Cominciamo con le notizie positive. Nel mese di marzo a Sabana, in Papua Nuova Guinea, si è svolta la Giornata internazionale della donna 2025 sul tema Donne e ragazze: diritti, uguaglianza ed emancipazione, che ha riunito una cinquantina di persone presso la parrocchia di Maria Ausiliatrice.
Tra le questioni affrontate, la “violenza di genere” con la sessione condotta da Lucy Lavu, coordinatrice della vita familiare dell’arcidiocesi di Port Moresby. Intervenendo sulla questione, alcuni presenti hanno voluto suggerire analogie e distinzione tra “violenza di genere e violenza domestica, uguaglianza ed equità e i diversi abusi che si verificano nella società”. Nelle prossime settimane sono previste altre conferenze sull’empowerment giovanile.
Iniziative encomiabili se pensiamo che molte società tradizionali – a causa della colonizzazione – hanno subìto una significativa disgregazione (come la situazione degli Indiani d’America nelle riserve, o lo sradicamento degli aborigeni australiani) con l’incremento di aggressioni, stupri, alcolismo, rottura di vincoli familiari e tribali.
E ora passiamo alle brutte notizie.
Recentemente, in marzo, il parlamento della Papua Nuova Guinea, con un emendamento costituzionale (80 voti favorevoli e quattro contrari), ha letteralmente trasformato di punto in bianco il Paese in uno Stato confessionale. Una radicale revisione del nome in “Stato indipendente e cristiano di Papua Nuova Guinea”, azzerandone diversità e tradizioni ancestrali.
Va riconosciuto alla Chiesa cattolica – trovandosi forse in condizione di inferiorità di fronte a evangelici e pentecostali (ben foraggiati sappiamo da chi) – di essersi opposta da tempo a tale prospettiva, ritenendo che si tratti anche di un’operazione di distrazione di massa dai problemi reali della nazione insulare. 
Un segnale della diffusa crisi – direi esistenziale – in cui versa attualmente il Paese, alla ricerca di una rinnovata identità nazionale.
Gli emendamenti costituzionali venivano sostenuti a spada tratta soprattutto dal primo ministro James Marape, molto religioso a quanto si dice e legato alla Chiesa cristiana avventista del settimo giorno. Nel suo sogno (delirio?) mistico essi dovrebbero aprire la strada per fare della Papua Nuova Guinea la “nazione nera cristiana più ricca del pianeta entro dieci anni”.

Il primo ministro James Marape con Bergoglio, durante la visita a Vanimo (2024).

Pensando alle risorse minerarie e naturali del Paese, già ampiamente saccheggiate dalle multinazionali, viene da preoccuparsi seriamente. A chi intenderà svendere l’isola? (A proposito, vi ricordate di Bouganville?).
Del resto il premier Marape, così rapido e pronto nel sostenere gli emendamenti costituzionali cristiani, va mostrandosi assai tiepido e incerto sulla questione dell’indipendenza della regione autonoma di Bouganville. La quale ha già fissato una precisa scadenza, il 1° settembre 2027, dopo il referendum del 2019 con il 97,7% della popolazione a favore.

Dallo sciamano al parroco

Forse andrebbero maggiormente considerate le varie componenti culturali presenti nel Paese, maturate in diverse, talora antitetiche esperienze storiche. Innanzi tutto quella originaria, ancestrale, risalente ad almeno 40mila anni fa, dei villaggi e delle valli interne (quella che ora rischia di subire il colpo di grazia dal turismo “etnico”).
Su questo substrato si è sovrapposta la colonizzazione ottocentesca e novecentesca con l’opera di acculturazione (spacciata per “istruzione”) e di “evangelizzazione” (colonizzazione religiosa). Per giungere ai nostri giorni con la confusione indotta dalla modernità (mobilità, telecomunicazione rapida, consumismo), foriera di ulteriore frantumazione collettiva e individuale.
Da segnalare tra gli eventi più recenti anche le reazioni sfavorevoli al fatto che il 13 marzo 2025, per la prima volta dall’indipendenza, una parlamentare donna – Francesca Semoso originaria di North Bougainville – avesse presieduto la seduta in qualità di presidente della Camera. In questo caso, forse, le reazioni ostili derivavano da una ancora diffusa mentalità patriarcale e maschilista a cui risulta inconcepibile il fatto che una donna possa primeggiare su “capi” e leader. Non per niente la Camera dei rappresentanti mantiene la forma dell’Haus Tambaran del popolo sepik, dove solo i maschi già iniziati potevano accedere durante le cerimonie.
E comunque con quello che viene definito “disegno di legge cristiano” si è ancora ben lontani dal risolvere il problema dell’identità del Paese.
Non saranno certo le autorità religiose protestanti (evangelici, pentecostali, eccetera) a sostituire degnamente il ruolo che in passato veniva attribuito a sciamani e capi tribali. Vale tanto per i protestanti convenzionali (bisognosi di riconoscimento e di finanziamenti da parte delle autorità governative) quanto per i pentecostali dediti talvolta a improbabili e anacronistiche rivisitazioni del “culto del cargo”.  E ovviamente in una certa misura anche per i parroci cattolici (più discreti comunque, va riconosciuto).
Tantomeno, a mio avviso, gli auspici di ulteriori “investimenti e infrastrutture in una terra difficile da elettrificare e modernizzare” (e grazie a Dio, vien da dire visto che siamo in tema).
Ma forse oggigiorno un pericolo ancor peggiore, in materia di colonizzazione culturale e mercificazione, è quello rappresentato dai tour operator. In un mondo ormai completamente reificato, plastificato, spettacolarizzato e mercificato (reso uniforme e omologato) si vuole spremere, sfruttare, e in sostanza alterare e snaturare irreparabilmente anche le ultime realtà in parte autentiche, originarie.
E allora via con l’esplorazione addomesticata delle “complicate diversità culturali e naturali” di questa “gemma nascosta dell’Oceania”. O con la partecipazione al Mount Hagen Cultural Festival, con “canti e danze tipiche” compresi nel prezzo (volendo, in aggiunta, anche una visita alle Mummie di Aseki).  
O con i trekking per “immergersi nella ricca cultura papuana”.
Con percorsi a piedi e canoa “a stretto contatto con la popolazione indigena”. 
Popolazione che – lo darei per scontato – ne uscirà devastata socialmente e culturalmente.
Ci torneremo, forse.

Francesca Semoso.