È di questi giorni la notizia che l’alpinista e guida nepalese Mingma Gyalje Sherpa è stato accolto dai concittadini all’aeroporto internazionale Tribhuvan di Kathmandu “come un eroe” con ghirlande di fiori. Tanto entusiasmo per aver “conquistato” la cima delle sette montagne più alte del pianeta, insieme ai compagni di cordata cinesi, Zhang Jian e Gu Xuming. Nel dicembre 2024 ha infatti completato la serie: oltre all’Everest (su cui è salito una mezza dozzina di volte), il Kilimanjaro, l’Elbrus, il Denali, il Puncak Jaya, il Vinson Massif e l’Aconcagua.
Al suo attivo anche i 14 ottomila senza ossigeno. Oltre al solito Everest, il K2 (cinque volte, tra cui una prima invernale), il Kanchenjunga, il Lhotse, il Makalu, il Cho Oyu, il Dhaulagiri, il Manaslu (sette volte), il Nanga Parbat (prima salita autunnale nel 2017), l’Annapurna, il Gasherbrum, il Broad Peak, il Gasherbrum II, lo Shishapangma… fino al Shisha Pangma nell’ottobre 2024 (violando le recenti norme cinesi che rendono obbligatorio l’ossigeno sopra i settemila metri).
Bravo, per carità. Lui dice di averlo fatto per il Nepal e probabilmente è in buona fede. Ma quale Nepal? O meglio, il Nepal “di chi”? Stride infatti vedere come, in gran parte dei commenti, l’impresa di Mingma G venga associata all’incremento del turismo in Nepal registrato nel 2024. Stando a quanto riporta lo acap (Annapurna Conservation Area Project) l’anno scorso si è toccato un nuovo record (244.045 turisti) dopo quello del 2023 (191.558) che segnò l’avvio della ripresa successiva al drastico calo per la pandemia Covid-19.
Peccato che nel Paese del trekking, dell’alpinismo e della “avventura” a pagamento (per i benestanti sia asiatici sia “occidentali”: tedeschi, francesi, iberici, californiani, svedesi… e italici naturalmente) le contraddizioni sociali e ambientali permangano in tutta la loro gravità. Anzi, lievitano. Nonostante i presunti benefici del turismo, o magari, azzardo, anche a causa di questa “prosecuzione del colonialismo con altri mezzi” che con la progressiva commercializzazione delle spedizioni va trasformando il Tetto del Mondo in un immenso luna park.
Niente di nuovo. In fondo, a ben guardare, l’alpinismo non ha mai saputo (o voluto) mascherare la sua intima essenza, ossia di rappresentare una “metafora del trionfo della civilizzazione”, quindi del colonialismo. Come avvenne in passato, se pur su scala minore e più gradualmente, nelle Alpi. Con lo sradicamento, lo spaesamento, la perdita di identità indotti dall’emigrazione, dall’invasione turistica e dalla diffusione di modelli consumistici (fino alla più recente globalizzazione).

Paese disastrato

Tornando al Nepal, solo qualche mese fa, a fine settembre 2024, le vittime accertate delle frane e delle inondazioni che avevano colpito le valli intorno a Kathmandu erano oltre duecento. A cui si aggiungevano un altro centinaio di dispersi.
Diverse migliaia di persone erano state evacuate, in molti casi direttamente dai tetti con gli elicotteri, dopo che le loro abitazioni erano rimaste sommerse o sbriciolate dalla furia degli elementi (oltre a migliaia di case, anche decine di ponti). Solo a Jyaplekhola, sulla Prithvi Highway, dai veicoli sommersi erano stati recuperati una quarantina di cadaveri.
Alluvioni come non se ne erano mai viste, dopo solo tre giorni di piogge monsoniche. Tragedie che vanno a sovrapporsi alla cronica povertà, quella che spinge milioni di nepalesi a emigrare in cerca di lavoro (solo nel 2023 sarebbero stati circa 1,6 milioni su una popolazione attorno ai 30 milioni) o ad arruolarsi come mercenari in qualche guerra altrui (vedi nel conflitto russo-ucraino).
Inoltre in molte zone permangono seri problemi sanitari, dovuti per esempio alla tubercolosi, tipica malattia della povertà e dell’emarginazione, ancora relativamente diffusa non solo in aree urbane degradate (slums) ma anche in alta quota.
Lo si è potuto apprendere in occasione della recente campagna di screening in alcune remote aree montagnose, pubblicizzata come avveniristica in quanto utilizzava l’intelligenza artificiale (consentendo la riduzione dei tempi, minuti invece di qualche ora, per la diagnosi). Ovviamente non è mancato qualche malevolo che si è chiesto se non fosse un modo per pubblicizzare o testare le nuove tecnologie, visto che il problema – noto e preesistente – finora non era stato adeguatamente affrontato. E ciò nonostante il Nepal sia uno dei Paesi asiatici con il tasso di malattie respiratorie croniche tra i più alti del pianeta: addirittura si parla della “tosse di Khumbu”, in riferimento a una provincia orientale dove la tosse è ampiamente diffusa (ma con un solo medico per circa 150mila abitanti).
Ma parlando delle catastrofi naturali che hanno colpito il Nepal è inevitabile ricordare, a dieci anni di distanza, il terremoto del 2015. Quando persino Messner (che, magari in buona fede, ha sicuramente contribuito a diffondere l’alpinismo di massa “all inclusive” in Himalaya e dintorni) si era scandalizzato per l’incessante viavai degli elicotteri intervenuti per portare in salvo turisti e alpinisti mentre ancora si scavava, spesso a mano, per estrarre dalle macerie qualche sopravvissuto.
E per non farci mancare niente, venivamo informati (“La Stampa”) di un altro mezzo obbrobrio dal sapore coloniale. In un paio di giorni l’esercito israeliano aveva allestito un aeroporto nei pressi della capitale nepalese. Da qui gli Hercules facevano la spola con Tel Aviv riportando in patria gli spaventati turisti d’alta quota israeliani. Ma anche un certo numero di neonati partoriti da surrogate nepalesi. Consentendo alle madri e soprattutto a quelle ancora incinte (e firmatarie di accordi legali con i nuovi genitori) di venir accolte sugli aerei e trasportate in Israele.
Al di là di come uno la veda in materia di fecondazione eterologa, mi sembra che qui sia evidente l’opera di sfruttamento coloniale. Un mercato, una compra-vendita, di ovuli e uteri, dei corpi e della dignità delle disgraziate popolazione indigene, costrette dalla miseria a produrre figli come merce di scambio.
Quanto agli alpinisti nepalesi che pensano di scrollarsi di dosso lo stigma da colonizzato – ossia l’etnia sherpa diventata sinonimo di “portatore” – imitando e anche superando (l’ho detto che sono bravi) quelli “occidentali”, a mio avviso se sono in buona fede stanno prendendo un cantonata.