Strana popolazione, quella di Port Jackson. La città era stata fondata il 26 gennaio 1788 con un solenne alza-bandiera. Era seguito un discorso del governatore, il capitano Arthur Phillip, che prendendo possesso della sua nuova carica in nome di Sua Maestà Britannica il re Giorgio III, prometteva lavoro e giustizia ai meritevoli, pene severe ai facinorosi.

Strana popolazione, quella di Port Jackson. La città era stata fondata il 26 gennaio 1788 con un solenne alza-bandiera. Era seguito un discorso del governatore, il capitano Arthur Phillip, che prendendo possesso della sua nuova carica in nome di Sua Maestà Britannica il re Giorgio III, prometteva lavoro e giustizia ai meritevoli, pene severe ai facinorosi. Cominciava cosi la vita dell’uomo bianco sul nuovo continente chiamato Australia, l’ultima tappa nella scoperta del mondo. Della sua esistenza si favoleggiava da tempo, dopo la scoperta delle Americhe; una misteriosa “terra australis incognita” era disegnata a fantasia sulle mappe secentesche, ora a sud dello stretto di Magellano, ora in altre collocazioni. Il primo che ne aveva constatato la reale esistenza e ne aveva tracciato una mappa, era stato il capitano Cook, sbarcato nell’aprile 1770 nella baia di Botany, ove sorge ora Sidney. Da allora, la misteriosa “terra australis” non era più incognita; ma la scoperta — quanto a ciò che si era trovato — era stata deludente: non oro né gemme, non spezie, non ricchezze di cui riempire la stiva delle navi per un ritorno trionfale. Il capitano Cook aveva piantato sulla nuova terra la bandiera inglese, in base al diritto internazionale vigente, e ne aveva preso possesso in nome del suo re; ma il nuovo continente era rimasto solo un possedimento nominale, una proprietà ingombrante ed inutile. Fu solo a distanza di 17 anni che si pensò di utilizzarla in qualche modo: terra di deportazione, per sfoltire le carceri inglesi, alleviando l’onere di custodire (e per di più, sfamare) individui socialmente pericolosi.

Il primo convoglio di deportati, tre navi compresa la capitana Syrius, parti dall’Inghilterra il 13 maggio 1787. Fu un viaggio lungo e avventuroso, un esodo senza prospettive di ritorno; carcerati e carcerieri indistintamente si lasciavano alle spalle il vecchio mondo, e facevano vela verso gli antipodi per andare a popolare un mondo nuovo e sconosciuto. L’itinerario fu quello tradizionale verso est, scendendo l’Atlantico sino alle Canarie, alle Azzorre, alle Isole di Capo Verde, doppiando il Capo di Buona Speranza, e affrontando poi l’Oceano Indiano. Bisognava pensare alla sopravvivenza nel nuovo mondo; e prima di abbandonare le coste africane, a Città dei Capo, le tre navi imbarcarono diverse coppie di animali domestici, come la mitica Arca di Noè: 2 tori, 7 vacche, 3 coppie di cavalli, 44 pecore, 32 maiali, e numerosi capi di pollame.

Sbarcando, dopo otto mesi di navigazione, gli uomini si misero al lavoro per tagliare alberi e costruire capanne. Furono quelle le prime case di Port Jackson; quanto alla sua popolazione, consisteva di 208 militari (4 capitani, 12 subalterni, 24 sottufficiali e graduati, 8 tamburini, e 160 uomini di truppa) e di 775 deportati: 565 uomini, 192 donne, e 18 bambini. Questi ultimi, presumibilmente innocenti, forse deportati assieme alle madri.

Nel migliaio di persone della nuova città le donne erano quindi una esigua minoranza, una ogni quattro uomini. Troppo poche per popolare un continente, soprattutto considerando che le possibilità di unione tra deportati maschi e femmine erano impedite, almeno teoricamente, dai regolamenti. Non essendo ammessi regolari matrimoni fra condannati, le sole famiglie legittime restavano quelle degli ufficiali e sottufficiali che si fossero portati le mogli con sé.

II 28 febbraio, a poco più di un mese dallo sbarco, la popolazione di Port Jackson assistette alla prima esecuzione capitale: la impiccagione di Thomas Barret, un detenuto che aveva tentato di organizzare un ammutinamento. Ci furono poi alcuni tentativi di fuga, ma le difficoltà di sopravvivere nella natura vergine furono tali da scoraggiare i fuggiaschi. D’altra parte, le condizioni di vita dei detenuti si rivelarono molto migliori in colonia di quanto erano state nelle prigioni inglesi, e soprattutto nelle navi in viaggio. Sulle navi dei condannati (le prime tre del capitano Phillip, e le altre che seguirono) la disciplina carceraria era aggravata dalla penuria di cibo e acqua fresca, dalla scarsità d’aria all’interno della stiva, dai disagi di cui soffrivano gli stessi carcerieri.

I detenuti erano lasciati liberi dai ferri pochi giorni dopo la partenza, ma quelli che commettevano la minima infrazione erano rinchiusi in celle angustissime. La cella di rigore, poi, consisteva in un cassa con una inferriata all’altezza del volto, che veniva appesa fuori bordo a prua e che si immergeva ed emergeva ritmicamente nell’onda seguendo il movimento della nave.

In colonia, invece, il lavoro poteva anche essere piacevole, all’aria aperta, non privo di una certa libertà. La sopravvivenza si rivelò più facile del previsto; gli animali dell’Arca di Noè si acclimatarono bene. Le pecore trovarono una pastura assai confacente nei pascoli salati delle praterie australiane. Quanto ai bovini, un toro e alcune vacche riuscirono a fuggire; anni più tardi, i coloni ebbero la sorpresa di trovare una grossa mandria cresciuta vigorosa allo stato brado.

In seguito, dopo i deportati, cominciarono anche ad arrivare alcuni coloni emigrati spontaneamente: avventurieri, disadattati, gente indocile e insoddisfatta. Fra questi, anche alcuni giovani di condizione distinta, di famiglia nobile: scapestrati, che le famiglie erano liete di levarsi di torno anche a costo di corrispondere un modesto assgno, pagabile solo in colonia. “Remittance men” erano detti costoro: uomini dell’assegno. Ai liberi coloni, il governatore poteva assegnare a suo piacere grandi estensioni di terreno con concessioni di pascolo o sfruttamento agricolo, e con il diritto ad impiegare la manodopera semi-gratuita dei deportati, provvedendo solo ai loro sostentamento. Al termine della condanna, anche i detenuti potevano diventare uomini liberi. Teoricamente potevano rimpatriare, purché avessero di che pagarsi il viaggio; il rimpatrio gratuito infatti non era previsto. I più rimanevano, sia per la mancanza delle 10 o 15 sterline necessarie per il viaggio, sia perché la vita di uomo libero (o meglio “affrancato”) poteva offrire in colonia prospettive migliori anche in patria.

Anche a condanna in corso, i deportati più volonterosi e tranquilli potevano fruire di buone condizioni di vita. Gli addetti ai lavori agricoli potevano anche guadagnare qualche soldo, come ricompensa sottobanco se lavoravano con impegno; e alcuni, soprattutto se bravi artigiani, potevano anche avere il permesso per un lavoro indipendente, con il solo obbligo di presentarsi quotidianamente al posto di polizia per il controllo. Per gli indocili, i facinorosi, i ribelli, la musica era differente. La condanna alla pena capitale colpiva inesorabilmente le ribellioni più gravi; la pena immediatamente inferiore era la deportazione senza cibo e senza armi su qualcuna delle numerose isole deserte al largo della costa australiana. Fra i trattamenti di rigore erano comuni i lavori più faticosi, persino disumani. I condannati potevano essere legati alle stanghe dei carri come bestie da soma; si arrivò anche a costruire una breve strada ferrata di alcune miglia, a Sidney, dove singole carrozze con passeggeri erano spinte da detenuti che correvano “al galoppo”.

Lavoro per tutti

La vita sociale delle colonie si articolò cosi su molti gradini, che dalla condizione di uomo libero scendevano a quella di carcerato attraverso diversi stadi, e diverse sfumature. C’era la condizione di “remittance man”, tenuto dalla famiglia in residenza coatta; c’era quella di affrancato, uomo libero ma di cui si ricordava il passato; c’erano i detenuti in semi-libertà.

C’era infine una differenziazione geografica di rispettabilità, derivante dall’uso di assegnare le terre meno ospitali ai detenuti più indocili. Fra tutte, la più malfamata era la Terra di Van Diemen (attuale Tasmania) dove si confinavano i più pericolosi; da cui il nome “vandemonian” entrato nell’uso col significato di gaglioffo, ribaldo. Fu anche per redimersi da questa spiacevole eredità, che il paese nel 1856 mutò il nome in quello di Tasmania.

La classe dei soldati, ossia dei carcerieri, non aveva una sua collocazione nella scala sociale della colonia: erano invisi ai più, segretamente disprezzati, considerati estranei.

Una caratteristica comune in varia misura a tutte le classi era la drammatica sproporzione fra uomini e donne. Le donne erano una piccola minoranza fra i deportati; ed anche gli emigrati — gente spinta alla emigrazione da dure necessità, e preparata ad una dura vita — erano quasi esclusivamente uomini.

Nel complesso, la popolazione delle colonie australiane raggiungeva nel 1812 i 12.000 abitanti; nel 1821 era salita a 37.000. I deportati ne costituivano la grande maggioranza, mentre i liberi coloni rappresentavano solo il 6% nel 1812, il 12% nel 1821. Questo rapporto era destinato ad aumentare sensibilmente con il migliorare delle condizioni di vita, via via che si venivano scoprendo le risorse agricole, valorizzando le prospettive dell’allevamento e le altre possibilità di costruire il benessere. Tuttavia, la sproporzione fra i due sessi rimaneva enorme, e costituiva nel nuovo mondo il problema più grave e più urgente.

Di questo, e degli altri problemi delle colonie australiane, l’opinione pubblica inglese cominciò a prendere coscienza verso la fine degli anni venti del secolo scorso. Notevole eco ebbe l’opera “Lettera da Sidney” di Edward G. Wakefield, pubblicata nel 1829, che analizzava acutamente la situazione australiana e la portava alla ribalta. Secondo Wakefield, era assurdo il cattivo uso che l’Inghilterra faceva di una terra cosi grande e ricca di risorse, in un momento in cui la madrepatria soffriva di miseria, disoccupazione, sovrappopolazione. Le colonie americane erano perdute sin dal 1783; le guerre napoleoniche avevano duramente provato l’economia inglese; i reduci costituivano una classe scontenta, difficile da reinserire.

In Australia c’era terra e lavoro per tutti, ma l’intero continente era considerato buono solo come colonia penale, paese con una sinistra reputazione, i cui aspetti positivi erano sconosciuti ai più. In Australia si assegnavano gratuitamente al primo venuto estensioni sconfinate di terra, ad arbitrio del governatore, mentre in patria si disputava accanitamente ogni acro di bosco o di pascolo, ogni minimo appezzamento coltivabile. In Australia, dove tante nuove famiglie potevano prosperare e moltiplicarsi, le donne erano nel rapporto di una ogni 4 o 5 uomini, e mancavano quasi del tutto nelle farm dell’interno dove c’era più bisogno di loro. Sull’ondata delle idee di Wakefield, si formò nel 1830 una “Colonization Society”, associazione privata che si fece promotrice di riforme legislative e soprattutto di una campagna di informazione per redimere l’Australia dalla sua ingiusta fama di terra da galeotti, farne conoscere le risorse, stimolare la emigrazione. Lord Howiek, sottosegretario alle colonie, aderì personalmente alla società; ed anche il governo ne ascoltò i suggerimenti.

Le deportazioni in Australia vennero rallentate, e nell’arco di una diecina di anni si arrivò alla loro totale soppressione. Questo diede avvio ad un notevole ricambio qualitativo nella popolazione della colonia. Nel febbraio del 1831 il ministro delle colonie Lord Ripon emanò una serie di provvedimenti legislativi che, sebbene molto discussi, rappresentarono una svolta importante.

I principi informativi essenziali erano due: che nessuna concessione di terre nelle colonie fosse più accordata a titolo gratuito, ma solo dietro pagamento di un prezzo minimo per acro, a livello da stabilirsi; e che i fondi cosi raccolti venissero spesi per un programma organico di assistenza alla emigrazione.

Gli emigranti di cui c’era bisogno erano soprattutto donne, buone e robuste donne di campagna adatte a munger vacche e a lavorare nei campi, destinate a diventare madri di famiglia e a diriger casa. Il governo, utilizzando i fondi dalle assegnazioni di terre, provvedeva alle spese di viaggio; quanto a reclutare e selezionare le emigranti, il governo lasciò l’incarico ad un “Comitato per l’Emigrazione” appositamente costituito: cittadini volonterosi, scelti fra persone note, rispettabili, qualificate.

In realtà, il lavoro del Comitato fu principalmente rivolto a cercare gli armatori disponibili ad effettuare i trasporti in Australia; a concordare equamente le tariffe, il “quanto a testa”; ad ottenere garanzie sul buon trattamento da riservare alle emigranti, sulla quantità e la qualità del cibo, scendendo sin nei dettagli del menù di bordo e mettendoli per iscritto. Quanto a “chi” imbarcare, si lasciò l’iniziativa agli armatori stessi. Per ogni singola nave-emigranti gli armatori dovevano provvedere — come i reclutatori di truppe ai tempi delle milizie mercenarie — a rendere noti i bandi, a pubblicizzare la meravigliosa opportunità di emigrare in Australia a spese del governo, a raccogliere le adesioni. Queste dovevano essere notificate al capitano della nave. Il Comitato doveva poi intervenire per la supervisione finale, esaminando le candidate, concedendo o negando il benestare. Per diffondere i bandi, gli armatori ricorrevano ad avvisi pubblicitari in varie forme, sui giornali o su affissi murali, o distribuiti presso i negozianti. Si decantavano le possibilità di lavoro in Australia, si promettevano stipendi favolosi: «Una brava sarta nel Nuovo Galles del Sud può guadagnare sino a mezza ghinea al giorno». «C’è una grande richiesta di governanti». «Una esperta modista può fare una autentica fortuna nelle colonie».

Virtù in pericolo

Fu cosi che la Red Rover, la prima nave, lasciò le coste inglesi nell’aprile del 1832 con un carico di 202 donne: in maggioranza irlandesi, ragazze di campagna provenienti da famiglie povere con poca terra e tante bocche in soprannumero da sfamare. Proprio di ragazze così c’era bisogno in Australia, non di sarte o di modiste. La nave arrivò nella baia di Sidney il 13 agosto 1832, dopo un viaggio di circa tre mesi (assai meno degli otto mesi del secolo prima), e venne gioiosamente accolta dalla popolazione e salutata dalla stampa locale. Le “fresche e giovani ragazze d’Irlanda” (cosi le chiamavano le gazzette) trovarono rapidamente buone sistemazioni nella stessa Sidney, dove il salario di una domestica oscillava intorno alle dieci sterline l’anno. La cifra era assai rispettabile per quei tempi, in cui la semplice corresponsione di vitto e alloggio era generalmente considerata remunerazione sufficiente.

Ma il bisogno più urgente era sentito all’interno del paese, nei piccoli centri della foresta e della prateria; e l’inoltro delle ragazze verso queste località remote si rivelò non privo di difficoltà.

Minor fortuna ebbe la seconda nave, la Princess Royal, arrivata nello stesso mese ad Hobart, capitale della Terra di Van Diemen. Forse il capitano, calcolando solo il suo “tanto a testa”, era andato per le spicce nel reclutare le ragazze; forse i rispettabili membri del comitato avevano fatto un esame un po’ alla buona; o forse la colpa stava nel sistema stesso, nelle insidie del lungo viaggio per mare e in quelle degli angiporti di Hobart. Sta di fatto che le duecento ragazze della Princess Royal ebbero ben presto una pessima reputazione. Sulle colonne dell’Hobart Town Magazine si potevano infatti leggere annunci per la ricerca di domestiche o governanti con la precisazione: «se provenienti dalla Princess Royal, sono dispensate dal presentarsi». Seguì poi la Bassorah Merchant, giunta a Sidney l’anno seguente con 217 donne, poi la Layton con 232. I difetti del sistema si vennero facendo evidenti. La stampa australiana, soprattutto il giornale diretto dal Rev.do Lang, irascibile puritano dall’anatema facile, prese a lanciare accuse di crescente asprezza al Comitato per l’Emigrazione, ai criteri di reclutamento delle ragazze, ai responsabili del loro trasporto. Ma non mancavano le responsabilità anche da parte australiana, all’arrivo.

Era vero che le ragazze provenivano talvolta dai più miserabili angoli di Londra o di altre grandi città. Non necessariamente dal marciapiede, ma da orfanotrofi o ospizi di mendicità; ma era proprio su queste creature diseredate che facevano maggior presa le lusinghe degli annunci pubblicitari: le ragazze si presentavano sperando di trovare in Australia i ben retribuiti lavori, i salari favolosi che i giornali promettevano a sartine, modiste, e ricamatrici. In Australia occorrevano sane e robuste ragazze di campagna, ma dato che gli armatori erano pagati a tanto a testa, era più facile prenderle dai quartieri poveri di Londra, di Manchester, o di Dublino. Una volta salpata la nave, la tutela delle ragazze, la loro protezione dai vigorosi appetiti dei marinai, era generalmente affidata al medico di bordo. Se questi era severo e scrupoloso, tutto andava ragionevolmente bene; ma spesso il dottore non sentiva troppo la vocazione di paladino della moralità, e la nave si trasformava ben presto in una gaia babilonia navigante. La gazzetta del Rev.do Lang bollava tutto questo con toni di fuoco, lanciava accuse di disordine morale, perversità, scandalo.

Ma il problema più grave per le ragazze era quello del loro accoglimento, della loro sistemazione provvisoria al porto di sbarco in attesa di trovare un lavoro per tutte. Si era formata, è vero, una Associazione Amici dell’Emigrante; si erano costruite delle baracche di legno per ospitare le nuove arrivate; ma il guaio maggiore stava nella insufficienza delle comunicazioni, nelle difficoltà di scambio tra domanda e offerta, nella esitazione delle neo-emigrate ad avventurarsi verso i piccoli insediamenti dell’interno dove c’era più bisogno di loro.

D’altro canto, i porti di sbarco erano luoghi dove era difficile proteggere la virtù delle fanciulle. Oltre ai marinai delle navi commerciali e militari, oltre agli uomini dell’interno, mandriani, minatori, o coloni venuti a far compere in città, c’erano gli uomini delle baleniere che facevano tappa di rifornimento nei porti australiani. Taverne e osterie erano numerose a Sidney, a Hobart, a Launceston; e vi si faceva allegra baldoria ogni sera. Cosi, le ragazze imparavano ben presto che in poche sere, volendo, si potevano guadagnare le 10 sterline che una domestica guadagnava in un anno, le 20 di una governante ben educata, di una modista, o di una sarta. E il mestiere facile era lì, a portata di mano, al porto stesso di sbarco, mentre quello meno facile bisognava andarselo a cercare chissà dove, in remoti villaggi sperduti nella foresta.

Si spendevano i denari dello stato per inviare donne in un paese che ne aveva bisogno, e il risultato — chiunque ne avesse la responsabilità, palleggiata fra colonia e madrepatria — era pressocché nullo. Le donne, destinate nelle intenzioni dei comitati a divenire brave madri di famiglia, restavano nelle città di mare ad alimentare il giro delle taverne e del marciapiede; mentre nell’intemo del paese perduravano represse e insoddisfatte comunità di soli uomini.

Le manchevolezze e gli errori del sistema, a qualche anno dal suo avvio erano ormai evidenti; ma il meccanismo continuò ancora a funzionare, per virtù d’inerzia, sino al 1836. L’ultima nave, la James Pattison, giunse a Sidney il 6 febbraio di quell’anno, con un carico di 296 emigranti. La nave precedente, la Boadicea, ne aveva trasportate ad Hobart 265, che dopo otto mesi erano ancora tutte disoccupate al centro Amici dell’Emigrante; ma la cosa è spiegata dal fatto che erano tutte bambine. La regola del “tanto a testa” non precisava limiti di età! Nel complesso, il programma governativo di emigrazione assistita aveva inviato in Australia 10 navi con un totale di 3000 donne emigranti. Era un contributo modesto, considerando che la popolazione totale si aggirava in quegli anni sui 40.000 abitanti. In realtà, considerando com’erano andate le cose, il contributo fu poco più che nullo.

Il problema comunque trovò una soluzione globale nel graduale ricambio della popolazione australiana. Le deportazioni declinarono sin dai primi degli anni trenta, e cessarono totalmente con il 1841. Dieci anni dopo, i deportati rimasti rappresentavano solo l’1,5% dell’intera popolazione, cresciuta al livello di 187.250 abitanti. I liberi coloni, emigrati spontaneamente, erano divenuti i veri australiani: non più avventurieri, disadattati, fuggitivi, gente torva e solitaria; ma gente normale, bisognosa solo di lavorare, partita con le proprie mogli e i propri bambini, attratta dalla prospettiva di un benessere facile e aperto a tutti. La terra di nessuno stava diventando la terra promessa, l’ultima America.