Oggi in Europa si parla di muri che il presidente Trump dovrebbe costruire (come fece Obama) al confine con il Messico, ma credo che dovremmo guardare piuttosto a quelli già esistenti nel nostro continente. Di fatto, nel contesto europeo esistono e resistono muri normativi creati dagli Stati nei confronti delle minoranze etno-linguistiche, espressioni di comunità tradizionali che non godono degli stessi diritti rispetto ad altri soggetti individuali, collettivi o istituzionali.
In questa sede abbiamo più volte denunciato la situazione in Piemonte, laddove nelle medie e alte valli provenzali alpine, già colpite dallo spopolamento, si rileva l’influenza di un segmento elitario, nato da ciò che è rimasto delle generazioni autoctone, formato soprattutto da universitari imbevuti di dottrine politiche. Così, mentre il consumismo dava il colpo di grazia all’economia di montagna, fin dagli anni settanta costoro hanno calato una cappa ideologica marxista-nazionalista su un humus antropologico dalle profonde radici cristiane. Se prima della caduta del muro di Berlino questa gente blaterava di collettivismo da traslocare in montagna, oggi tenta di traslocarvi il verbo laicista del liberalismo. Il testimone è passato nelle mani di intellettualoidi radical-chic che hanno ereditato nel migliore dei casi la lingua locale, ma hanno dimostrato di non capire nulla delle generazionali precedenti, da loro stessi museificate.
Assistiamo così all’apologia dell’Europa da parte di esponenti di frange delle minoranze linguistiche, espressioni di associazioni culturali e quasi mai voce delle popolazioni autoctone. Secondo costoro l’ombrello europeo dovrebbe tutelare le minoranze negli Stati ove queste sussistono, cosa che non avviene mai, visto che i governi usano il loro potere politico maggioritario per espellerle dalla storia.
Si tratta quindi di pretendere la ratifica dei trattati europei disattesi, come la Carta Europea delle Lingue Regionali o Minoritarie del 1992, affinché a ciascuna firma di adesione di ogni Stato corrisponda la firma di ratifica. La ratifica di quel trattato dovrebbe avere come finalità la tutela delle lingue che siano usate tradizionalmente da un gruppo di persone numericamente inferiore al resto della popolazione e differenti nei confronti delle lingue ufficiali. Bruxelles strozza gli Stati appesi al cappio di Maastricht con procedure d’infrazione economiche, ma non fa nulla per obbligare gli Stati membri a onorare la Carta. L’adesione alla quale, tra l’altro, è una delle condizioni per essere ammessi come nuovi membri dell’Unione. Il suo recepimento porrebbe l’attenzione delle legislazioni statali sulla difesa territoriale delle lingue minoritarie – patrimonio culturale europeo – ben al di là di pannicelli caldi come, per l’Italia, la legge 482/99.
Vediamo invece l’esempio dei tre Stati con territori di lingua d’Oc – Francia, Spagna e Italia – che continuano a non ratificare il trattato. Questi inadempienti devono essere sollecitati a definire l’iter a cui si sono impegnati, imponendo tempi limite di ratifica, così come avviene per altri trattati, pena il deferimento alla Corte Europea di Giustizia (la Corte deve assicurare il rispetto del diritto nella loro interpretazione e applicazione, in base all’art. 19 del Trattato sull’Unione Europea).
Il problema va affrontato con urgenza, poiché l’errata percezione delle realtà autoctone fa sì che soggetti associativo-culturali autoreferenziali continuino a operare a immagine e somiglianza degli Stati-nazionali. Nell’area d’Oc, funzionale a questo ruolo fu Robert Lafont, il quale nel midi di Francia fece il cavallo di Troia del socialismo, calato dentro le cosiddette lotte di liberazione che, come afferma lo storico Heric Hobswan, si risolsero con la voga passeggera occitana dei colletti bianchi.
Detto questo, sotto la brace qualcosa sembra muoversi grazie a iniziative popolari tenute ben nascoste dai media europei, ma che dobbiamo assolutamente sostenere. Per esempio, è attualmente in atto una campagna di raccolta firme chiamata Minority Safepak: una petizione che rientra nell’ambito dell’ICE, la cosiddetta “iniziativa dei cittadini europei”, e ha come importante obiettivo pretendere dall’Unione Europea una maggiore protezione per le minoranze nazionali e linguistiche in Europa.
L’iniziativa ovviamente non ha avuto un percorso in discesa. Fu presentata addirittura nel 2013 e respinta dalla Commissione europea, quindi riammessa nel 2017 dal Tribunale UE dopo il ricorso.
Per far sì che la petizione arrivi alla Commissione Europea, è necessario che venga sostenuta da almeno un milione di cittadini europei, provenienti da almeno 7 dei 28 Stati membri dell’Unione, con termine di scadenza il 3 aprile 2018.
La promotrice di questa raccolta firme è la FUEN, l’Unione Federale delle Nazionalità Europee, che raggruppa circa 90 organizzazioni e associazioni rappresentative delle minoranze nazionali e linguistiche in Europa. Questa petizione è molto sentita in Ungheria, e il primo ministro Viktor Orbán è uno dei suoi sostenitori, cui si uniscono le associazioni e i partiti degli ungheresi in Romania, Slovacchia, Ucraina, Croazia e Serbia.