Selin Nasi ha intervistato Pipes per la rivista ebraica “Şalom” (pubblicata in Turchia).
Come interpreta la tempistica dei combattimenti tra Hamas e Israele?
Sono molti i fattori che possono aver contribuito alla decisione di Hamas di avviare il conflitto, tra essi si può ipotizzare “il governo di unità nazionale” con Fatah, l’uccisione di tre ragazzi israeliani, problemi economici a Gaza, l’ostilità del governo egiziano nei confronti di Hamas, le vittorie dell’Isis in Iraq, i colloqui del cosiddetto gruppo dei “5+1” con l’Iran.
Il processo di pace mediato dagli Stati Uniti è stato interrotto e poi accantonato. Lei è d’accordo con l’opinione diffusa che in Israele e in Palestina ci sono certi gruppi politici che traggono vantaggio dallo status quo invece di stabilire una pace permanente attraverso reciproci compromessi?
Non conosco nessun ebreo israeliano, a prescindere dalle sue idee politiche, che vuole il prosieguo della guerra. Da parte araba/musulmana c’è una divisione tra chi riconosce Israele come Stato ebraico e chi è determinato a eliminare Israele come Stato ebraico. Credo che il 20 per cento della popolazione araba/musulmana riconosca Israele come Stato ebraico.
Poiché Fatah non è riuscito a impedire gli attacchi di Hamas contro Israele, l’immagine politica che il governo Abbas ha fornito della Palestina – e in particolare di Gaza – è stata considerata problematica da parte dei funzionari israeliani. Finora, l’annuncio di un governo di unità nazionale non è stato gradito. Perché?
Gli israeliani sono profondamente sospettosi di Abbas, Fatah e dell’Autorità palestinese, pertanto essi presumono che un’unione con Hamas significhi che l’Autorità palestinese si diriga verso Hamas, e non il contrario. Condivido questi sospetti.
In che modo le realtà demografiche di Israele, ossia il numero crescente di elementi della destra religiosa ultra-ortodossa che guadagnano terreno politico, hanno un impatto sulla politica estera?
Gli haredim tendono a concentrare la loro attenzione su questioni che li riguardano direttamente – il denaro necessario per l’istruzione e il welfare, le questioni legate all’alimentazione kosher, la separazione dei sessi, l’osservanza dello shabbat – e a prestare poca attenzione alla politica estera. Questa situazione forse un giorno potrebbe cambiare, ma fino ad allora, la politica estera gli interesserà soprattutto per promuovere il loro programma di politica interna.
Possiamo parlare di una polarizzazione politica in Israele tra la sinistra liberal e la destra radicale in merito alle strade alternative al processo di pace, ossia la soluzione dei due Stati/ di uno Stato unico/nuovi insediamenti?
Un recente sondaggio mostra che, sulle questioni di politica estera e quelle relative alla sicurezza, gli ebrei israeliani si dividono in tal modo: il 62 per cento a destra, il 22 per cento al centro e il 12 per cento a sinistra. Questo vantaggio della destra sulla sinistra (5 a 1) sta a indicare che al momento non esiste alcuna polarizzazione. Il paese è d’accordo sull’obiettivo (una Gaza demilitarizzata) e discute solo i metodi.
Da un lato, c’è il diritto di Israele all’autodifesa. Dall’altro lato, le notizie giornalistiche diffuse su un aumento del numero di vittime a Gaza minano le giustificazioni morali di Israele all’operazione militare. Come si può superare questo dilemma?
Finché Hamas continuerà a utilizzare i civili palestinesi per proteggere i propri impianti militari (a differenza di Israele che fa il contrario), i civili di Gaza continueranno a essere vittime. Se ciò va combinato al fatto che Hamas non solo ha avviato il conflitto ma si rifiuta anche di porvi fine (continuando a lanciare razzi su Israele), è chiaro che Hamas è l’aggressore.
Come interpreta le proteste contro Israele negli Stati Uniti e in Europa? Queste proteste mirano soprattutto a condannare le politiche di Israele o sono anche legate a un crescente antisemitismo? Oppure si può dire che implicano entrambe le questioni?
Col passare del tempo, le manifestazioni di protesta anti-Israele mostrano sempre più degli elementi antisemiti. Si noti, tuttavia, la relativa assenza di proteste del genere nei paesi a maggioranza musulmana, un fatto di grande importanza.
Lei pensa che un appropriato cessate-il-fuoco sia possibile in un futuro prossimo? Se sì, la Turchia potrebbe avere un ruolo di mediatore?
Quando Hamas ne avrà avuto abbastanza (ossia quando i suoi leader decideranno che le sofferenze supereranno i vantaggi di una guerra continua), arriverà un cessate-il-fuoco…
Un certo numero di tentativi di cessate-il-fuoco di breve durata sono stati mediati da vari paesi come gli Stati Uniti, Egitto, Qatar e Turchia; perché sono falliti? La strategia giusta era imporre un accordo di pace più ampio? Il problema era legato ai negoziatori o cosa?
Sono falliti per diversi motivi. Il governo del Qatar ha esercitato pressioni su Hamas affinché esso non accettasse la proposta egiziana. Gli israeliani hanno considerato la proposta turco-qatariana fin troppo favorevole a Hamas.
Quale era l’obiettivo ultimo dell’operazione “Protective Edge”? La missione è stata compiuta? E in che modo?
L’obiettivo di Israele è porre fine alla minaccia proveniente da Gaza. Quest’obiettivo non è stato ancora raggiunto, anche temporaneamente. C’è molta frustrazione in Israele a riguardo.
Nella regione – come mostrano i casi della Siria e dell’Iraq – i gruppi jihadisti tendono a riempire un vuoto politico laddove c’è un apparato statale fallito. Se Israele immobilizzasse Hamas chi assumerebbe il potere politico a Gaza? Fatah? La Jihad islamica? C’è il rischio che attecchisca l’appoggio allo Stato islamico?
Lo stesso Hamas è un gruppo jihadista, pertanto l’assunzione del potere è già avvenuta a Gaza. Se un gruppo ancor più radicale, come l’Isis (o come la Jihad islamica palestinese), dovesse rimpiazzarlo, beh, cambierebbe poco. Quale sarebbe la soluzione? Che il governo egiziano tornasse a governare Gaza, come fece dal 1949 al 1967. Anche se il governo Sisi non è molto disposto ad assumersi la responsabilità di Gaza, è però anche preoccupato del fatto che i Fratelli musulmani abbiano lì una base per lanciare degli attacchi all’Egitto; quindi, sì, esso potrebbe accettare di compiere questo passo.
Vuol dire qualcosa a proposito dell’ultimo cessate-il-fuoco?
Il cessate-il-fuoco che è entrato in vigore oggi, 26 agosto, assomiglia a quello del 15 luglio, che è stato accettato da Israele ma rifiutato da Hamas, il che significa che questo accordo rappresenta un vantaggio israeliano. Ma poiché si tratta del dodicesimo cessate-il-fuoco in cinquanta giorni, esso potrebbe non tenere, soprattutto perché si vocifera che il governo del Qatar non vuole che Hamas ponga fine al conflitto; del resto, è il Qatar che paga i conti, pertanto, ha una certa influenza a Gaza. In breve, si tratta di una buona notizia ma occorre essere preparati ad affrontare un’altra delusione.
27 agosto 2014 – www.danielpipes.org
Traduzione di Angelita La Spada