Come denunciavano da anni alcuni movimenti sociali (in particolare quelli sorti in America Latina durante i conflitti contro le miniere a cielo aperto e altri devastanti progetti industriali e militari) anche la focsiv (federazione degli organismi di volontariato internazionale di ispirazione cristiana) ora identifica l’estrattivismo minerario, associato a quello agroindustriale, come “il principale responsabile dell’assassinio di attiviste e attivisti che lottano per la preservazione dell’ambiente, dell’acqua e della terra in tutto il mondo”.
Ulteriore conferma dai dati diffusi dall’associazione internazionale Global Witness.
La sempre più diffusa applicazione di quello che viene definito “un modello socio-economico basato sulla rifunzionalizzazione dei territori a favore dell’estrazione intensiva o estensiva di una specifica risorsa, allo scopo di commercializzarla nei mercati globalizzati”, ossia l’estrattivismo, implica che natura e società siano intese come due entità separate. Consentendo alla società (anche se forse si dovrebbe parlare di una frazione della società stessa, quella che comanda) di “trattare la natura come qualcosa da dominare e controllare, anziché riconoscere la stretta interdipendenza”.
Ma appunto la lotta all’estrattivismo non è una prerogativa esclusiva dell’America Latina. Pensiamo alla resistenza degli indigeni dell’India (adivasi) o a quella dei curdi del Bakur, il Kurdistan turco.
Infatti ci risiamo.
Da una dozzina di giorni una nuova strada è in costruzione sull’alta montagna Hasandin (distretto di Kulp nella provincia curda di Diyarbakir). Strada che verrà utilizzata, oltre che per un avamposto militare, per l’estrazione mineraria da parte dell’impresa Kulp Madencilik, con i prevedibili danni ambientali.
L’anno scorso alcuni tentativi di perforazione erano stati bloccati dagli abitanti dei villaggi e dalle comunità nomadi presenti nella regione (già penalizzati dalla diga di Silvan). Si era poi scoperto che l’impresa aveva ottenuto un eie (rapporto di studio dell’impatto ambientale) ancora nel 2008 e che eventualmente avrebbe dovuto – per restare nella legalità – iniziare i lavori entro cinque anni. Ora, nonostante i permessi siano scaduti (e forse annullati dall’ufficio del governatore) gli sbancamenti per la nuova strada sulla montagna sono iniziati.
Stando alle ultime informazioni, la Kulp Madencilik nell’ottobre dell’anno scorso avrebbe presentato una nuova richiesta sostenendo di aver già estratto 100mila tonnellate di minerali dalla terre alte di Hasandin tra il 2011 e il 2013. Questo precedente, se confermato, renderebbe ancora valido l’eie scaduto.
Ufficialmente presentata come “parte della realizzazione di un avamposto militare”, l’operazione (come hanno potuto constatare gli abitanti dei villaggi che sorvegliano il lavoro delle ruspe, gli sbancamenti e l’abbattimento degli alberi) presenta tutte le caratteristiche di un progetto minerario. Anche perché una strada avrebbe potuto essere facilmente costruita sull’altro versante, lontano dalla zona estrattiva. Del resto una cosa non esclude l’altra. Anzi.
In un comunicato dei comitati locali si legge che “dozzine di villaggi dipendono da questa area per l’acqua potabile. Gli abitanti vivono di agricoltura, apicoltura e della transumanza degli animali. Se queste terre alte saranno esposte allo sfruttamento minerario, la natura e lo spazio vitale della popolazione verranno distrutti. I prodotti agricoli dell’intera regione verranno contaminati”.
Per cui quello che sta succedendo non è solamente illegale, ma rappresenta “un vero e proprio attentato alle fonti di vita degli abitanti”.