Presso Ratisbona, l’antica città delle Diete imperiali, su un colle che domina il Danubio, si innalza uno spettacolare e suggestivo monumento: il Walhalla, il tempio laico che raccoglie, per volontà di Ludwig I di Baviera, i busti dei Grandi che, a partire dalle origini, hanno nobilitato la storia e la cultura tedesca. In esso si è incarnato il sogno di un sovrano-artista estroso, romantico e geniale: la risposta culturale – che affonda le sue radici nell’antica tradizione mitologica germanica – all’umiliante condizione di sudditanza in cui Napoleone, dopo aver sciolto il Sacro Romano Impero, aveva ridotto il territorio tedesco nei “giorni del più profondo disonore per la Germania”. Il monumento, iniziato nel 1830, fu destinato in eredità alla Germania, non appena questa fosse tornata unita.

Quando nel 1890 i bavaresi erigevano un monumento al re Ludwig I e lo collocavano al posto d’onore nel tempio del Walhalla, era segno che tra il re i suoi sudditi la pace era fatta, i rancori dimenticati. Quanto a Lola Montez, l’avventuriera che nel 1848 era costata il trono a re Ludwig, non era dimenticata affatto, anzi era entrata nella leggenda; era però cambiato il giudizio sulle follie che il re aveva fatto per lei. A quarant’anni di distanza, le spese assurde e gli sperperi pagati dal contribuente erano ormai cosa del passato. Non dovendo più pagare di tasca propria, i bavaresi potevano giudicare il re con occhio molto diverso. Delle sue stravaganze restava l’aspetto estroso, geniale, romantico; delle sue manie di collezionista d’arte e di costruttore restavano i musei, i monumenti, il rinnovamento urbano che aveva fatto di Monaco una delle più belle città d’Europa.
E, in fondo, i bavaresi potevano ormai ricordare con indulgente compiacimento le debolezze del re per Lola Montez, la favorita cui tutto era concesso, dai gioielli ai titoli nobiliari, dal far deporre o nominare magistrati secondo il suo bon plaisir, allo schiaffeggiare i ministri che le erano antipatici. Emula delle Dubarry e delle Pompadour di Francia, Lola aveva innalzato Monaco al livello di Versailles: il capriccio sovrano si addice alla regalità.
Ludwig era salito al trono nel 1825 a trentanove anni, dopo una giovinezza vissuta liberamente in viaggio, per lo più in Italia, seguendo le sue inclinazioni di artista; ma a questa spensierata libertà era giunto dopo vicende non altrettanto liete. Non era nato “nella porpora”, anzi abbastanza lontano dal trono. Suo padre, Massimiliano Giuseppe di Wittelsbach Zweibrücken-Birkenfelds, apparteneva a uno dei numerosi rami cadetti della famiglia ducale di Baviera, e aveva seguito la carriera delle armi come era tradizione per i cadetti ambiziosi, al servizio di un sovrano straniero.
Nel 1786 quando nacque Ludwig, suo primogenito, si trovava a Strasburgo come colonnello proprietario di un reggimento francese, il Royal Alsace. Massimiliano era un gentiluomo brillante, ben conosciuto a Parigi e benvoluto a corte, e il re Luigi XVI accettò di far da padrino al neonato, per procura naturalmente, inviando a Strasburgo uno splendido dono di battesimo. La regina Maria Antonietta ne inviò uno per parte sua alla puerpera. Pochi anni dopo la famiglia dovette fuggire sotto l’incalzare della rivoluzione, e il piccolo Ludwig visse traumatizzanti esperienze di paure e di angoscia. Perdette la madre all’età di dieci anni.
Nel 1799 le fortune mutarono all’improvviso: con la morte senza eredi del duca regnante Carlo Teodoro la successione passava al ramo cadetto, e l’ex colonnello francese Massimiliano di Zweibrucken diveniva duca di Baviera e principe Elettore del Sacro Romano Impero. Erano gli ultimi anni di vita dell’antico impero, mentre già si delineava quello napoleonico che ambiva a prenderne il posto. Nel 1806 cambiò l’intera geografia politica d’Europa. Sciolto dopo 1006 anni l’impero fondato da Carlo Magno, Napoleone istituiva la Confederazione del Reno a lui soggetta, mutando a suo piacere le corone dei principi tedeschi che ne facevano parte.
II duca di Baviera entrò nelle grazie del nuovo despota e venne promosso alla corona reale; il regno di Baviera allargava inoltre il suo territorio a spese dell’Austria inglobando Salisburgo e il Tirolo. Il ventenne Ludwig, principe reale di Baviera, ebbe un comando militare e dovette partecipare per tre anni alle campagne napoleoniche. In questi stessi anni sua sorella Augusta Amalia andava sposa (1809) a Eugenio Beauharnais, figlio adottivo di Napoleone. Benché viceré d’Italia e possibile candidato a divernirne re, Eugenio rimaneva il “figlio della creola” e i Wittelsbach sentirono quel matrimonio come una mésalliance, una diminuzione di rango; ma era un ordine di Napoleone, e bisognava mostrarsene felici e onorati.
Ludwig sentì questa condizione di sudditanza con profonda ribellione, e cominciò a maturare un odio antifrancese che non venne mai meno nella sua vita politica. Parallelamente, cominciò a sorgere in lui l’esaltazione per la patria tedesca. Questo nuovo patriottismo infervorava in ugual misura il giovane principe di Baviera come migliaia di suoi coetanei studenti, intellettuali o artisti, di condizione borghese o nobile, da Monaco a Berlino. L’oppressione straniera era il catalizzatore. L’unità della Germania si realizzò solo nel 1870 dopo un processo laborioso e difficile, ma costante; il merito di averlo innescato spetta – suo malgrado – a Napoleone. In quel clima di nascente patriottismo, del tutto sconosciuto alla Europa del Settecento, Ludwig ebbe la prima idea del Walhalla, un tempio che, rievocando l’antica mitologia germanica, divenisse il Pantheon del genio tedesco.

Ludwig I in una foto del 1860.

Cosi racconta lui stesso nel prologo al libro che scriverà più di vent’anni dopo (dicembre 1829) quando la costruzione del tempio stava per iniziare: “Erano i giorni del più profondo obbrobrio per la Germania, allorché sul principio dell’anno 1807 nacque nel principe ereditario Ludwig di Baviera il pensiero di far scolpire in marmo le immagini dei cinquanta Tedeschi che più gloriosamente si distinsero nella storia, ed ordinò parimenti che si mettesse mano all’esecuzione”.
Le finanze del principe, già falcidiate dalle sue passioni di artista e collezionista, non gli consentivano ancora di pensare a costruire il monumento grandioso che aveva in testa. Si accontentò dunque di commissionare ai suoi amici scultori – un po’ per volta, man mano che lo consentivano i fondi – i busti dei grandi tedeschi da collocare nel futuro Pantheon. Non fu un’effimera fantasia giovanile, ma un’idea cui Ludwig rimase costantemente fedele, un progetto cui diede puntuale attuazione non appena divenuto re. Era una moda dei tempi: proprio nel 1806 Ugo Foscolo scriveva il suo carme I Sepolcri. Parallelamente a Ludwig, anche suo cognato, il viceré d’Italia Eugenio, progettava un Pantheon del Regno d’Italia da istituire in Milano, e aveva già scelto l’edificio adatto a ospitarlo: la bella rotonda settecentesca quadrilobata già cimitero dell’Ospedale Maggiore (oggi Rotonda di via Besana) dove voleva riunire le tombe di tutti gli illustri lombardi del tempo, i filosofi come il Beccaria e il Verri, gli scienziati che davano fama alla università di Pavia e i generali italiani distintisi nelle campagne napoleoniche e quelli che sarebbero venuti poi. Ma il progetto di Ludwig era più ambizioso. Il suo Pantheon non doveva essere solo bavarese ma dell’intera nazione tedesca, e doveva abbracciare tutto l’arco della storia a partire dalle origini. Era quindi impossibile riunire le spoglie mortali di tanti eroi, ma era necessario che di tutti venisse eternata la memoria. Con un busto, dunque. Ma lo scrupolo di re Ludwig (o forse del suo consulente storico, lo studioso e scrittore Johannes von Müller) fece scartare l’idea dei busti di fantasia. Non si dovevano effigiare personaggi se non sulla base di immagini tramandate e credibili; se non ne esistevano, l’eroe non doveva essere rappresentato da un falso ma da una semplice targa marmorea con il nome e le date. A scrivere un profilo biografico di ciascun eletto, provvide il re. Müller fu l’autorità che consigliò Ludwig nella scelta dei personaggi da ammettere; quanto al nome per il costruendo tempio, non vi furono dubbi su “Walhalla”. Wal era la morte nell’antico idioma germanico, e Walhalla era l’aula (Halle) della morte. Non collocata però negli inferi bensì nei cieli: il paradiso, la reggia dove sedevano Odino, Thor, Freia e gli altri dèi degli antichi germani.
Questa reggia tutta d’oro, col tetto formato da scudi di bronzo, arredata di lance e corazze, accoglieva gli eroi morti in battaglia che sedevano a banchetto assieme agli dèi. Le Valchirie, fanciulle guerriere giovani e bellissime, allietavano le loro notti. Erano ancora le Valchirie che aleggiavano sui campi di battaglia, raccoglievano le anime degli eroi caduti e le conducevano in cielo alla gloria del Walhalla.
Tutta la mitologia degli antichi germani ebbe un ruolo fondamentale nel nuovo patriottismo tedesco di stampo romantico. L’Ottocento riscoperse Odino, Thor e le Valchirie e li rimise sugli altari, in antagonismo ai vecchi dèi del mondo classico – da Giove a Venere – con cui da troppo tempo si gingillava la cultura europea. Il Walhalla contro l’Olimpo: fu il manifesto della rivoluzione romantica in tutte le sue manifestazioni, dalla politica alla poesia, dalla musica alle arti figurative. Ludwig di Baviera passò indenne attraverso questa lotta senza esserne lacerato, anzi facendo convivere i due ideali con la più serena tranquillità di coscienza; bruciando incenso agli uni come agli altri dèi. L’amore per il mondo classico era radicato in lui sino dall’adolescenza; divampò dopo il suo primo viaggio in Italia, si alimentò nei viaggi che compì successivamente in Italia, in Grecia, in tutto il Mediterraneo.
Re con la vocazione di artista, poeta mediocre ma prolisso, autore di migliaia di versi preferibilmente in francese, Ludwig ebbe sempre per gli artisti una immensa carica di ammirazione e probabilmente di invidia. Da principe ereditario, nella sua lunga giovinezza romana, amava condividere la loro vie de Bohème, indossava abiti trasandati, portava in capo larghi berretti di velluto. Sentiva però di essere un falso bohémien, e si accontentava con umiltà di fare da mecenate, di pagare il conto delle scampagnate alle osterie di Trastevere o dei Castelli. La bellezza lo incantava in tutte le sue forme, da quella idealizzata delle opere d’arte a quella viva delle donne italiane. Unì l’una e l’altra nella celebre collezione che iniziò in Italia e continuò per il resto della sua vita: ritratti delle più belle donne del suo tempo (indipendentemente dall’averne goduto i favori o meno) espressamente eseguiti dai pittori del suo entourage. In fatto d’arte il paradigma della bellezza fu sempre il mondo classico, e la scultura la sua musa prediletta. Artisti come Canova o Thorwaldsen erano ancora in grado di far rivivere il mito della bellezza pagana dei greci, e le collezioni di Ludwig si arricchirono in pari misura di opere dei nuovi Fidia, di sculture classiche antiche acquistate in Italia, in Grecia o altrove, e di buone copie di statue classiche quando era impossibile avere gli originali.
La Grecia classica continuò a rimanere il suo ideale di perfezione anche quando da re prese a rinnovare la sua capitale. Monaco divenne cosi una nuova Atene, vide sorgere colonnati e timpani, scalinate e propilei. Massimo successo politico di re Ludwig e sua massima gioia personale, fu quello di ottenere nel 1832 che il trono del neoregno di Grecia, istituito dopo la liberazione del dominio ottomano, fosse attribuito al principe Ottone di Baviera, suo secondogenito. Secondo il costume del tempo infatti, i re si cercavano fuori casa – in mancanza di una dinastia autoctona soddisfacente – prescindendo totalmente dalla nazionalità. Per inciso, la dinastia bavarese non attecchì ad Atene; fu sostituita nel 1862 dopo l’abdicazione di Ottone con quella danese di Sonderburg-Glücksburg (Giorgio I).
Le finanze del regno di Baviera furono duramente provate dal “mal della pietra” del loro re, e questo causò malcontento e fermenti. La situazione si aggravò quando un altro ideale di bellezza classica si installò a Monaco nel 1847, nelle forme viventi della danzatrice pseudospagnola, in realtà irlandese, Lola Montez, impunita e onnipotente amica del re. A parte l’aggravio che i lussi di Lola portavano alle finanze bavaresi, la classe politica e dirigente era offesa dal dover subire l’intrusione di costei negli affari dello Stato, indignata nel vedere il re supinamente prono a ogni suo capriccio.
Lola trovò sostenitori nella gioventù studentesca più scapestrata, felice di vedere dissacrati molti valori, ma fu un appoggio effimero. Quando il malcontento popolare esplose nel 1848, l’espulsione dell’avventuriera e l’abdicazione del re furono una premessa irrinunciabile per il ritorno della pace e la sopravvivenza della monarchia. La rivoluzione del ‘48 aveva radici ben più profonde in tutta Europa e divampò contemporaneamente a Vienna, a Berlino, a Milano, a Budapest. A Monaco i rivoluzionari ebbero una motivazione in più. A Vienna si chiedeva la testa di Metternich, a Monaco quella di Lola.
Re Ludwig visse ancora vent’anni in esilio, ritornò alla gaia spensieratezza dei suoi anni verdi, e vide altre due generazioni regnare dopo di lui: suo figlio Massimiliano II, morto prematuramente nel 1864, e suo nipote Ludwig II. Ludwig I mori a Nizza nel 1868, all’età di 82 anni. Il secondo Ludwig superò ben presto il nonno quanto a follie, infatuazioni e spese dissennate; ma la sua follia ebbe ben altra evoluzione e ben altra tragica conclusione (nelle acque del lago di Starnberg dove morì annegato, suicida, nel giugno 1886).

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Ludwig II.

Entrambi i Ludwig dissanguarono le casse dello Stato, entrambi furono perdonati e, a distanza di tempo, amati. Dalle follie edificatorie di entrambi la Baviera si arricchì di costruzioni fantasiose, fiabesche, assurdamente sfarzose. I bavaresi di oggi ne sono fierissimi ritrovandovi un poco dell’estro, della genialità nazionale. Non altrettanto entusiasti furono i bisnonni che dovettero pagare di tasca loro. Due fra queste opere faraoniche, un tempio greco e un castello nibelungico, possono considerarsi emblematiche dei rispettivi costruttori: il Walhalla per Ludwig I, il castello di Neuschwanstein per Ludwig II.
Per il Walhalla, la collezione di busti era già a buon punto quando Ludwig salì al trono nel 1825; cinque anni dopo (1830) iniziò la costruzione del tempio, su progetto dell’architetto Leo Klenzc. Redatto sotto la assidua supervisione del re, più volte ripensato e modificato, il progetto aveva richiesto quasi dieci anni. Quanto alla località, era stata scelta una collina in posizione scenografica a dominio del Danubio a valle di Ratisbona, l’antica città delle Diete imperiali. La posa della prima pietra venne fissata per il 18 ottobre, ricorrenza storica della Völkerschlacht, la “battaglia delle nazioni” (Lipsia, 1813) in cui i popoli tedeschi coalizzati avevano sconfitto Napoleone. La stessa data fu scelta perla inaugurazione nel 1842, dopo dodici anni di lavoro: tempo ragionevolmente breve per un’opera di tanta mole.
Re Ludwig potè cosi vedere il compimento della sua opera e godere una giornata di glorioso tripudio: Lola a quel tempo non era ancora entrata a frapporsi fra il re e i suoi sudditi. Il Walhalla, tempio del Deutschtum (la germanicità) e dimora degli dèi tedeschi (die Teitsche Götter, come amava scrivere il re esumando la grafia antica Teutsch anziché Deutsch) nacque con le forme della più perfetta grecità, assai più adatto a Giove che a Odino. Probabilmente il re non si poneva una scelta fra Giove e Odino, e considerava che Pallade Atena, madre del genio e dell’arte, avesse giurisdizione su tutti i popoli indistintamente. L’architettura del Walhalla, realizzata in candido marmo, è una replica quasi esatta del Partenone di Atene. La distribuzione delle colonne doriche del peristilio è quasi la stessa: 8 sulle fronti, 6 sul pronao, 17 sui fianchi, per un totale di 52 colonne; il Partenone ne ha due in meno (16 sui fianchi anziché 17).
Non meno imponente del tempio è il complesso delle costruzioni: una successione di gradoni in muratura ciclopica a blocchi irregolari, percorsa sul lato frontale verso valle da una gradinata marmorea a sei rampe per un totale di 358 gradini, e una altezza di 58 metri sino alla base del tempio.
L’effetto scenografico è grandioso contemplando il monumento dal basso; ed è emozionante il passaggio dalla fronte del tempio, aperto sul Danubio per un lungo tratto. All’interno si presenta come un’unica vasta sala rutilante di marmi policromi. Prevalgono i rossi, per dar risalto al bianco dei busti allineati a file sovrapposte. La prima fila poggia su un alto zoccolo, quelle successive su mensole. La lunghezza della sala è spezzata in tre campate da contrafforti aggettanti: ognuno dei sei riquadri sulle pareti ospita un certo numero dibusti, e al centro la statua di una Valchiria alata in funzione di hostess o padrona di casa. Sei erano infatti le Valchirie secondo quanto tramanda l’Edda, il poema mitologico degli antichi germani. L’altezza della sala è invece spezzata da un alto fregio con bassorilievi in marmo bianco; nell’ordine superiore corre una galleria in cui sono distribuite 16 cariatidi in tutto simili alle Korae dell’Eretteo di Atene.
La rassegna dei busti è un lungo viaggio attraverso storia e cultura del mondo germanico. Re Ludwig volle infatti comprendere tutto il Deutschtum senza alcuna limitazione di confini politici, aprendo le porte del Walhalla a personaggi illustri della nazione tedesca anche se al di fuori del territorio più specificamente germanico. Questo in quanto il re identificava la nazionalità con la lingua madre. “Richiedesi”, scriveva, “essere di linguaggio tedesco per poter divenire membro del Walhalla”. Le donne sono ammesse in piena parità con gli uomini; troviamo quindi l’imperatrice Caterina di Russia (nata principessa tedesca di Anhalt-Zerbst), come pure Maria Teresa d’Austria. Quanto alla qualifica degli ammessi, gli artisti, i filosofi e gli scienziati sono presenti in equa proporzione rispetto ai sovrani e ai guerrieri. Cronologicamente e idealmente il capofila è un guerriero, che in mancanza di documenti iconografici è rappresentato da una targa anziché da un busto: il leggendario Arminio (Hermann) che nell’anno 9 d.C., nella foresta di Teutoburgo, annientava le legioni romane condotte da Quintilio Varo. La storica frase di Augusto, “Varo, rendimi le mie legioni!”, è espressamente ricordata da re Ludwig nel suo profilo biografico su Arminio. Ed è proprio questo il tema del bassorilievo all’esterno, sul frontone del tempio: la battaglia di Teutoburgo, la morte di Varo, suicida per non sopravvivere all’onta.

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Il tempio del Deutschtum si presenta quindi – quasi programmaticamente – con questo emblema: la sconfitta di Roma, la supremazia tedesca su Roma. Il re ne sentiva profondamente l’orgoglio, e non lo trovava affatto incompatibile con il suo grande amore per Roma e l’Italia. Inizialmente il re aveva previsto un “numero chiuso” di cinquanta, ma successivamente rimosse questa limitazione che andava troppo stretta al genio tedesco, e che comunque non avrebbe lasciato posto per gli eroi futuri a fianco di quelli del passato. Fu una decisione giusta; molti sono infatti i personaggi entrati dopo la morte di Ludwig, e tra questi i padri della patria tedesca del 1870, i fondatori del Secondo Reich: Bismarck, Moltke e Guglielmo I.
Quanto al futuro Walhalla, il suo fondatore fu lungimirante. Nel suo testamento del 29 dicembre 1859 destinò il Walhalla in eredità alla “Germania, sua grande patria”. In termini giuridici, l’erede fu la Deutscher Bund, la Confederazione Tedesca istituita nel 1815. In un codicillo successivo, il re previde però l’ipotesi di uno scioglimento della Confederazione, e in tal caso volle che l’eredità passasse al regno di Baviera; ma volle ulteriormente precisare che il Walhalla doveva tornare alla Germania non appena questa fosse tornata unita. Tutto si verificò puntualmente. La Confederazione fu sciolta nel 1866 dopo la guerra austroprussiana, ma nel 1871 venne proclamato il Secondo Reich, l’impero tedesco di Bismarck.
Oggi, dopo le due guerre mondiali, il Walhalla è tornato proprietà dello Stato di Baviera, Land della Germania Federale; ed è il consiglio dei ministri di Baviera a decidere sulla eventuale ammissione di altri nomi alla gloria del Walhalla. Attualmente gli eroi del Walhalla sono 186 (64 targhe e 122 busti), il posto n. 68 (secondo la numerazione ufficiale dell’Amministrazione) è quello che spetta allo stesso re Ludwig I, entrato nel Walhalla sessant’anni dopo la fondazione. Il re non è presente con un semplice busto ma con una statua a tutta figura, seduto su un tronetto, abbigliato da antico romano e coronato di alloro. Di questa collocazione privilegiata, il re non ha colpa, non è un suo atto di immodestia. Non sarebbe stato consono al suo carattere, orgoglioso nella regalità ma umile di fronte al genio. A metterlo al posto d’onore sulla parete di fondo al centro, sono stati i suoi sudditi, e “con gratitudine”: das dankbare Volk, come è inciso sul piedistallo.