Oggi vi racconto una storia, ma spero vivamente che il mio racconto sia sbagliato. Sì, spero di sbagliarmi, e che le cose non siano andate come le ho ricostruite io. Perché se fossero andate come sembra a me, o anche solo più o meno così, dovremmo essere tutti molto preoccupati, ancora di più di quanto già siamo. E, forse, dovremmo chiedere che qualche politico faccia un passo indietro, o almeno ci chieda scusa.
Ed ecco la storia. 31 gennaio: appena appreso che due turisti cinesi sono positivi al Coronavirus, il Governo dichiara lo stato di emergenza fino al 31 luglio, e con ciò si auto-attribuisce poteri speciali; possiamo presumere che, almeno da quel momento, il Governo stesso sia consapevole della gravità della situazione. In realtà avrebbe potuto (e forse dovuto) esserlo già molto prima.
In una serie di articoli pubblicati fra l’8 gennaio e la fine del mese, il sito di Roberto Burioni (Medicai Facts) aveva fornito tre informazioni cruciali: una parte non trascurabile degli infetti è asintomatica ma può ugualmente trasmettere il virus; il controllo della temperatura negli aeroporti è una misura insufficiente; l’esperienza cinese suggerisce che è difficile fermare l’epidemia se non si intercettano almeno due terzi degli infetti.
21 febbraio: scoppiano i due focolai di Codogno (Lombardia) e Vo’ Euganeo (Veneto), si aggrava la situazione in Cina; Giorgia Meloni chiede la quarantena per chi viene dalla Cina o da altre zone ad alto rischio; anche Walter Ricciardi, nostro rappresentante nell’Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms), critica il governo per essersi limitato a bloccare i voli diretti con la Cina, ignorando il problema dei voli indiretti; ma il governo liquida la proposta della Meloni come “allarmismo” ingiustificato, e quanto alle critiche di Ricciardi se la cava nominandolo consulente del ministro della Salute.
21-28 febbraio: mentre Roberto Burioni consiglia i tamponi anche a chi ha solo 37.5 gradi di febbre, parte l’offensiva del Governo contro i tamponi, che culmina con un’intervista a Walter Ricciardi in cui viene aspramente criticata la linea dei tamponi di massa adottata dal Veneto, contraria alle direttive mondiali ed europee, volte a minimizzare il numero di tamponi; contemporaneamente, in barba allo “stato di emergenza” dichiarato un mese prima, parte la compagna politico-mediatica per “riaprire Milano” e far ripartire l’economia.
28 febbraio: mentre l’epidemia dilaga, il ministro degli Esteri Luigi Di Maio minimizza la gravità della situazione, dichiarando che “in Italia si può venire tranquillamente” e che i comuni convolti sono solo 10 su 8000: la linea del Governo è minimizzare i tamponi per non scoraggiare il turismo.
5 marzo: il professor Andrea Crisanti, che sta conducendo un fondamentale studio epidemiologico sul comune di Vo’, congettura che il peso degli asintomatici possa superare il 30% (intervista rilasciata ad Alessandra Ricciardi su “ItaliaOggi”); circa una settimana dopo, a conclusione della seconda rilevazione a Vo’, la congettura diventa certezza; il peso degli asintomatici è dell’ordine del 75%; e poiché gli asintomatici possono trasmettere il virus, diventa chiaro a tutti che il vero problema è individuarne il maggior numero possibile.
10-16 marzo: a seguito dell’indagine di Vo’, nel mondo scientifico si rafforzano le posizioni di quanti, diversamente dal nostro governo e dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, ritengono che minimizzare il numero di tamponi sia stato un grave errore, e che – per quanto tardivamente – il numero di tamponi vada aumentato sia rendendo meno restrittivi i criteri per effettuare i tamponi, sia effettuando tamponi a tappeto alle categorie più a rischio (dai medici ai poliziotti, dagli edicolanti alle cassiere).
16-17 marzo: spettacolare giravolta dell’Organizzazione Mondiale della Sanità che, per bocca del suo Direttore, ora invita a massimizzare il numero di test (“il nostro messaggio chiave è: test, test, test”), dopo settimane in cui li aveva scoraggiati in tutti i modi; anche il nostro rappresentante presso l’Oms, che 4 settimane prima aveva aspramente criticato le Regioni che volevano fare più test, aderisce istantaneamente alla giravolta dell’Oms, retwittando il messaggio “test, test, test”.
17-25 marzo: nel frattempo l’epidemia è esplosa in tutto l’Occidente, e ogni stato tenta di approvvigionarsi come può di materiale sanitario, compresi tamponi e reagenti per i test; il materiale per i test comincia a scarseggiare, ma i nostri governanti non sembrano avere fatto 2+2, ovvero: se l’OMS ingiunge di fare più test, e l’epidemia sta partendo in tutto il mondo, è inevitabile che vi sia una corsa di tutti a procurarsi il necessario, ed è ovvio che occorra immediatamente aprire una campagna di approvvigionamento sui mercati internazionali, specie per quei materiali che è più difficile produrre in patria (in particolare i reagenti, che servono per analizzare i campioni prelevati con i tamponi).
26-28 marzo: puntualmente accade quel che era logico aspettarsi; ovvero, proprio ora che il Governo si è convinto a non ostacolare le Regioni che vogliono fare più test, si scopre che scarseggiano i materiali per effettuarli, anche perché altri se li sono procurati prima di noi.
Ho seguito nei giorni scorsi quel che sta succedendo nelle varie Regioni, e il quadro è sconsolante. Tutte, o quasi tutte, vorrebbero moltiplicare i test per proteggere le persone più esposte e per individuare il maggior numero possibile di asintomatici, ma né la Protezione Civile né altri organismi dello Stato sono in grado di assicurare quel che serve. Soffre il Veneto, che vorrebbe fare 10 mila tamponi al giorno e riesce a farne solo 4000. Ma soffrono anche diverse altre regioni, come la Toscana e la Puglia.
A due mesi esatti dalla dichiarazione dello stato di emergenza, succede che il numero di tamponi che siamo in condizione di effettuare non solo sia del tutto inadeguato a scovare gli asintomatici, che sono il veicolo principale del contagio, ma non basti neppure ad assicurare i test per il personale sanitario. Nel frattempo, anche – se non soprattutto – per la mancanza di tutto ciò che servirebbe per proteggerli (dalle mascherine ai tamponi) i morti fra i medici sono più di 50, mentre ancora si attende di conoscere il numero delle vittime fra infermieri, operatori del 118, personale sanitario in genere. E non mi vengano a tirare in ballo i tagli alla sanità dell’ultimo decennio, perché chiunque abbia un’idea delle cifre in gioco sa benissimo che la mancanza di dispositivi di protezione individuale dei medici è una goccia nel mare magnum dei costi della sanità, e che per non trovarci nella condizione di oggi sarebbe stato sufficiente provvedere in tempo, quando si è capito che l’epidemia sarebbe arrivata (fine gennaio) e gli ospedali non erano al collasso.
Che dire? Nulla, per parte mia. Mi limito e riportare le parole di uno dei pochi veri esperti italiani di epidemie, incredibilmente ignorato dal governo centrale (ma tempestivamente reclutato dal governatore del Veneto), il professor Andrea Crisanti, l’ideatore dell’indagine su Vo’: “Abbiamo voluto difendere il Paese dei balocchi e l’economia anche di fronte alla morte. Questo è un fallimento della classe dirigente del Paese”.
Luca Ricolfi, “Il Messaggero”.