Un’emozionante avventura di caccia con i Lapponi nel campo norvegese dì Skaidi.
Di renne capita di incontrarne una ogni tanto, a chi viaggia nel Nord. La mia prima renna la vidi dai finestrini di un treno che da Kiruna andava a Jokkmokk, al Circolo Polare Artico, nella Svezia settentrionale. Fu una breve apparizione, sbucata per incanto dalla foresta e scomparsa con la rapidità con cui passano le immagini ai finestrini di un treno. Ma fu sufficiente a farmi esultare di emozione, e a farmi sentire che gli interminabili chilometri di foresta che da qualche ora scorrevano davanti ai miei occhi, erano animati dalla presenza misteriosa delle renne.
Misteriosa, come è sempre misterioso l’animale selvatico, che di sé ci concede soltanto una immagine breve, quanto basta per accendere la fantasia e per fare insorgere prepotente in noi il desiderio di inseguirlo, di possederlo. È per questo che l’uomo continua a sentire la caccia come un istinto, anche quando non è più necessità di sopravvivenza. E anch’io non mi accontentai di questa apparizione fugace della renna vista dal treno. Con le renne avevo un vecchio conto in sospeso: l’idea di andare a caccia di renne assieme ai Lapponi mi aveva sempre accompagnato sin dai miei primi progetti di viaggio in Scandinavia, ma si era dimostrata non facile da realizzare.
Anche i Lapponi, come le renne loro complici, non concedono molto di sé. Li si incontra (in Svezia, in Norvegia, in Finlandia) quando vengono ai villaggi a fare i loro commerci, a vendere i prodotti della loro vita nomade di cacciatori-pastori, e a comprare in cambio le poche cose della civiltà industriale che a loro servono: fucili, cartucce, binocoli, qualche utensile di acciaio, sale, tabacco, caffè e, se avanza qualche corona, suprema lussuria: una bottiglia di acquavite. Le corone le hanno guadagnate vendendo pelli di lupo, di volpe, occasionalmente qualche pelle di orso bruno; ma soprattutto vendendo pelli di renna, carne fresca di renna (che è buonissima da mangiare), e oggetti artigianali fatti con osso e corno di renna. I Lapponi, dicevo, li si incontra nei villaggi, ed è possibile qualche scambio con loro: fotografarli, contrattare l’acquisto di un pugnaletto o di un altro dei loro oggetti artigianali, offrire loro una sigaretta e fare quattro chiacchiere a gesti.
Ma quanto a penetrare nel loro mondo, a seguirli nella loro vita di nomadi, è un altro discorso. Anche perché i loro accampamenti -che siano campi mobili fatti di tende, o quartieri fissi fatti di capanne di legno – si trovano sempre fuori mano, lontani dalle strade, in mezzo alla tundra o alla foresta. Fu solo al mio secondo viaggio in Scandinavia che mi capitò l’occasione fortunata di saldare il mio vecchio conto con le renne; occasione di vedere e di inseguire assieme ai Lapponi immensi branchi di renne, di saziarmene gli occhi, di respirare l’acre odore di selvatico nel polverone sollevato dal branco. E infine, di lavorare assieme ai Lapponi a squartare le renne uccise, a scuoiarle, a stendere le pelli fresche sul muschio della tundra ad asciugare al pallido sole del Circolo Polare; a raccoglierne il sangue ancora caldo entro rudimentali otri fatti con le budella. Raggiungere il campo lappone di Skaidi (siamo in Norvegia, ai confini con la Finlandia, nella regione di Kautokeino, qualche centinaio di chilometri a nord del Circolo Polare) non fu una cosa facile; fu necessaria una lunga marcia a piedi con lo zaino in spalla, attraverso la tundra, con la guida di un amico finlandese. E una volta raggiunto il campo, essere accettato dai Lapponi fu ancora più difficile.
Cacciatori o pastori?
Alla fine, però, riuscii a guadagnarmi la stima e l’amicizia del cacciatore lappone Johan Mathis Tira e del suo socio Per Person Sara, e fui invitato ad andare con loro ad una grande battuta alle renne prevista proprio per quei giorni. Quando (nella nostra difficile conversazione fatta di brandelli di tedesco, di norvegese, di finlandese) riuscii ad afferrare chiaramente il concetto “Domani si parte per la battuta alle renne. Vieni pure anche tu” mi sentii il cuore in gola dalla emozione; fu un momento di quelli che non si dimenticano facilmente. Battuta, ho detto. Ma chiamarla caccia non sarebbe esatto. Se il Lappone si debba definire cacciatore o pastore è difficile dire; è l’una e l’altra cosa assieme. Le renne vivono brade, libere, nei boschi o nelle immense distese della tundra nutrendosi del loro cibo preferito, il lichene, che cresce abbondante in quelle regioni. Catturate da piccole, si lasciano addomesticare abbastanza facilmente, e divengono fedeli compagne del Lappone, animali da latte o da traino da attaccare alle slitte; ma di renne addomesticate ne bastano poche, e tutte le altre vivono selvatiche. Eppure la renna, anche se libera abitatrice della tundra e del bosco, non è considerata selvaggina dai Lapponi, non è “res nullius”, non libera preda di chi riesca a catturarla o ad ucciderla. I Lapponi sulle renne ci vivono da quando esistono e, per una coesistenza pacifica tra cacciatori rivali, hanno elaborato un loro codice non scritto per cui ogni branco ha un suo padrone, ogni famiglia ha il suo branco. All’incirca come doveva essere una volta fra gli Indiani d’America per i bisonti. I branchi di renne migrano ogni anno, al variare delle stagioni, alla ricerca di terreni su cui trovare lichene fresco, in attesa che il lichene ricresca dove è già stato brucato. Migrano per centinaia di chilometri, spostandosi insensibilmente, un po’ per volta, qualche chilometro ogni giorno; e i Lapponi migrano con loro, seguono le renne da lontano, tenendole d’occhio; quando le renne si sono mosse di qualche decina di chilometri, i Lapponi spiantano le tende e le ripiantano più in là. Spesso questi itinerari incontrano le frontiere di Svezia, Finlandia e Norvegia, i tre paesi tra i quali è politicamente suddivisa la Lapponia, ma i Lapponi godono dell’antico privilegio di attraversarle liberamente, senza formalità; non esistono dogane né passaporti per le renne e per i cacciatori di renne. Quando al termine della migrazione le renne si soffermano per qualche mese sul nuovo terreno di pascolo, i Lapponi -che generalmente dispongono in loco di accampamenti fissi, piccoli villaggi di capanne di legno – organizzano una grande battuta che serve per “fare l’inventario” dei branchi: per contare gli animali, per stabilire la proprietà dei nuovi nati e marchiarli, per abbattere un certo numero di capi. Parlare di branchi non significa che le renne vivano imbrancate. Stanno sparse, ognuna per conto proprio, su territori estesissimi delimitati da invisibili confini che solo i Lapponi conoscono. Una tribù lappone sa benissimo quale e quanto grande sia il territorio su cui stanno sparse le proprie renne; e la battuta si inizia proprio con il delimitarlo, questo territorio, e con il recingerlo tutto con una catena di battitori, uomini e cani che si spostano lungo la linea prefissata piano piano, facendo il minimo scompiglio, sino a che il primo uomo della fila ha stabilito il contatto con l’ultimo uomo in coda, ossia finché l’accerchiamento è completato. La linea di accerchiamento (vien fatto di chiamarla il fronte di guerra) è lunga chilometri e chilometri, ed occorre moltissimo tempo, talvolta sino a un giorno o due, prima che la distribuzione dei battitori sia completata. Mentre alcuni uomini marciano silenziosi per raggiungere le loro posizioni, gli altri, quelli che si sono già attestati sulle proprie, attendono pazientemente, tenendo i cani legati e accendendo un focherello con gli sterpi, la torba, o il muschio secco di cui è ricca la tundra. Di notte, non viene mai buio, se è estate: continua per ore il lungo crepuscolo della notte polare, il sole accenna sempre a tramontare senza scomparire mai, o scomparendo per breve tempo e lasciando il cielo ancora acceso di riflessi dorati. Tutto attorno si stendono ondulazioni sconfinate di colline brulle, simili alle onde del mare o alle dune del deserto; e accanto al focherello i Lapponi siedono calmi e pazienti fumando la pipa, facendo cuocere il pentolino del caffè e scambiandosi ogni tanto qualche parca parola. (E anch’io, con loro). Quando tutti hanno raggiunto le loro posizioni, quando il cerchio è chiuso, corre una parola d’ordine lungo la linea. Si intrecciano, riecheggiano, si rilanciano le grida da collina a collina, si liberano i cani, e si inizia un lento e inesorabile movimento di rastrellamento. Il cerchio adagio adagio comincia a stringersi. Le renne dapprima non ci fanno caso. Quando sentono uomini e cani che si avvicinano, si allontanano e vanno a brucare un po’ più in là. Ma via via che il rastrellamento avanza, le renne si ritrovano sempre meno isolate, il gruppetto si fa piccolo branco, come l’acqua dai ghiacciai si fa rivolo, ruscello, torrente. E arriva il momento che i piccoli branchi si sono incontrati l’uno con l’altro, le renne si stanno agitando e spaventando, hanno formato un unico grande branco, centinaia e centinaia di animali che fuggono terrorizzati muggendo, correndo attraverso le colline incalzate dai cani e dai cacciatori che ormai le tengono sotto controllo, le conducono dove vogliono loro, verso la valle dove è disposta la grande trappola. Questa è una staccionata, un recinto predisposto opportunamente in modo che le renne, incanalandosi entro una valle ad imbuto, vi finiscano dentro quasi senza accorgersene, entrando dal lato in cui la staccionata è stata lasciata aperta. Quando sono entrate tutte (erano circa un migliaio quella della “mia” battuta) il recinto viene chiuso dai cacciatori e le renne rimangono dentro, prigioniere in questo gran Campo di Marte dove, non sapendo da che parte dirigersi nella loro fuga, finiscono per prendere un movimento rotatorio come quello dell’acqua che venga agitata entro un catino; un immenso carosello mugghiante e rombante, una marea di palchi di corna che si agita e freme, un gran scalpitare di migliaia di zoccoli galoppanti che sollevano una nuvola irrespirabile di polvere e di peli. A questo punto, chiuso il recinto, i battitori si riposano un po’, seduti a cavalcioni sulla staccionata, osservando il gran carosello e preparandosi ad iniziare la seconda parte del lavoro. È questo il momento più importante nel loro anno di vita con le renne, dietro alle renne, come il momento del raccolto per l’agricoltore. È il momento in cui il Lappone da cacciatore diviene pastore, mandriano; il momento di contare il branco, di constatare quanti e quali sono i nuovi nati, di stabilirne la proprietà: il piccolo corre appresso alla madre, e poiché ognuno riconosce le sue renne adulte, così resta stabilito a chi appartiene il nuovo nato, e lo si marchia incidendogli nell’orecchio con la punta del coltello il marchio di proprietà. Che è un segno ben preciso, e ogni famiglia ha il suo. Ed è questo anche il momento di sfoltire il branco, di abbattere tanti capi quanti ci si può permettere rimanendo entro i limiti di economia della specie. Si abbatte un certo numero di giovani che danno la carne più tenera e la pelliccia più morbida, da vendere a buon prezzo sui mercati dei villaggi svedesi o norvegesi; ma si cerca soprattutto di abbattere i maschi anziani in modo che l’economia del branco ne risenta il meno possibile, che non venga intaccato il patrimonio venatorio su cui la tribù ha vissuto da sempre.
I cow-boys della tundra
I Lapponi hanno ottimi fucili a canna rigata, Mauser, o Skoda, o Winchester, e li sanno usare molto bene. Ma non è con il fucile che si abbattono le renne nel “corral”. Il fucile è buono per il lupo, la volpe, la lince, quando si incontrano; nel corral, le renne si catturano col laccio, lo stesso identico laccio dei cow-boys americani, che i Lapponi sanno manovrare con estrema abilità. Si addocchia in mezzo al branco la renna che interessa, si cerca di avvicinarla il più possibile camminando a passi lunghi ma senza fare movimenti bruschi che la mettano in allarme e, avanzando, si tiene sempre il laccio pronto nella mano destra facendolo ruotare in un bel cerchio perfetto. Quando la renna è a tiro, si lancia; ma è difficile azzeccare al primo colpo. Occorre ritentare due, tre, quattro volte, finché il colpo va a segno, il laccio si impiglia nelle corna, la corda guizza veloce entro il nodo scorsoio e si serra saldamente sulla testa dell’animale. Quando la corda è tesa, il Lappone comincia a tirare e ad avvicinarsi. La renna punta gli zoccoli in terra e resiste, ma la distanza uomo-renna si accorcia rapidamente finché l’uomo è sopra all’animale e lo afferra per le corna. Se la renna è adulta, occorrono buoni muscoli; c’è da lottare con forza per poterle piegare la testa e immobilizzarla, e spesso bisogna essere in due o anche in tre a tenerla ferma. Se è uno dei nuovi nati, si tratta solo di marchiargli l’orecchio: la punta del coltello traccia il suo segno rapido e preciso, e poi la bestia è libera, e torna spaventata e sanguinante a cercare la madre in mezzo al branco. Se è invece un animale da abbattere, occorre rovesciargli la testa completamente in modo che il collo, nel punto in cui si innesta nel petto, si offra libero e aperto alla lama del coltello, che prima vi si appoggia cercando il punto giusto e poi penetra silenziosa e scende giù giù a cercare il cuore. La renna, con la testa rovesciata, non può dibattersi, non può emettere nemmeno un muggito. Solo i suoi occhi gridano il terrore, e rimangono spalancati con le pupille dilatate sino al momento in cui la morte li fa appannare e rimanere vitrei, mentre il sangue sgorga copioso dalla vena giugulare recisa. Tutto attorno, il branco continua il suo folle carosello mugghiante, galoppando rasente alla staccionata. Il polverone acre penetra ovunque; occhi e naso dei cacciatori sono solleticati dalla miriade di peluzzi di pelo di renna che turbinano nell’aria assieme al pulviscolo. Quando la giornata giunge al suo mezzo, fa caldo e si suda, perché anche al Circolo Polare l’estate sa essere calda e generosa; e i pesanti giubboni di panno dei Lapponi diventano di troppo, e c’è chi li butta restando a torso nudo, e rivelando una pelle bianca da uomini abituati a vivere al freddo. Ma il lavoro è lungo, e occorre continuare per una giornata intera fino a che tutti i nuovi nati sono stati marchiati, tutto il branco è controllato e censito, tutte le vittime condannate a morte sono state abbattute. Per le altre, per il grosso del branco, il carosello del terrore è giunto alla fine. La staccionata viene aperta e la fiumana di renne si rovescia fuori, si lancia correndo entro la valle, rimonta l’imbuto, raggiunge le colline, si disperde correndo attraverso la tundra sino a raggiungere i pascoli abituali o, più lontano, la foresta. In pochi minuti il corral è vuoto. Rimane solo nell’aria l’odor di selvatico assieme ai peluzzi flottanti; non c’è più il muggito che ci ha assordato le orecchie per l’intera giornata; delle centinaia e centinaia di renne rimangono solo le venti o trenta che sono state uccise, allineate in un lato del campo presso la staccionata. E il momento di rimboccarsi le maniche e di affondare le mani nel sangue a sventrare, scuoiare, squartare. Ma giunge anche il momento del riposo, del meritato banchetto attorno al fuoco di sterpi; e allora, finalmente, si fanno arrostire sul fuoco gli ossi di renna sin quasi a bruciarli, per cuocere bene il midollo che sta dentro. Gli ossi si spaccano longitudinalmente, assestando un colpo secco e preciso con il coltello a lama larga che è l’inseparabile compagno del Lappone, e il midollo si mangia come carne prelibata; mentre i cani fanno anche loro il loro banchetto, con le interiora. È già sera quando si inizia la marcia di ritorno. Si cammina silenziosamente sul tappeto soffice della tundra, portando in spalla le renne squartate, le pelli, le corde, gli zaini, i fucili. È l’inizio del lungo tramonto della giornata polare, della lenta discesa del sole che indugia pigro sull’orizzonte senza mai decidersi a tramontare; mentre dagli acquitrini che impregnano la tundra comincia il ronzio di miriadi di zanzare.
La renna, scheda anagrafica
— Nome sistematico: RANGIFER TARANDUS.
— Famiglia: CERVIDI.
— In inglese: REINDEER; in francese: RENNE.
— In lingua lappone: PORO.
— Dimensioni normali: 2 m di lunghezza. 1-1,40 m altezza al garrese.
— Corna: ramificate, presenti sia nel maschio che nella femmina; caduche; ricoperte di pelo nella stagione invernale.
— Mantello: grigio bruno, folto ed ispido, ornato sul collo di una ricca criniera.
— Cibo abituale: lichene e muschio.
Nota
Di questa breve fortunata esperienza sono debitore ai miei amici Johan Mathis Tira, Per Person Sara, Aslak Iversen Sara e a tutti gli altri cacciatori Lapponi.
«Homines silvestres et vagos vulgariter dictos Lappa…»,
li chiamavano i viaggiatori- geografi dell’antichità. Per breve tempo sono stato anch’io Lappone onorario; e ne sono molto fiero.