisione del parlamento di rimuovere il tplf dall’elenco delle organizzazioni terroristiche. Con una importante conseguenza (assai probabile anche se non ancora confermata): il venir meno delle accuse di terrorismo nei confronti di molti funzionari tigrini. In particolare per Getachew Reda, già portavoce del tplf e indicato come l’uomo destinato ad amministrare ad interim la regione fino alle prossime elezioni.
Di segno diametralmente opposto quanto è accaduto nel Ciad. Il processo per la morte del presidente Idriss Déby – risalente al 20 aprile 2021 e avvenuta in circostanze poco chiare – si è appena concluso con la condanna all’ergastolo di circa 400 appartenenti al “fronte per l’alternanza e la concordia in Ciad” per “atti di terrorismo, arruolamento di bambini e attentato alla vita del capo dello Stato”.
Un processo a porte chiuse – definito da alcuni osservatori “sommario” – che si è svolto nel carcere di Klessoum, nei pressi di N’Djamena. La morte del presidente (insieme a quella di almeno sette generali ciadiani) era avvenuta, almeno ufficialmente, mentre guidava di persona l’esercito del Ciad contro le milizie ribelli che si dirigevano all’assalto della capitale.
Come è noto Idriss Déby, nonostante la fama di dittatore (era rimasto al potere per oltre un trentennio), godeva di una certa simpatia in Francia, in quanto l’esercito ciadiano rappresentava la spina dorsale del g5 Sahel (insieme a Mauritania, Mali, Burkina Faso e Niger) nel contenimento delle milizie jihadiste nel Sahel.
Dopo la morte di Idriss Déby veniva nominato presidente suo figlio, il generale Mahamat Idriss Déby Itno, a cui toccava il compito di governare a capo di una giunta militare. In teoria per traghettare il Paese verso la democrazia con le elezioni previste entro il 2024. Nel frattempo governo e parlamento venivano sciolti e sostituiti da un consiglio militare di transizione.
Da allora la cosiddetta “transizione” è stata regolarmente boicottata sia dai partiti dell’opposizione sia da alcuni gruppi armati dissidenti. Il bilancio alla fine dell’anno scorso era di continue proteste violente, scontri e manifestazioni nella capitale N’Djamena e in altre città come Moundou e Koumra, con centinaia di morti e feriti. In una sola giornata di protesta, 20 ottobre 2022, le vittime tra i manifestanti erano state una cinquantina.
E la repressione, ça va sans dire, ha colpito con durezza partiti e movimenti dell’opposizione. In particolar modo il partito Transformateurs, il partito socialista e Wakit Tamma (“È giunta l’ora”, un movimento della società civile).
Il 5 gennaio 2023 il governo (la giunta) del Ciad comunicava di aver sventato un “tentativo di destabilizzazione” rivolto contro “l’ordine costituzionale e le istituzioni della repubblica”. Stando al comunicato ufficiale si sarebbe trattato di “un piano elaborato da un gruppo ristretto di cospiratori costituito da undici affiliati dell’esercito guidati da Baradine Berdei Targuio”. Ossia dal presidente dell’Organisation Tchadienne des Droits Humains (otdh, fondata nel 2006).
Nei confronti dei “cospiratori” (veri o presunti) pesanti accuse di “attentato all’ordine costituzionale, associazione a delinquere, detenzione illegale di armi fuoco e complicità”. I processi sarebbero (condizionale d’obbligo) già in corso.
Baradine Berdei Targuio, noto per le sue critiche alle politiche governative, era già stato condannato nel febbraio 2021 per “attacco all’ordine costituzionale”, in quanto autore di uno scritto in cui sosteneva che Idriss Déby Itno era “gravemente malato e in ospedale”. Ipotesi non priva di fondamento, ma che verrà cancellata dalla quanto mai opportuna morte eroica in combattimento (una messinscena?) del presidente-dittatore.