I fattori che in un’epoca storica contribuiscono a determinare la natura della tecnologia sono innumerevoli, e la felice combinazione di disponibilità di materiali, abilità degli artigiani, condizioni economiche e sociali, religione, etica e dottrine filosofiche, nel bacino del Mediterraneo orientale intorno al I secolo a.C. permisero all’uomo di dotarsi finalmente di un motore primario: la mola versatilis. Il motore primario è il tramite della trasformazione di energia esistente in natura (forza muscolare, forza del vento, dell’acqua corrente, eccetera) in forma conveniente di energia meccanica e rende disponibile energia, in forma concentrata, per un nuovo e più alto livello di produzione.

E disperderò da essi le
voci di gioia e di letizia…
la voce della mola…
tutta questa terra sarà
una solitudine ed un orrore…
(Geremia 25,10-11)

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Raffigurazione di un mulino di proprietà della Confraternita della Misericordia di Anghiari in un cabreo del XVII secolo.

Quella di Geremia, nel predire l’esilio babilonese (586-539/538 a.C.), è senza dubbio una delle prime testimonianze scritte dell’uso della mola – nella fattispecie, trusatilis – nel mondo occidentale: mola che l’antropologia culturale ci propone come rudimentale attrezzo di pietra, girevole mediante sostegno allungato, che le donne, ma non solo loro, usavano per triturare vari tipi di cereali. Tra i primi a temprare le braccia con strumenti atti alla monotona funzione della molitura è da ricordare il giudice Sansone a favore dei Filistei suoi padroni (1100 a.C. circa) e, molto più tardi, anche qualche uomo libero come il giovane e indigente Plauto (III secolo a.C.).

Cessate di macinare, o affaticate
donne che attendete alla mola;
dormite fino a tardi,
fin dopo che il gallo ha annunziato l’alba.
Demetra infatti ha chiamato le ninfe
a far esse il lavoro delle vostre mani;
ed esse saltando giulive contro la ruota,
fanno girar l’asse
che con le sue pale rotanti
muove a torno le macine
fatte venir d’oltre mare da Nisia.
(Antipatro di Tessalonica, Anthologia Palatina XI, 418)

Dall’utensile biblico alla mola versatilis mossa dalla forza dell’acqua, il passo probabilmente non fu né breve né semplice, né ci è dato conoscere il nome o i nomi degli ideatori; anche se più fonti, peraltro coeve, ci permettono di datare i primi opifici idraulici al I secolo a.C. e ci fanno considerare, come premesso, che la loro nascita sia avvenuta nel bacino del Mediterraneo orientale.

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Mulino ad acqua mosso da una ruota orizzontale.

Oltre ai versi dell’Antologia Palatina su riportati, ci è noto attraverso Strabone (XII, 556) che Mitridate VI, re del Ponto, aveva fatto costruire un mulino ad acqua in dipendenza del proprio palazzo di Cubeira (120-65 a.C. circa); infine Vitruvio (De Architectura X, 257), nell’illustrare la nuova macchina, usa il nome greco hydraletes (15 a.C. circa).
A onor del vero, la famosa ruota verticale di Vitruvio (le cui pale potevano essere spinte dall’acqua in tre diversi modi – dall’alto, dalle reni e da sotto – e che malgrado l’oggettiva difficoltà meccanica di trasmettere il movimento dalla ruota, posta in verticale, alla mola – macina o palmento – collocata per necessità in orizzontale, era comunque capace di fornire una potenza calcolabile – oggi e non da Vitruvio – in circa tre cavalli vapore) era ben diversa dalla primitiva ruota orizzontale, solidale con la mola e in grado di sviluppare al massimo una potenza di circa mezzo cavallo vapore, alimentata dalle poche e irregolari acque dei torrenti del Ponto e della Tessaglia; ma nulla ci vieta di attribuire l’innovazione, peraltro di enorme importanza tecnica, allo stesso Vitruvio o a contemporanei ingegneri romani.

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Leonardo da Vinci: studi di ruote idrauliche vitruviane poste in verticale (Cod. Leicester).

A parte il trattato di Vitruvio, dobbiamo a Plinio (Naturalis Historia XVIII-XXII, 97) la prima segnalazione di mulini sui corsi d’acqua dell’Italia, e scavi effettuati a Venafro sul Tuliverno, presso Napoli, hanno portato alla luce l’impronta di una ruota verticale ad acqua lasciata dalla lava del Vesuvio che, seguendo il corso del fiume, era colata fin sotto il mulino.
Tuttavia la nuova tecnica di molitura non ebbe grande diffusione se è vero, come afferma Svetonio (Caligula 39), che Caligola poté affamare Roma semplicemente requisendo i cavalli che venivano impiegati anche per far girare le macine tradizionali al posto dell’uomo. Inoltre dobbiamo considerare che verso gli inizi dell’èra cristiana, malgrado le difficoltà connesse all’allevamento dell’animale uomo – uno tra i più delicati – e quindi alla produzione in casa degli schiavi, le tante guerre vittoriosamente portate a termine da Roma avevano dato notoria disponibilità di questo particolare tipo di forza lavoro ed è comprensibile come, confrontati i costi di impianto e gestione, tecnologie alternative abbiano avuto scarsa attenzione.
A testimonianza delle difficoltà incontrate nell’affermazione del nuovo sistema di molitura, possiamo ricordare che, in tempi in cui l’approvigionamento di manodopera servile era soggetto a notevoli problematiche e restrizioni, un “illuminato” del calibro di Costantino pensò bene di sostituire i condannati, non l’acqua, agli schiavi (Codex Theod IX, 40, 3, 5, 6, 9 e XIV, 17, 6). Si ebbero quindi i lavori forzati nei pubblici mulini, anche se i romani avevano enorme dimestichezza con la costruzione di acquedotti e condotte idrauliche in generale. Eredi della tradizione etrusca, i romani già durante l’assedio di Veio avevano avuto la possibilità di studiare l’emissario artificiale del lago di Albano (per noi ben spiegato da Giovan Battista Piranesi).

Mulino ad acqua mosso da una ruota orizzontale.
Una delle tavole di Giovan Battista Piranesi dalla sua “Descrizione e disegno dell’emissario del lago di Albano”.

Inoltre possiamo ricordare che nel 144 a.C. il pretore Marcio Re fece convogliare a Roma l’acqua dell’alta valle dell’Aniene con una condotta di 92 km (acquedotto dell’Acqua Marcia). Nel 19 a.C. Agrippa fece costruire l’acquedotto dell’Acqua Vergine, lungo una ventina di chilometri; e dal 35 al 49 d.C., Caligola prima e Claudio poi diedero corso alla realizzazione dell’acquedotto dell’Acqua Claudia lungo circa 70 km.
In Roma, i primi impianti per la macinatura ad acqua furono realizzati nel 216 d.C. presso le terme di Caracalla e successivamente, intorno alla metà del IV secolo, sul Gianicolo, alimentati da una derivazione dell’acquedotto di Traiano.
Saltiamo l’oscuro o forse fin troppo chiaro e poco compreso alto medioevo, per soffermarci sui benéfici effetti delle acque di un fiume e dei suoi molteplici impieghi che poco dopo l’anno mille ci ha descritto Bernardo da Chiaravalle (Bernardi: Descriptio monasteri Clarae vallis – Patrologia Latina).

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Mulino dell’Abbazia di Chiaravalle.

Operiamo poi quello che in fisica si indica come “salto quantico”, e lo facciamo per ritrovarci nel centro dell’Italia e più precisamente in alta Valle del Tevere. Non c’è il fiume Aube, ma la valle è certamente quella di un Eden e il fiume – il Tevere –  “non è ancora biondo”, lo diventerà a forza di liquami in prossimità di Roma, ma è già assolutamente sacro. Il territorio non è cistercense ma benedettino. Tutto sommato possiamo anche, in qualche misura, confondere gli ordini ché siamo esegeti di larghe vedute. Bernardo non avrebbe mai sospettato che la sua terra sarebbe passata alla storia come la valle dell’assenzio: la fata verde di Baudelaire, Verlaine, Rimbaud, Degas e, tra gli ultimi bohémien, Modigligliani (Modì, pronunciato proprio come maudit, che in francese sta per maledetto con tutti gli annessi e connessi).
I benedettini dal canto loro, in una derivazione del Tevere – il canale di Acquaviola, termine che implica costruttori per sapienza che prescinde dalla fede… la sapienza che insegna agli uomini temperanza, prudenza e giustizia – impiantarono alcuni mulini.

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Carta topografica del piano d’Anghiari, San Sepolcro e Citerna, dove sono situati i mulini mossi dall’acqua del Tevere (XVII secolo).

Secondo altri acquaviola deriverebbe dal colore dell’acqua del canale, dovuto alla presenza lungo il medesimo di gualchiere atte alla macerazione della Isatis tintoria, una crucifera detta comunemente “guado” da cui viene il colorante indaco. Indaco appunto e non viola, e poi a noi piace l’interpretazione più aulica e meno prosaica che riportiamo per mero dovere di cronaca. Il canale ha origine nei pressi della steccaia (sbarramento, piccola diga) posta presso Gorgabuia (il nome è sintomatico e inquietante): potrebbe non essere un caso che acquaviola in tempi di medioevo, nel senso più deleterio del termine, che è già tra noi e non più “prossimo venturo”, sia la pozione magica che ordinò Minerva McGranit alla locanda dei Tre Manici di Scopa mentre era in compagnia dei suoi colleghi professori e dell’allora ministro della Magia, Cornelius Caramell (Harry Potter e il principe mezzosangue).
Ovviamente, assimilati a Bernardo anche i primi abati (camaldolesi) tutto questo non potevano saperlo. Tranquilli, non potevano saperlo i primi monaci che ebbero giurisdizione su queste terre e di sicuro neanche Joanne Rowling, la gentildonna inglese autrice della famosa saga. Noi abbiamo fantasticato. Chi legge dovrebbe poter immaginare che, a volte, la luce rapisce e fa percorrere giri strani. Non può essere per caso che nel 1564 Pieter Brueghel il Vecchio avesse posto un mulino a vento, ma pur sempre mulino, in cima alla rupe dell’andata al Calvario.

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P. Brueghel, “Andata al calvario”, particolare.

Un mulino proprio nel punto ove il cielo è più chiaro… lo stesso luogo deputato alla celebrazione della nefandezza più grande! In questa valle il cielo è terso e pulito: la valle del Santo Sepolcro e della redenzione, per chi crede, e inevitabilmente per contrapposizione, sempre per chi crede, anche la valle della testa del serpente. Il mulino di Brueghel a onor del vero era mosso dalla forza del vento, anche se i meccanismi interni e gli ingranaggi (ritrecini, palmenti, tramogge, moltipliche, viti senza fine e quant’altro) tutto sommato differivano poco da quelli di cui, durante la rinascenza, si erano occupati personaggi del calibro di Francesco di Giorgio, Piero della Francesca (quest’ultimo era anche proprietario di un mulino con gualchiera), Giuliano da Sangallo e Leonardo da Vinci.

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Francesco di Giorgio Martini: una pagina del suo trattato di architettura.

Tutti meccanismi che studiati in modo migliore potevano alleviare le fatiche dei mugnai. Rembrandt Harmenszon van Rijn – che significa più o meno Rembrandt figlio di Harmen concepito in prossimità del Reno – aveva il padre e i fratelli mugnai e proprietari di mulino. Abbiamo descrizioni più che precise della fatica che deformò il padre fino a condurlo anzitempo a sorella morte e degli incidenti che invalidarono i fratelli.
Anche quello di Rembrandt era un mulino a vento, e mi sovviene che questa volta lo sviluppo sia dovuto a popolazioni che gravitavano a sud e a nord della Manica in zone particolarmente ventose. I primi esempi di mulini a vento a noi noti sono risalenti al 1180, situati a Ste-Mère-Eglise e presso Liesville in Normandia, mentre il mulino a vento vicino a Bristol è del 1181.
Escludiamo stavolta il Medioriente, poiché la costruzione di un mulino a vento in prossimità delle mura di Acri in Siria nel 1189 arriva qualche anno dopo; e poi la gente lo scambiò per un mostro inusitato, segno evidente che di energia eolica si sapeva ancora poco da quelle parti di mondo. Del resto di visionari e pazzi è popolato da sempre e in ogni tempo ogni angolo del pianeta.

– Dove, sono i giganti? disse Sancio Pancia.
– Quelli che vedi laggiù, rispose il padrone, con quelle braccia sì lunghe, che taluno d’essi le ha come di due leghe.
– Guardi bene la signoria vostra, soggiunse Sancio, che quelli che colà si discoprono non sono altrimenti giganti, ma mulini da vento, e quelle che le paiono braccia sono le pale delle ruote, che percosse dal vento, fanno girare la macina del mulino.
— Ben si conosce, disse don Chisciotte, che non sei pratico di avventure; quelli sono giganti, e se ne temi, fatti in disparte e mettiti in orazione mentre io vado ad entrar con essi in fiera e disugual tenzone.
(Miguel de Cervantes, El Ingenioso Hidalgo Don Quijote de la Mancha.)

La fortuna del vento fu poi dovuta anche alla legge degli uomini che, intorno al mille e anche prima, per l’acqua avevano già regolamentato diritti e quindi anche quello di poter costruire e non costruire mulini. Per imbrigliare il vento ancora, seppur per poco, nessun “diritto d’aria” era contemplato.
Dopo incessante divagare e saltare, apparentemente, di palo in frasca eccoci finalmente al luogo “dove il sacro fiume non è ancor biondo”.

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Panoramica dell’alta valle del Tevere.

La Valtiberina

L’alta valle del Tevere è la più esterna tra le valli e i bacini che, posti e orientati nel senso del ripiegamento tettonico appenninico (NO-SE), costituiscono la cerchia montuosa della Toscana, ed è compresa tra i limiti astronomici approssimativi di 43°25’ – 43°45’ di latitudine N e 12°- 12°15’ di longitudine E. Il limite regionale tra Toscana e Umbria attraversa la conca in direzione NE-SO e la divide circa a metà ricalcando, più o meno, la vecchia frontiera tra gli Stati Pontifici e il Granducato di Toscana. Il confine amministrativo ha intaccato nei secoli l’unità morfologica e geografica della valle producendo una divisione netta e molto marcata.
La mancanza di interazioni e scambi continui tra le due parti ha determinato la nascita di problematiche diverse e non unitarie, fonti, in passato, di frequenti diatribe che, non del tutto sopite, permangono ancora e a volte riaffiorano. Per esempio sono relativamente recenti le questioni connesse e conseguenti al progetto e alla realizzazione dello sbarramento del Tevere presso la stretta di Montedoglio – nonché la conseguente realizzazione di un invaso artificiale inteso anche al rifornimento idrico della vicina e assetata Val di Chiana – che hanno portato spesso a dispute neppure troppo nascoste tra le amministrazioni delle due parti, a tutti i livelli.

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Invaso artificiale di Montedoglio.

Del resto per l’acqua del Tevere le varie comunità hanno sempre litigato: l’area lungo il confine tra Sansepolcro e San Giustino, delimitata da due piccoli affluenti del Tevere, non per caso è stata dal 1441 al 1826 una zona “franca”, comprendente un centro abitato di poche case rurali, denominata “Repubblica di Cospaia”.
L’Alpe di Catenaia e quella di Poti separano la valle dal bacino dell’Arno, mentre l’Alpe della Luna e la Massa Trabaria fungono da spartiacque rispettivamente con il bacino del Marecchia e del Metauro. Contrariamente all’apparenza, data l’ubicazione che attualmente è da considerarsi periferica, l’alta valle del Tevere è stata per millenni importante crocevia e passo obbligato. I pellegrini provenienti dalla Terra Santa e dal Nord Europa, da Caorle e Pomposa per la via del Savio, o dall’Adriatico per le valli del Senatello e del Marecchia, seguendo poi il Tevere raggiungevano Roma; e sulla via del ritorno l’asta del Tevere faceva ancora compagnia per tutto il percorso di vallata.
Firenze, attraverso il valico di Viamaggio (via major) e la Massa Trabaria attraversata dalla Via Giulia, intratteneva rapporti e commerci proficui con le corti dei Malatesta e dei Montefeltro; e, attraverso i porti di Rimini e Fano ma anche Ancona, con Medioriente e Oriente.
A poco più di 25 km dalla sorgente, subito a sud di Montedoglio, il Tevere entra in una piana lunga circa 20 km e larga 7 e vi scorre a una quota di circa 285 m sul livello del mare con una pendenza dello 0,3%, in un alveo che supera a volte i 100 metri di larghezza. Borgo Sansepolcro, il centro toscano più importante della valle, è adagiato sulla riva sinistra a circa un chilometro dal fiume e a quattro dal confine con l’Umbria. Nella valle altri centri di rilievo sono: Anghiari, Pieve Santo Stefano, Caprese Michelangelo  e Badia Tedalda in Toscana, San Giustino e Città di Castello in Umbria. 1)Così Plinio il Giovane la descrive in una sua lettera all’amico Apollinare:

È veramente pernicioso e pestifero quel lembo della Toscana che si distende verso il lido. Ma la sua Villa, non che discosta dal mare, giace a pie’ dell’Appennino, che è il più salubre dei monti. Freddo e gelato è il clima del verno: esso disdegna e ricusa i mirti, gli ulivi e ogni altra pianta che vegeta in perpetuo tepore. Vi prova tuttavia il lauro, anzi vi cresce rigoglioso, come nei dintorni della nostra Città. Meravigliosa è la temperatura della state… Bellissimo è l’aspetto del paese. Immagina come un immenso anfiteatro, qual può formarlo solo la natura. L’ampia e diffusa pianura è circondata dai monti; le supreme cime de’ monti sono coronate di alti antichi boschi, nido di molte e diverse fiere. Quindi il monte digrada insieme con quei boschi altissimi, fra mezzo ai quali de’ colli di terra ferace (poiché non è facile trovarvi un sasso neppur cercandolo) non si lasciano vincere in fertilità a campi che sono più spianati e l’abbondosa messe più tardi, ma pur vi matura. Alle falde di que’ colli girano d’ogni intorno delle vigne, le quali da tutti i lati non ti presentano che un aspetto solo; al finir di esse, e quasi sul loro margine estremo crescono degli arboscelli, v’ha poi prati e campi; e campi tali, che per spezzarli vi bisogna di gagliardi bovi e de’ robustissimi aratri. Al primo fenderla si leva quel durissimo terreno in tante zolle, che non si doma, se non è arato per ben nove volte. I floridi e lucenti prati alimentano il trifoglio ed altre erbette, che sono sempre tenere e molli, e quasi appena nate per amore dei ruscelli che le irrorano continuamente. Ma purché l’acqua vi abbondi non è mai che impaludi; giacché il declive terreno tutta quell’acqua che riceve, ma non assorbe, la scarica nel Tevere. Il qual fiume interseca i campi è navigabile, e trasporta in Città ogni guisa di biade, però solo nel verno e di primavera, cala nella state e disseccandosi il suo alveo depone il titolo di gran fiume che riprende in autunno. Ti godresti assai a guardare dal monte la postura di questo paese. Imperciocché non ti parrebbe già di veder terra, ma come una scena dipinta di rara bellezza. Per la verità di questo spettacolo l’occhio si rallegra da qualunque parte si volga. La villa gode dall’alto del colle le parti più basse di esso; e così dolcemente e a poco a poco si innalza per lo ingannevole pendio che tu, stimando di non montare, vi sei già bello e montato. Dietro, ma pur da lungo, le sta l’Appennino dal quale anche nel più limpido e tranquillo giorno spiran dè’ venti, non già pungenti e gagliardi ma stanchi e rotti per lo spazio trascorso. La villa guarda in gran parte a mezzogiorno… 2)

Gli interventi sul Tevere dal XII al XV secolo

La necessità della sistemazione dell’alveo del fiume nell’alta Valtiberina ha origini antichissime: resti di costruzioni romane, fosse chiuse o piccole dighe, atte a regolare il livello delle acque, sono ancora visibili presso il ponte di Valsavignone, Ponte a Formole e Montedoglio. La Valtiberina, inoltre, fece parte delle valli soggette a confisca dell’antica Etruria e venne completamente dedotta e colonizzata da Roma negli anni dal 41 al 27 a.C., e di impianto romano sono i piloni del vecchio ponte sul Tevere in prossimità di Sansepolcro. 3)

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Il vecchio ponte sul Tevere nei pressi di Sansepolcro, prima del crollo.

Il fiume Tevere fino al 1197 scorreva vicino ad Anghiari poco più di un miglio nelle basse traversando la villa di San Leo; ma avendo alzato tanto il suo letto che l’acque piovane che vi scolavano da Anghiari e dal Borgo non potendo per la sua altezza sboccarvi rendevano perciò inutili e paludose quelle pianure con danno notabilissimo di ambidue quei popoli, ed essendo stata ben considerata la causa, donde trovata, risolverono di consenso comune e con licenza dei Conti di Montedoglio di dare un nuovo letto al fiume nella parte più bassa di quelle campagne, acciò con più facilità vi si potessero ridurre tutte le acque ed asciugare il piano per ridurlo nella prima cultura e per utilità universale. E così i Borghesi lo tirarono vicino alla lor terra in luogo tanto basso e capace di ricevere tutte le acque che scorrono fino dall’Alpi, in modo che in breve tempo resero sano e fruttifero quel bel piano e agli Anghiaresi per il beneficio fatto a Borghesi della concessione del fiume fu permesso di allargare i confini del loro contado un miglio e mezzo più di quello che non avevano essendoché avanti si desse il nuovo letto al Tevere, si trova in un antico Catasto, che da quella parte il confine di Anghiari non passava la via, che oggi si dice del Palazzo. 4)

… 1198 i Signori 24 del Borgo fecero in detto anno la chiusa dell’Afra [affluente sinistro del Tevere] e la prese a fare M. Leone di Magnasso dall’Afra della famiglia della Piera a tutte sue spese e la comunità gli cancellò una condanna di omicidio, come appare alle riforme di Ser Cecco di Michelagnolo di Ser Piero di Cione, cancelliere del Comune. 5)

…alla terra di Anghiari per essersi discostata come sopra dal fiume Tevere mancò la comodità dei mulini; onde con strumento, rogato il 24 luglio 1228 da Ser Giovanni di Tancredi di Anghiari notaio imperiale, il Comune di Anghiari e quel di Citerna col Conte di Montedoglio convennero di designare, come la designarono, una gora, o canale, che uscisse addirittura da Montedoglio al fiume Tevere e scorresse quasi per mezzo del piano e andasse a terminare in quel di Citerna. E vi furono fabbricati undici mulini con grande spesa dei contraenti da servire ad Anghiari, a Citerna, al Borgo, a Monterchi e a tutte le ville circonvicine. Ma il Conte di Montedoglio non permise che la chiusa del Tevere per mandare l’acqua in detta gora si murasse, ma che si facesse una stecconata di pali e sassi. 6)

Il canale fu chiamato Acquaviola e diede modo, oltre alla costruzione dei mulini, di assorbire gli acquitrini che si formavano nella piana. 7)

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Leonardo da vinci: carta della Val di Chiana con evidenziata in alto l’asta del Tevere (RLW 12278r). Elaborazione grafica di Giovanni Cangi.

… nel detto anno 1469 fu dai Castellani svolto il Tevere, che andava ai piedi del Monte Teverino, e lo fecero andare allato al mulino degli otto e ciò fecero per maggior fortezza della loro città. 8)

Come Mattematico e Ingegnere Idraulico devesi all’opera sua [di Piero della Francesca] l’incanalamento di molti ristagni d’acqua intorno al Tevere prodotti dai confluenti di questo fiume; colla miglior sistemazione dell’alveo tolse una cagione di malaria e dando così felice sfogo alle acque impedì per sempre lo sviluppo di esalazioni miasmatiche alla pianura perniciose. 9)

In riferimento a quanto attestato dalla memoria del Bercordati e in considerazione della fonte, seppur tarda (Sacchetti), possiamo aggiungere: 1) per sfuggire la peste sappiamo da vari documenti che Piero della Francesca si trovava in quel periodo nelle sue proprietà di Bastia nei pressi della reglia dei mulini; 2) che suo fratello Marco era il maggior produttore di guado di tutta la vallata per la fiorentina arte della lana e quindi la risistemazione dell’alveo del fiume era in qualche modo interesse di famiglia; 10) 3) che a detta di Vasari, Piero fu “il miglior geometra che fosse alla tempi suoi” (perché chiamarne un’altro per sistemare l’alveo del fiume?); 4) che l’intervento di risistemazione dell’alveo interessò due Stati: quello sotto l’egemonia fiorentina e quello pontificio, e Piero intratteneva già da decenni rapporti di altissimo livello con entrambi, più precisamente fin dal 1439, data del Concilio fiorentino per la riunificazione delle chiese di Oriente e Occidente. 11)

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Leonardo da vinci: piana della battaglia di Anghiari con la reglia dei mulini (RLW 12278r, particolare). Elaborazione grafica di Giovanni Cangi.

I mulini della reglia di Anghiari

L’impianto degli 11 mulini della reglia di Anghiari: Catorcio, Cruciani (di Valle), del Comune, Bianco, Molinello, Molinuzzo (Molinello di sotto), San Leo, Spino, S.Fista, Boncompagni e Pistrino risalirebbe al XIII sec. 12) I suddetti impianti furono però sicuramente ristrutturati e migliorati nella seconda metà del XV secolo. I manufatti pervenuti – pur di difficile lettura causa l’abbandono dovuto all’introduzione del mulino a cilindri alla fine del XIX secolo – recano comunque tracce degli interventi operati sulle murature nel XV.
La tecnica degli impianti, ora per lo più interrati, è singolarmente vicina a quella dei progetti di due tra i più importanti ingegneri di quel secolo: Francesco di Giorgio Martini e Leonardo. Sappiamo inoltre che, poco lontano, in dipendenza del Castello di Sorci fu costruito un mulino a opera di Giuliano da Sangallo.
Caratteristica progettuale che rende un unicum qualitativamente rilevante il complesso degli opifici idraulici della reglia di Anghiari (nel terzo impianto, detto del comune, nel 1790 è documentata anche la presenza di una gualchiera), è l’elevato numero di impianti mossi dalla stessa acqua. La scarsa pendenza e la bassa portata del canale, probabilmente, sconsigliarono la realizzazione delle grandi e potenti ruote verticali. L’impiego obbligato delle più piccole primitive e meno potenti ruote orizzontali non creò, tuttavia, problemi di resa energetica. Sul canale in questione, infatti, vennero allineati a opportuna distanza ben undici impianti, e la resa energetica totale risulta dalla moltiplicazione di quella di uno per l’intero numero degli opifici.
La vastità dell’intervento ha assonanza, nell’Italia centrale, soltanto con la realizzazione coeva e, per fini analoghi, delle gore di Colle Val d’Elsa. (A Colle le gore servirono cartiere, gualchiere, concerie, roterie da ferro, ramiere, vetrerie, laboratori degli stovigliai, oleifici, ferriere e mulini. Oggi nessuna di queste attività è ancora presente. A memoria di un passato operoso restano gli edifici che le ospitavano, splendidi esempi di architettura ed archeologia industriale.)
L’operazione in Valtiberina è innovativa e ben diversa dai tentativi di recupero di energia messi in pratica precedentemente, con la costruzione di uno o più impianti detti di ricolta, a valle di quello principale. Il controllo dell’acqua del Tevere fu motivo di numerose liti fra le comunità di Anghiari e Sansepolcro o più semplicemente fra privati (mugnai, contadini, eccetera) per vari e diversi motivi. 13)

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N O T E

1) R. Manescalchi, S. Fulceri, Dove il Sacro Fiume non è ancor biondo, L’Universo, 1992.
2) Plinio il Giovane, Lettera sesta, lib. V, traduzione di G.F. Pichi, tratta da Rivendicazioni. La villa di Plinio in Thuscis, Beccamorti e Boncompagni, Sansepolcro 1892.
3) M. Ristori, La colonizzazione romana dell’Etruria. Le centuriazioni della Valdichiana e della Valtiberina, in “Bollettino degli ingegneri”, n°4, Firenze 1985.
4) L. Taglieschi, Memorie Historiche e Annali della Terra d’Anghiari, ms. sec. XVII, in  Archivio del convento dei Servi di Maria di Sansepolcro, ora presso la biblioteca/archivio dell’Ordine presso il convento della SS.Annunziata in Firenze.
5) E. Bercordati, Cronaca di Borgo Sansepolcro, ms. sec. XVI, in Biblioteca Comunale di Sansepolcro.
6) Taglieschi, op. cit.
7) A. Ascani, Anghiari, Città di Castello 1973.
8) ” E. Bercordati, op.cit.
9) G. Sacchetti, Sansepolcro, Uomini Illustri, Piero della Francesca, in Collana Storica di Sansepolcro, O. Beccamorti, 1876.
10) Tommaso Fanfani, Potere e nobiltà nell’Italia minore tra XVI e XVII sec, I Taglieschi d’Anghiari.
11) R. Manescalchi, S. Fulceri, Il Corso del Tevere tra Anghiari e Sansepolcro. Notizie di interventi dal XII al XV secolo, L’Universo 1992.
12) Mosè Modigliani, Gli statuti di Anghiari del sec. XIII, Firenze 1880. Il termine aretino reglia significa “canale”.
13) “Chi avrebbe giammai potuto credere, o immaginare che il fiume Tevere, il quale nei più remoti secoli fu il soggetto delle penne dei più eloquenti storici o della fervida fantasia dei più famosi poeti dovesse poi somministrar materia di questioni nel foro? Eppure è così senza fallo tosto che alcuno si prenda la pena di riandare le diverse serie di giudicati non solo di questo tribunale di Anghiari, ma ancora di quelli della nostra dominante, ben vedrà che da circa sei secoli, quanti si contano, dacché presso a quella breve striscia del fiume Tevere che bagna i due territori di Anghiari e del Borgo Sansepolcro, furono costruiti non pochi mulini al mantenimento dei quali, specialmente nella stagione estiva non è bastante l’acqua di questo fiume, infiniti sono stati i reclami e molti e diversi i litigi suscitati o fra le comunità, o fra i mugnai o fra altri privati dell’uno e dell’altro territorio, sul motivo di voler ciascheduno prevalersi dell’acqua del fiume Tevere con notabile pregiudizio del pubblico o del privato interesse. Ed ancorché i rispettivi giudici con le loro decisioni ed i periti idraulici con le varie loro relazioni si siano lusingati di dare un sistema sicuro per togliere in avvenire simili controversie, tuttavia chi è costretto conforme son io ad udir giornalmente i diversi reclami dei mugnai e dei Popoli dell’una e dell’altra comunità rimane abbastanza persuaso a credere, che tanto i giudici, quanto i periti siano rimasti soggetti a quell’inganno, a cui come effetto dell’umana condizione, suole non di rado chiunque soggiacere.”
Anglariens, sei Biturgens interdicti restitutori. Diei 2 settenne. 1788, Biblioteca Comunale di Sansepolcro.
Cfr. anche R. Manescalchi, S. Fulceri, I mulini della reglia di Anghiari, L’Universo 1993.