Non è la prima volta. E nemmeno l’ultima, temo. Rischia di essere soltanto un dovuto richiamo – l’ennesimo – a comportamenti virtuosi. Buone intenzioni che tuttavia potrebbero lasciare le cose al punto di partenza.
L’impatto ambientale (sorvoliamo su quello culturale, foriero di disgregazione, una forma subdola – ma neanche tanto – di colonialismo etnocida) su Monte Everest e dintorni sembra dovuto, oltre a ragioni intrinseche, locali, al turismo di massa. Anche recentemente sono state rilevate alte concentrazioni di plastica e di microplastica fin sulle sommità. Soprattutto, oltre al solito materiale da arrampicata, bottiglie. In quantità industriale.
Messo alle strette, il governo nepalese ha proposto di interdire nella municipalità rurale di Khumbu Pasanglhamu l’utilizzo delle bottiglie di plastica e delle confezioni monouso in plastica con meno di 30 micron di spessore. Per ridurre, quantomeno, la quantità di rifiuti che si vanno accumulando lungo i percorsi, negli accampamenti e nei villaggi visitati dai turisti-alpinisti (si calcola, circa 150mila all’anno, oltre mille soltanto sull’Everest). La norma dovrebbe entrare in vigore solo nel 2020, ma comunque prima dell’inizio della stagione alpinistica.
Un analogo tentativo di regolamentare l’impatto prodotto dal turismo d’alta quota era stato posto in essere ancora nel 1999. Ma con scarsi risultati, soprattutto perché si affidava più alla buona volontà, alla coscienza degli alpinisti e non alle sanzioni. Stavolta, si spera, fioccherà anche qualche multa.
Meglio che niente, certo. Ma il problema rimane aperto. E non si tratta solo di una breccia, ma di una voragine ambientale in grado di alterare gli ecosistemi, anche quelli finora scampati al “progresso” e alla globalizzazione.
La vera questione è quella di un sistema sociale – il capitalismo, in estrema sintesi – che alimenta spettacolarizzazione, mercificazione, alienazione e consumismo. Un sistema che non è più riformabile (sempre che lo sia stato).
Così in Pianura padana (oggettivamente una grande discarica a cielo aperto), così sul Tetto del Mondo.
E senza dimenticare che anche quelli animati dalle migliori intenzioni, dal rispetto per le popolazioni e le montagne, ben che vada rischiano di diventare dei “portatori sani”. Destinati – anche loro malgrado – a diffondere comunque una visione del mondo consumista, “occidentale”. Penso agli “alternativi” degli anni settanta. Loro, perlomeno, non prendevano nemmeno l’aereo (altri tempi!).
Montagne di merda
Problema a parte, quello della merda. Se ne era parlato soprattutto per l’Everest, ma è prevedibile che il problema andrà estendendosi ulteriormente. Non solo sull’Himalaya.
Stando alle fonti consultate, ogni alpinista (e ogni portatore) mediamente dotato produrrebbe in due mesi (il tempo per raggiungere la meta e rientrare, salvo che non venga recuperato dall’elicottero) circa 27 chilogrammi di sterco. Nella “migliore” delle ipotesi, una parte, quella dei campi base, verrebbe portata nelle discariche come Gorak Shep. Ottenuta dal letto di un lago ghiacciato si colloca a 5000 metri di quota. Tonnellate di escrementi congelati che potrebbero diventare una bomba ecologica a scoppio ritardato.
Pare che un ex ingegnere della Boeing abbia escogitato una sua soluzione. Ossia costruire un impianto per trasformare la cacca in biogas. E contribuire così ulteriormente allo sviluppo di turismo e alpinismo di alta quota. Come suggeriva il compianto André Gorz (Gerhart Hirsch), “il capitalismo risolve i problemi che ha creato, producendone di nuovi”. O se preferite, come si dice dalle mie parti, “el tacon xe peso del buso”. Quanto ai rifiuti di altra natura (corde, giacche, scarponi, zaini, attrezzatura… tutta roba oltretutto “trattata” chimicamente: non è che poi salteranno fuori anche qui i PFAS?), qualcuno avrebbe pensato (ma forse non solo pensato, un paio dovrebbero essere già in funzione) al solito inceneritore… e pazienza se ci scappa un po’ di diossina.
E le popolazioni? Per ora, come le stelle, stanno a guardare.