La questione risaliva almeno agli anni novanta e ora sembra tornare di attualità. Anche se in termini direi “rovesciati”. Se in passato la richiesta di indipendenza si coniugava con la difesa ambientale del territorio (devastato dai progetti di sfruttamento minerario), ora, in aperta contraddizione con la questione ambientale, la riapertura delle miniere va a braccetto con le istanze di autodeterminazione. Un ossimoro?
Ci tocca solo constatare che forse quello che non era riuscito – non completamente almeno – al neocolonialismo (vedi Rio Tinto), potrebbe realizzarlo la classe dirigente locale (vedi Bouganville Copper Limited). Stile veneto, per capirci.
In una recente conferenza stampa a Sydney, il presidente della regione autonoma di Bouganville (Autonomous Bougainville Government) Ishmael Toroama ha ribadito che “il popolo ha esprssso la sua volontà” per cui “il calendario politico finisce nel 2027”. Si riferiva ovviamente alla scadenza per l’indipendenza dell’isola. Ancora politicamente parte della Papua-Nuova Guinea (ma geograficamente dell’arcipelago delle Isole Salomone), nonostante nel 2019 il 97,7% degli elettori  abbia votato a favore dell’indipendenza (su una popolazione, in calo da qualche anno, di circa 137mila persone). Un referendum che ha rappresentato un primo punto di arrivo, se non la definitiva conclusione, degli accordi di pace risalenti al 2001. Dopo un decennio di guerra a bassa intensità tra gli insorti nativi e le forze di sicurezza governative coadiuvate da mercenari di origine straniera, con un costo complessivo di circa 20mila morti.
In base agli accordi di Arawa, raggiunti con la mediazione della Nuova Zelanda, la ratifica finale per una dichiarazione di indipendenza (prevista per il 2027) spetterà al parlamento della Papua Nuova Guinea.
Ma questo a grandi linee già si sapeva, era previsto. La novità, bruttissima, è invece che nella stessa circostanza Ishmael Toroama ha esplicitamante annunciato l’intenzione di riaprire Panguna: la terza miniera di oro e rame a cielo aperto più grande al mondo, che in passato garantiva l’esportazione del 40% del rame dall’intera Papua Nuova Guinea.
Evidentemente la contaminazione (anche mentale) è ormai giunta a uno stadio irreversibile.
La miniera, in attività dal 1972 al 1989, venne chiusa (almeno ufficialmente, visto che in realtà rimase in gestione alla società anglo-australiana Rio Tinto fino al 2016) a causa della violenta ribellione per i danni ambientali e la mancanza di qualsiasi ridistribuzione degli utili per la popolazione locale.
Purtroppo, vien da dire, gli esperti hanno calcolato che il sottosuolo di Panguna conserva ancora più di cinque milioni di tonnellate di rame e 19 milioni di once (un’oncia: 28,35 grammi) d’oro. L’equivalente di miliardi e miliardi di dollari.
La cupidigia umana non poteva restare inerte, per cui nel gennaio di quest’anno veniva accordata dal governo della regione autonoma una “licenza esplorativa” alla Bouganville Copper, propedeutica alla ripresa del devastante sfruttamento.

La miniera di Panguna.

Prevedendo un’attività addirittura “aumentata” rispetto al passato, Toroama ha lanciato la richiesta di “abbondanti investimenti” – presumibilmente da parte di compagnie straniere – per riprendere l’attività estrattiva, ipotizzando che in vent’anni la miniera potrebbe generare almeno 36 miliardi di dollari di entrate. E senza nemmeno aspettare l’agognata indipendenza, dato che l’iniziativa sarebbe in perfetta sintonia con il governo di Port Moresby (capitale della Papua Nuova Guinea) e in particolare con il primo ministro James Marape.
Tutto ciò nonostante un recente rapporto abbia confermato la presenza – a ben 30 anni dalla chiusura dell’impianto – nelle sorgenti e nel terreno di metalli pesanti e sostanze tossiche varie. E il prezzo, al solito, viene pagato dalla popolazione indigena.
Tutto quello che Toroama ha concesso è che “dobbiamo firmare ulteriori memorandum d’intesa con la Rio Tinto e la Bougainville Copper Limited per l’inizio dei lavori delle infrastrutture obsolete che comportano rischi gravi e imminenti per le comunità coinvolte e per il proseguimento delle trattative”. Aggiungendo – bontà sua – che “Bougainville continua a essere una lezione, un avvertimento, un promemoria di ciò che non si deve fare nello sviluppo del settore delle risorse”.
L’indagine condotta dalla Tetra Tech Coffey, avviata dopo il ricorso del 2020 contro la Rio Tinto (vedi il documento Valutazione sull’impatto dell’eredità della miniera di Panguna), era stata finanziata dalla stessa azienda (che però contemporaneamente si rifiutava di versare un risarcimento alla popolazione).

Disastro ambientale

Oltre a confermare “la presenza di sostanze chimiche tossiche in vecchi serbatoi di stoccaggio, in container di spedizione, in un impianto di trattamento delle acque reflue e in alcuni campioni di terreno”, si rilevava che “le inondazioni provocate dalla miniera hanno avuto un impatto sulla coltivazione di terreni agricoli, sull’accesso all’acqua e ai servizi essenziali”. Quanto alla qualità dell’acqua del fiume Kawerong-Jaba, lungo cui vivono circa 12-14mila persone, sarebbe “migliorata nel corso degli anni”. Tuttavia diverse sorgenti rimangono “nocive a causa della contaminazione da metalli”. Mi ripeto: a 30 anni dalla chiusura delle miniera…
In agosto veniva firmato un memorandum d’intesa tra la Rio Tinto, la Bougainville Copper Limited e il governo locale per il ripristino ambientale della città di Panguna. Ma si è poi scoperto che la bonifica prevista non riguarderebbe diverse zone contaminate.
Vecchie storie irrisolte quelle di Bouganville, dicevo. Sia l’apocalisse ambientale dovuta all’estrattivismo, sia le rivolte indigene indipedentiste oggi “deturnate” dagli esponenti politici locali.
Vicende di cui negli anni novanta del secolo scorso quasi non si parlava. Tranne in qualche documento dell’ecologia radicale (come gli articoli su “Terra selvaggia”).
Dai primi sabotaggi contro la realizzazione della devastante miniera di rame a cielo aperto, gli indigeni erano passati alla guerriglia secessionista contro Port Moresby. Su richiesta del governo, le truppe mercenarie di una società privata inglese avrebbero dovuto “bonificare” le foreste dove si nascondevano i ribelli. Fortunatamente, pochi giorni prima dalla spedizione, la società venne incriminata per aver organizzato un golpe in uno stato africano. I mercenari restarono in Gran Bretagna e la miniera rimase inattiva. Almeno fino a ora.
Ma intanto un altro colonialismo era sbarcato in Melanesia per aprire miniere (di nichel e cobalto) e distruggere foreste, minacciando i diritti e la cultura tradizionale degli indigeni. Sulla costa nord orientale di Papua Nuova Guinea veniva insediata una raffineria della Ramu NiCo per la lavorazione del nichel. Il contratto per l’estrazione del minerale era stato siglato nel 2004 dal primo ministro papuano Michael Somare a Pechino. Nel 2007 la società, controllata dal China Metallurgical Group, inviava squadre di operai cinesi nella foresta per costruire strade, impianti di lavorazione, uffici e dormitori per i lavoratori.
Gli abitanti dell’area, una delle regioni più arretrate ma anche più integre della Papua Nuova Guinea, si erano immediatamente ribellati armandosi di fionde e di machete. I pochi autoctoni assunti per lavorare nella miniera parlavano di condizioni indegne di sfruttamento, mentre alcune organizzazioni locali per la difesa dell’ambiente e dei diritti delle comunità indigene denunciavano il sistematico “saccheggio delle nostre risorse naturali da parte dei cinesi”. E, forse non del tutto disinteressatamente (per la serie “da che pulpito vien la predica”), l’australiano Mineral Policy Institute definiva “totalmente infondati” i rassicuranti dati forniti dall’azienda mineraria in merito all’inquinamento da scorie nelle acque della baia di Basamuk.
Nel luglio 2009 anche la miniera di nichel veniva chiusa, ma solo provvisoriamente, per ragioni di sicurezza.
La presenza delle state companies cinesi in Papua Nuova Guinea rientrava e rientra nell’ampio rilancio di investimenti globali che Pechino da tempo va effettuando in Asia, Africa e America Latina. Una presenza gradita a molti governi anche perché non implica particolari richieste nel rispetto dei diritti umani, sindacali e ambientali.

Non solo miniere

Come aveva documentato Parag Khanna (I tre imperi – Nuovi equilibri globali nel XXI secolo) in Cina la conversione di terre arabili in spazi edificabili destinati all’industria ha impresso una forte “spinta verso l’outsourging agricolo e verso la produzione agricola offshore”. Vedi l’Indonesia e le Filippine destinate a diventare una grande “risaia cinese”. Il “secondo anello della strategia di reperimento di risorse” è rappresentato dall’Oceania, in particolare dalla Melanesia, tradizionalmente legata all’Australia.
Nella Papua Nuova Guinea la penetrazione cinese ha causato una drastica accelerazione della deforestazione.
Mantenendo i ritmi di saccheggio attuali la foresta vergine potrebbe scomparire completamente entro il 2030. In cambio delle risorse naturali (minerali, legname, terreni agricoli) il governo cinese fornisce finanziamenti per strade, ferrovie, stadi e palazzi governativi. Gran parte delle infrastrutture vengono però realizzate con mano d’opera cinese. Al seguito degli operai arrivano anche le loro famiglie che aprono bar e negozi di merci cinesi a basso costo, mandando in crisi l’economia locale. Una possibile spiegazione per le rivolte anticinesi scoppiate negli anni scorsi sia in Asia sia in Africa e in Oceania.

Foto del titolo di Giuseppe Russo