Nella primavera del 1888 la regina Vittoria d’Inghilterra, già vicina ai settanta, affrontava un lungo viaggio in treno attraverso l’Europa per andare a visitare sua figlia, imperatrice di Germania. Si trattava in realtà della visita di addio a un moribondo: suo genero Federico di Hohenzollern, salito da pochi mesi sul trono imperiale di Germania con il nome di Federico III, giaceva ammalato di un inesorabile cancro alla gola che gli lasciava solo poche settimane di vita. Tracheotomizzato, da tempo non parlava più e si esprimeva solo scrivendo su biglietti. Si trovava in Italia a San Remo quando il 9 marzo era morto suo padre l’imperatore Guglielmo I, ed era subito rientrato a Berlino, ma le sue condizioni di salute gli avevano consentito solo poche e brevissime comparse in pubblico, con la cannula della tracheotomia ben nascosta dall’alto colletto dell’uniforme.
Federico aveva sposato la primogenita della regina d’Inghilterra, Vicky, ossia Vittoria anche lei come la madre, quando era principe reale di Prussia nel 1858, trent’anni prima. In quegli anni erano cambiate molte cose in Europa: il regno di Prussia era passato attraverso tre guerre vittoriose, aveva estromesso l’Austria dal predominio sul mondo germanico e ne aveva preso il posto; nel 1871 era stato proclamato l’impero Germanico e il principe di Prussia era diventato principe imperiale. Divenne imperatore quando aveva già 57 anni, destinato a regnare poco più di tre mesi.
L’Europa guardava quindi a suo figlio, il trentenne Kronprinz Guglielmo, come al vero successore al trono. Fu appunto Guglielmo il primo a ricevere la regina Vittoria il 24 aprile 1888 alla stazione di Berlino, dove si era recato assieme all’imperatrice sua madre. Lo sportello della vettura, raccontano i cronisti, stentava ad aprirsi, creando un po’ di confusione nel cerimoniale; ma l’ostacolo fu rimosso e Guglielmo in alta uniforme, con l’elmo piumato e decorato dall’aquila nera poté abbracciare calorosamente la nonna. La regina Vittoria era accompagnata da sua figlia minore Beatrice e dal genero Enrico di Battemberg, principe tedesco trapiantato in Inghilterra. (Dopo il 1918 il cognome Battemberg verrà cambiato in quello inglese di Mountbatten.) Dalla stazione, gli ospiti si diressero immediatamente con le carrozze al castello imperiale di Charlottenburg, residenza berlinese degli Hohenzollern, per la visita all’illustre infermo.
Visite così, che sapevano di congedo, Federico ne riceveva con frequenza crescente. Anche sua madre, l’imperatrice Augusta, vecchia e inferma, andava spesso a trovarlo a Charlottenburg facendosi trasportare in barella. Tuttavia, l’ottimismo era d’obbligo. La regina Vittoria dichiarò di aver trovato l’imperatore in ottime condizioni, non molto cambiato in fondo da come lo aveva visto l’anno prima quando era andato in Inghilterra per le feste del Giubileo, i cinquantanni di “Victoria Regina”. La dichiarazione fu ripetuta da tutti i giornali, creduta da nessuno. Federico III morì infatti il 15 giugno, dopo aver regnato nominalmente per 99 giorni. Fu così che nell’arco di uno stesso anno, il 1888, il giovane Impero Germanico celebrò due funerali e due incoronazioni, e vide sul trono tre imperatori, il primo e l’ultimo separati da un breve intervallo.
Proclamato nel 1871, il cosiddetto “Secondo Reich” era destinato a finire con la sconfitta tedesca del 1918, dopo una breve vita di 47 anni. Il Primo Reich era durato molto più a lungo: 844 anni a partire da Ottone I, o addirittura 1006 facendolo decorrere dall’incoronazione di Carlo Magno a Roma la notte di Natale dell’anno 800. La proclamazione del Secondo Reich era stata non meno spettacolare. Era avvenuta il 18 gennaio 1871 a Versailles, nel cuore della Francia sconfitta, mentre ancora tuonavano attorno a Parigi stretta d’assedio le batterie dei cannoni Krupp. L’Impero di Napoleone III era crollato pochi mesi prima a Sédan (3 settembre 1870), e la resistenza francese concentrata a Parigi stava agonizzando. Teatro della proclamazione imperiale fu la Sala degli Specchi nella reggia del Re Sole, affollata da un rutilare di sciarpe e pennacchi, un tintinnare di medaglie e speroni, una selva di elmi chiodati e sciabole sguainate, da cui si levava il grido “Viva Sua Maestà l’imperatore Guglielmo il Vittorioso, viva!”.
Le parole erano state una ben calcolata trovata del granduca Federico del Baden, genero di Guglielmo: evitavano infatti di precisare il titolo che l’assemblea dei principi tedeschi conferiva a suo suocero: Imperatore Tedesco (Deutscher Kaiser) e non “di Germania”. Non era una questione di protocollo ma di fondo, e proprio per questo il neoimperatore si presentò alla cerimonia indispettito e scontento, e tenne ostentatamente il broncio al cancelliere Bismarck che di quell’impero era il maggior artefice.
L’altro artefice era stato il generale conte Von Moltke, lo stratega di genio che aveva portato le truppe tedesche puntualmente alla vittoria. Ma in quella assise di guerrieri barbuti e piumati, Moltke era il meno guerriero di tutti: glabro, pallidino, con i radi capelli pettinati in avanti a nascondere la calvizie, assomigliava più a uno scrivano d’ufficio che a un generale. E, in fondo, non era in sella a un cavallo che Moltke vinceva le sue battaglie, ma a tavolino. Il suo genio stava nell’organizzare i piani con estrema precisione di calcoli e lucidità di idee, nel far muovere la sua formidabile macchina da guerra, l’esercito prussiano, nella direzione giusta al momento giusto, con tutti gli ingranaggi funzionanti alla perfezione e i rifornimenti sempre assicurati.
Grande assente quel giorno a Versailles era invece il re Ludovico II di Baviera, il più importante sovrano tedesco dopo il re di Prussia, cui era toccato scrivere, e firmare per primo, l’offerta a Guglielmo della corona imperiale da parte dei principi tedeschi. La lettera in realtà era stata preparata da Bismarck; Ludwig aveva dovuto ricopiarla e firmarla; poi era tornato a barricarsi nel suo isolamento, nel suo mondo di miti wagneriani e di sogni inquieti fra i quali già serpeggiava l’insidia della follia. La sua presenza comunque non era necessaria, né desiderata: bastava la lettera. Con quella lettera i sovrani tedeschi decidevano di federarsi in un impero e di offrire al re di Prussia la presidenza di tale federazione. Per questo il titolo suonava Imperatore Tedesco anziché di Germania, e proprio per questo Guglielmo era tanto riluttante ad accettarla. Re per diritto divino e pienamente convinto della sacralità della corona, si sentiva sminuito a divenire imperatore per elezione. Già il suo predecessore sul trono di Prussia, il fratello Federico Guglielmo IV, aveva rifiutato con profondo sdegno una analoga corona imperiale offertagli nel 1849 da una dieta tedesca riunita a Francoforte. Quell’offerta giungeva dopo le barricate del ‘48, sapeva di costituzionale, di liberale, di borghese, in ultima analisi di “repubblicano”, e mai un Hohenzollern sarebbe sceso a un simile compromesso con la piazza. La corona imperiale del 1871 erano invece i principi tedeschi a offrirla, sovrani coronati anche loro, non il popolo; ma questo non bastava a tacitare gli scrupoli di Guglielmo.
Accantonando i retroscena, la cerimonia di Versailles ebbe una sua epica grandiosità. Fu un trionfo di barbarica forza guerriera degno degli antichi teutoni. Non c’erano – come a Roma per Carlo Magno – gli incensi, i ceri, lo scintillare delle mitrie episcopali. Lì non dovevano esserci. Gli elmi chiodati e le sciabole erano assai più consoni. Se il Primo Reich era stato Sacro e Romano (Das Heilige Römische Reich), il Secondo era ancora sacro, senza dubbio, ma certamente non più romano. Era infatti la Germania protestante che si federava in questo nuovo impero, pur con la presenza di importanti Stati cattolici a cominciare dalla Baviera. Il dissidio che travagliava il mondo germanico dai tempi di Lutero, la divisione tra cattolici e protestanti, era arrivato così al suo capitolo più importante.
Il Primo Reich, il “Sacro Romano Impero della Nazione Germanica” di Ottone il Grande, aveva già vissuto avanti lettera questo dissidio. L’antagonismo con Roma era anteriore a Lutero, e le lotte per le investiture ne erano state una espressione palese. Lutero diede a questo dissidio una bandiera, un credo religioso, una motivazione etica.
L’impero, sacro e romano, tentò di risollevarsi in varie occasioni ma non ci riuscì. La guerra dei Trent’anni insanguinò invano l’Europa centrale e finì con il lasciarla ancora profondamente divisa; e su questa Mitteleuropa fu sempre più difficile per l’impero – cattolico per definizione – mantenere il ruolo carismatico delle origini.
Venne dichiarato formalmente estinto solo nel 1806, dopo che Napoleone lo aveva ormai svuotato di contenuto istituendo la Confederazione del Reno posta sotto la sua sudditanza. La casa d’Asburgo aveva dato contemporaneamente vita a un altro titolo imperiale che si chiamò d’Austria (poi d’Austria-Ungheria), ma questo impero austroungarico gravitava ormai lungo il Danubio e sempre più lontano dal Reno, si espandeva verso il mondo slavo e si appartava da quello germanico. Una certa egemonia politica l’Austria la esercitò ancora nell’arco dell’800. Mantenne infatti la supremazia in seno alla Confederazione Germanica (Deutscher Bund) nata nel 1815 al Congresso di Vienna, e continuò a fruire di un residuo prestigio sul piano formale e protocollare; ma gli Stati tedeschi protestanti guardavano ormai alla Prussia come Stato guida.
Indipendentemente dallo schieramento religioso, il nascente patriottismo tedesco di stampo romantico si identificava assai meglio nella monarchia degli Hohenzollern che in quella degli Asburgo. Essere tedesco voleva dire essere libero da ogni residua soggezione a Roma, e gli imperatori che più avevano combattuto i papi erano i più popolari come eroi nazionali, a cominciare da Enrico IV. La Prussia era uno Stato protestante, ma agli occhi dei tedeschi anche cattolici aveva il prestigio della sua rapida ascesa e della sua potenza militare; era una forza vincente, contrapposta a quella ormai declinante degli Asburgo.
Il titolo di re di Prussia è fuorviante per chi vede dall’esterno la storia degli Hohenzollern, così come poteva esserlo per i Savoia il titolo di re di Sardegna. Come i Savoia non erano sardi, così gli Hohenzollern non erano affatto prussiani, bensì svevi d’origine. Il castello di Zoller, poi nobilitato con l’aggiunta dello Hohe – ossia “alto” – si trovava circa 60 km a sud di Stoccarda. Gli Hohenzollern furono dal 1191 signori di Norimberga con il titolo di burgravi; nel 1412 diventarono margravi del Brandeburgo e principi elettori dell’impero, e si insediarono nella loro nuova capitale Berlino. (I titoli di burgravio e margravio, composti dal tedesco graf, conte, sono di diffìcile traduzione. Il burgravio era il signore di una città, il margravio il signore di una marca, ossia marchese.)
La Prussia era terra di confine con il mondo slavo, abitata ancora nel XII secolo da popolazioni pagane, i borussi, alla cui cristianizzazione si dedicarono i Cavalieri Teutonici. Sulle terre conquistate e redente, i cavalieri ebbero la piena sovranità. Un cadetto della casa Hohenzollern era Gran Maestro dell’Ordine Teutonico ai tempi della Riforma; si schierò nel 1525 con i protestanti e ottenne che i territori dei cavalieri fossero secolarizzati ed eretti a suo favore in ducato ereditario. Nel 1618, attraverso combinazioni dinastiche, il ducato di Prussia fu unito alla marca di Brandeburgo, cui non era geograficamente contiguo. I feudi degli Hohenzollern rimasero lungamente frazionati, chiazze isolate sulla carta politica di Germania, e la loro unificazione fu il risultato di una lunga e paziente politica di annessioni per via di negoziati, di matrimoni, o di conquista. Molta strada fu compiuta per merito del margravio Federico Guglielmo, detto il Grande Elettore per i suoi successi militari e politici. Suo figlio Federico I ottenne nel 1701 dall’imperatore Leopoldo I l’elevazione del ducato di Prussia alla dignità di regno; il titolo di re di Prussia fece quindi premio su quello di margravio di Brandeburgo, conferendo all’Hohenzollern una innegabile promozione di rango. Fra i principi del Sacro Romano Impero era il primo e il solo a portare il titolo reale.
Probabilmente l’imperatore Leopoldo, a fronte di una contropartita concreta in termini di denaro o di aiuti militari, firmò a cuor leggero quella pergamena che riteneva meramente onorifica, ma che si rivelò poi infausta per la sua famiglia. L’ascesa degli Hohenzollern, aiutati anche dal titolo reale, continuò infatti a scapito degli Asburgo, di cui divennero la potenza rivale.
Il momento più drammatico di questa rivalità si ebbe con la guerra dei Sette anni (1756-63) quando Federico II di Prussia, col pretesto giuridico di non riconoscere la successione di Maria Teresa, strappò agli Asburgo la ricca provincia della Slesia. La bufera napoleonica accomunò Austria e Prussia nelle stesse sventure e fece dimenticare i rancori, ma dopo il congresso di Vienna, la Prussia si avviò a riprendere la sua posizione di antagonismo.
Quello che Federico II aveva cominciato, lo completò Bismarck, il Cancelliere di Ferro, la cui politica, come primo ministro di Federico Guglielmo IV e poi dal 1857 di Guglielmo I, fu tutta costantemente tesa alla esclusione dell’Austria dalla supremazia in Germania a tutto vantaggio della Prussia. La politica spregiudicata che il cancelliere dovette giocare spesso a dispetto dei suoi stessi sovrani (entrambi i fratelli re ebbero la vocazione cavalleresca, e sentirono sempre verso gli Asburgo un antico dovere di lealtà) spinse dapprima Prussia e Austria assieme a una piccola guerra contro la Danimarca. Il casus belli fu un problema dinastico di successione ai ducati di Schleswig e Holstein, stati cuscinetto al confine danese.
A guerra vinta, Bismarck manovrò in modo che la spartizione della preda ponesse un nuovo casus belli tra Austria e Prussia, e non esitò a far scoccare la scintilla nell’estate 1866. Il genio militare di Moltke fece il resto: fu una guerra lampo di poche settimane, conclusa il 3 luglio con una clamorosa sconfitta austriaca a Sadowa, ricordata anche come battaglia di Königgrätz. Bismarck evitò con lungimiranza che il nemico fosse umiliato a fondo; si oppose che la marcia vittoriosa arrivasse sino a Vienna e non chiese compensi territoriali. La Prussia ottenne molto più di qualche provincia: il riconoscimento del suo ruolo di Stato guida in Germania, lo scioglimento della vecchia Confederazione Tedesca del 1815 e l’estromissione dell’Austria da quella nuova che ne avrebbe preso il posto. La perdita territoriale più grande l’Austria la subì in Italia, proprio sul fronte dove aveva vinto sia per terra (Custoza) che per mare (Lissa).
L’Italia era scesa in guerra come alleata della Prussia, ma Francesco Giuseppe si rifiutò di consegnare il Veneto agli Italiani sommando al danno la beffa. Cedette questa provincia a Napoleone III, che la accettò come ricompensa per la sua neutralità e la girò a Vittorio Emanuele II.
La “Confederazione Tedesca del Nord” fu il nuovo organismo federale nato dopo Sadowa, in cui era la Prussia (leggi Bismarck) a tenere le leve decisionali. Ebbe come confine meridionale il fiume Meno; ne restavano quindi escluse la Baviera, il Württemberg, il Baden, il Palatinato e altri Stati minori. Ma con questi Bismarck si legò ben presto stipulando trattati segreti di alleanza militare che li avrebbero coinvolti in caso di conflitto, subordinando tutte le truppe dei confederati e degli alleati al comando del re di Prussia.
A volere la “linea del Meno” era stato Napoleone III, e Bismarck gli aveva dato questo contentino. Dopo Sadowa, la Francia aveva sentito venir meno l’equilibrio politico europeo; faceva alla Prussia il viso dell’armi, e sentiva come un affronto ogni successo prussiano, politico o militare che fosse. Su questo, Bismarck giocò da maestro come un gatto col topolino. Verso la Francia, Bismarck non aveva rivendicazioni particolari, e non condivideva troppo seriamente quelle sull’Alsazia e la Lorena, terre di confine; queste semmai interessavano alla nuova classe industriale tedesca per la ricchezza dei distretti minerari. Sentiva però che il disequilibrio in Europa si era creato davvero, e sul modo di riequilibrarlo non aveva dubbi: con una prova di forza, come fanno i cervi maschi per il dominio sul branco. Quanto a trovare un casus belli, il conte Bismarck (non era ancora principe: lo diventerà dopo Sédan) era maestro provetto. Gli errori dei suoi avversari lo favorivano al di là delle sue stesse speranze: Bismarck si “fece dichiarar guerra” dalla Francia con la stessa innocenza con cui Cavour aveva provocato l’Austria nel 1859. La guerra franco-prussiana del ‘70 scoppiò senza alcun motivo plausibile.
C’era stata una candidatura Hohenzollern al trono di Spagna cui la Francia si era opposta con violenza. Ritirata la candidatura, la Francia non smise il tono arrogante; pretese dal re di Prussia qualche cosa di molto simile a delle scuse e per iscritto. La risposta non poteva essere che negativa; la Francia la prese come un affronto e dichiarò guerra il 15 luglio. Il 3 settembre subiva la tragica disfatta di Sédan, in cui lo stesso Napoleone III fu preso prigioniero. Moltke aveva ancora una volta manovrato a perfezione la macchina da guerra tedesca.
Fu in quel clima di esaltazione vittoriosa che prese forma l’impero, il Secondo Reich, con il quale si compiva l’unità della Germania. I particolarismi dei singoli principi gelosi della propria sovranità avevano sempre impedito una simile unificazione, a dispetto di un sentimento nazionale tedesco del quale bisognava ormai tener conto. Le tre confederazioni che si erano succedute nel secolo (quella del Reno, sottomessa a Napoleone ma pur sempre apportatrice di rinnovamento, quella Tedesca del 1815-66 sotto la supremazia dell’Austria, e quella Tedesca del Nord dopo Sadowa) avevano preparato il terreno; la vittoria di Sédan aveva creato l’atmosfera, in cui l’impero appariva ormai necessario e irrinunciabile.
Rispetto alla Confederazione Tedesca del Nord, il mutamento più importante era l’allargamento dei confini a comprendere la Baviera e gli altri Stati meridionali. Politicamente l’impero rimaneva una entità federale dove i singoli regnanti (4 re, 6 granduchi, 5 duchi, 7 principi e 3 città libere) conservavano le prerogative sovrane, e l’imperatore sedeva fra loro come primus inter pares. Era interessante leggere lo stemma del nuovo impero: l’aquila nera monocipite, non più bicipite come quella absburgica, era coronata dal diadema imperiale e portava sul petto lo scudo del regno di Prussia (derivato da quello dei Cavalieri Teutonici), ossia un’altra aquila nera in campo d’argento, con scettro e globo negli artigli e la corona reale in capo. Il diadema imperiale ripeteva quasi esattamente quello del Primo Reich da Carlo Magno in poi: una corona di otto piastre lobate con una croce sulla piastra frontale e posteriormente una “cresta” semicircolare. “La posizione libera del diadema sul capo dell’aquila”, scriveva un commentatore contemporaneo, “indica che non si tratta dell’antico principio della legittima, e che alla dignità imperiale non è unito un diritto di possesso sulla Germania”.
In realtà, Bismarck riuscì ben presto a centralizzare l’impero in una potenza unitaria e autocratica che ricordava solo lontanamente il principio federativo delle origini. Ai sovrani degli Stati membri furono riservati tutti gli onori ma non molto di più, come ai maharajah indiani sotto il dominio britannico. Quando era molto occupato, Bismarck non esitava a lasciarli aspettare in anticamera. Con la stessa spregiudicatezza con cui aveva saputo esautorare i principi, Bismarck riuscì a non farsi condizionare dal parlamento, con la costante minaccia di farlo sciogliere da un decreto imperiale. Guglielmo I, cui non era piaciuto il titolo di Imperatore Tedesco, riuscì cosi a regnare per diciotto anni come un sovrano assoluto sull’intera Germania. D’altra parte, la sua figura patriarcale, la dirittura morale e la bonarietà del carattere, ne avevano fatto un personaggio popolare e sinceramente amato. Quando morì il 15 marzo 1888, aveva raggiunto la veneranda età di 91 anni; si cominciò a parlare di lui come dell’imperatore Guglielmo “il Grande”.
Suo figlio Federico aveva idee politiche ben diverse, sia per naturale reazione al dispotismo paterno – fenomeno generazionale consueto in casa Hohenzollern – sia per l’influsso del costume democratico britannico, dopo le nozze con Vittoria. A lui guardavano quindi con speranza le classi borghesi e intellettuali di Germania; ma, purtroppo, il suo fu solo un effimero regno di 99 giorni.
Del secondo Guglielmo, salito al trono meno che trentenne, sono ben noti il carattere arrogante e tutte le interne debolezze, il gusto spettacolare per le uniformi e le parate, il mito della forza, la convinzione della superiorità della stirpe germanica. È ugualmente nota la sua politica costantemente provocatoria che condusse l’Europa alla prima guerra mondiale.
Con la sconfitta del 1918, il Secondo Reich finiva prima di aver completato il mezzo secolo di vita. Guglielmo, ultimo imperatore, visse ancora 23 anni in esilio in Olanda, a Doorn presso Utrecht, sino all’età di 82 anni. Fece quindi in tempo a vedere le vicende della Germania dopo di lui: l’avvento al potere di Hitler e lo scoppio della guerra mondiale.
Quando morì nel 1941, le sorti della guerra volgevano ancora a favore delle armi naziste, e Guglielmo se ne rallegrò. Certamente vedeva in Hitler un continuatore della sua politica e un vendicatore delle sue sconfitte. Quando le truppe naziste entrarono in Parigi, l’ex Kaiser mandò al Führer un telegramma di felicitazioni.
Il titolo di Führer aveva sostituito quello di Kaiser, ma il nome che Hitler aveva dato al suo regime – Terzo Reich – non lasciava luogo a equivoci: era rinato il Sacro Romano Impero della Nazione Germanica, con lo stesso spirito di missione divina da compiere. Gott mit uns (Dio è con noi) era il motto sul cinturone di tutti i soldati tedeschi; la Croce di Ferro delle decorazioni hitleriane continuava quella prussiana istituita da Federico Guglielmo III, e la sua forma era l’antico emblema dei Cavalieri Teutonici. Ma il Terzo Reich ebbe, per fortuna, una vita ancora più breve del secondo: dodici anni.