In genere, quando si ricostruisce il periodo decisivo per la fuoriuscita dall’apartheid (fine anni ottanta, primi novanta del secolo scorso) viene privilegiato il ruolo dell’African National Congress (ANC). Giustamente, da un certo punto di vista, se valutiamo il “peso specifico” di tale organizzazione, la sua importanza e il ruolo decisivo di personaggi come Nelson Mandela.
Tuttavia non va dimenticato che anche altre organizzazioni dei neri sudafricani operarono attivamente, pagando un prezzo non indifferente in termini di uccisioni, detenzioni, torture e sparizioni.
Tra queste spicca sicuramente il Pan African Congress (PAC).
Per quanto mi riguarda, avendo conosciuto negli anni ottanta e novanta sia molti militanti dell’ANC sia qualcuno del PAC, mi era capitato talvolta di trovarmi in imbarazzo cogliendone le reciproche diffidenze e ostilità. Per dirne una, nel 1987 un esponente del PAC – Philips Mokgadi, rifugiato politico in Germania dopo essere sfuggito alle forche boere – mi aveva chiesto di organizzare un incontro con Benny Nato, all’epoca rappresentante dell’ANC in Italia, per uno scambio di vedute.
L’incontro doveva avvenire in “territorio neutrale”, nella redazione di “Nigrizia” a Verona, dove gli amici comboniani si mostrarono ben disposti a ospitare entrambi, ma incontrai il netto rifiuto di Benny (peraltro una persona di cui ho avuto modo di apprezzare in varie circostanze la grande umanità) il quale obiettò: “Non abbiamo nulla da dirci”. La cosa finì lì con mio grande dispiacere (dato che, almeno in politica, tendo all’ecumenismo).
In un’altra occasione rimasi ugualmente spiazzato, ma stavolta a causa del PAC:
In un articolo avevo dato per scontata la partecipazione del PAC (e degli africanisti in genere) alla “Conferenza per un nuovo Sudafrica” riunitasi nel dicembre 1991. Venni clamorosamente smentito in quanto il PAC si autoescluse dai colloqui (paradossalmente fece lo stesso il Partito Conservatore, ma per ragioni opposte).
Tale scelta degli africanisti venne poi tacciata di “radicalismo estremista” e peggio. In realtà, giusta o sbagliata che fosse (con il senno di poi forse sbagliata), era comunque coerente con la storia politica dell’organizzazione. La diffidenza mostrata in varie occasioni dagli africanisti si giustificava anche per alcuni episodi di cronaca dell’epoca. In particolare lo stillicidio di esecuzioni sommarie (opera di squadroni della morte) contro militanti del PAC e la serie non indifferente di misteriosi incidenti in cui vari leader africanisti avevano perso la vita. “Incidenti” in cui si intravedeva la longa manus dei Servizi.
Risaliva al maggio 1990 il ricovero in ospedale in gravissime condizioni, dopo un incidente stradale, di Benny Alexander, segretario generale del PAC, e di Cassim Christian, leader del gruppo radicale QIBLA. Poco tempo prima, sempre in un incidente le cui dinamiche evocavano l’attentato, era morto uno dei maggiori dirigenti africanisti: Jaffa Masemola. E, in contemporanea, veniva assassinato Sam Chand, altro leader del PAC. Passava solo qualche giorno e anche il fratello, Ishmael Chand, perdeva la vita in un incidente stradale proprio mentre si recava al funerale di Sam.
Anche in questa circostanza a tutto si poteva pensare tranne che alla “tragica fatalità”. A ulteriore conferma, Ishmael, inizialmente sopravvissuto all’incidente, era stato lasciato senza soccorsi per lungo tempo. L’autoambulanza era giunta soltanto dopo che era già spirato.
Successivamente vi furono diverse esecuzioni sommarie e improvvise “scomparse” di militanti di base.
Senza dimenticare che gli africanisti in genere – e il PAC in particolare – erano stati spesso vittime sia di infiltrazioni che di provocazioni.
Tra quelli meglio documentati, un episodio risalente al 1985, nel pieno della fase più aspra della lotta antiapartheid, quando gruppi di persone con magliette dell’UDF (United Democratic Front) assalirono in varie occasioni militanti e sedi dell’AZAPO (Azanian People’s Organization). Prima che gli africanisti cominciassero a reagire, magari armi alla mano, intervenne per stabilire una temporanea “tregua” il vescovo Desmond Tutu. Vennero svolte indagini e si scoprì che in realtà si trattava di poliziotti travestiti. Una provocazione per innescare faide interne al movimento di liberazione e indebolirlo.
Con precedenti del genere era ovvio che alcuni gruppi di neri radicali nutrissero ben poca fiducia nel governo sudafricano e diffidassero della sua tardiva buona volontà.
Del resto quelli del PAC le idee chiare su come gira il mondo le avevano da un pezzo. Perlomeno dal tragico 21 marzo 1960 di Sharpeville. Quel giorno la polizia sudafricana fucilò (letteralmente: quasi tutti vennero colpiti alla schiena mentre scappavano) una settantina di proletari sudafricani che partecipavano a una manifestazione pacifica contro i famigerati lasciapassare, i Pass. Appena un mese dopo, il PAC entrava in clandestinità dotandosi di un’organizzazione militare parallela: POGO, “noi stessi” (“Sinn Fein”, se mi passate il riferimento sentimentale).
Il PAC era sorto tra la fine del 1958 e l’inizio del 1959 da una scissione dell’ANC. I fondatori si mostravano diffidenti nei confronti della cooperazione multirazziale e in polemica con il Partito Comunista sudafricano. Si dichiararono pan-africanisti e – già da allora – disponibili alla lotta armata.
“Da questo punto di vista”, mi aveva detto nel 1987 Philips Mokgadi (rifugiato in Europa con una condanna a morte pendente sul capo), “siamo stati dei precursori”.
Quanto a Sharpeville, al significato di quella memorabile giornata di sangue,
il 21 marzo 1960, nella storia della lotta di liberazione, segnò un punto di svolta strategica. In quel giorno per la prima volta il PAC sfidò non solo le leggi sul “Pass”, ma tutto il sistema bianco. Sharpeville confermò la colpevole indifferenza del mondo occidentale per i neri del Sudafrica e dimostrò che la lotta non poteva continuare con i soli mezzi pacifici. La nostra organizzazione è nata dalla convinzione che il sistema segregazionista non si poteva riformare ma soltanto abbattere.
Dal 1985 il 21 marzo viene ricordato anche per un altro massacro. Quel giorno infatti la polizia sudafricana aveva “celebrato” a modo suo il venticinquesimo di Sharpeville. A Langa (Uitenhage-Porth Elizabeth) aprì il fuoco usando fucili da caccia grossa su un corteo funebre composto prevalentemente da donne e bambini. I morti furono una ventina e andarono ad allungare la lista di quelli, almeno altrettanti, uccisi nel corso della settimana (definita dai media locali di “ordinaria amministrazione”).