Fra le tante manovre messe in atto dal governo italiano per ostacolare il referendum veneto sull’autonomia, quella pensata dal ministero dell’Interno per vietare l’utilizzo della tessera elettorale è stata la più patetica, e si è dimostrata un vero e proprio boomerang per chi pensava di fermare la determinazione dei veneti nella battaglia per l’autonomia.
E così i veneti, dopo aver votato, si sono ritrovati in mano una ricevuta con il Leone di San Marco che è diventata da subito un oggetto di culto… altro che l’anonima e insignificante tessera elettorale!
È stato, lo si deve ammettere, un colpo magistrale della nostra Regione; lo si era capito subito, quando ha cominciato a girare il facsimile con la bandiera veneta in grandissima evidenza, che l’effetto sarebbe stato dirompente: fin dal primo mattino selfie a volontà e post a tutta manetta su facebook; diversi l’hanno messa in soasa, come diciamo noi veneti (in cornice, per gli italiani). Il Leone di San Marco aveva risvegliato ancora una volta l’orgoglio dei veneti, suscitando emozioni che laggiù in Italia non riescono a capire..
Ecco cosa scrive il mio amico Mauro su facebook:
Nel metter il voto nell’urna l’emozione me ga ciapa’ ed una sincera soddisfatta lacrima di gioia mi ha solcato il viso. Gli scrutatori l’hanno vista e mi hanno chiesto da quanto aspettassi questo momento… Ho risposto oltre 40 anni una vita. Uno di loro mi ha confortato dicendomi in privato: non sapevo se votare ora so che lo debbo fare fosse solo per lei.
“No se pol far de manco”, disse Sebastiano Venier, prima di iniziare la battaglia di Lepanto che lo vide straordinario protagonista; no se pol far de manco l’hanno ripetuto Mauro e oltre due milioni di venete e di veneti nella giornata di domenica.
“Così si continuò a non capire che cosa aveva spaventato lo Stato. Eppure la bandiera piantata sul campanile forniva già la risposta. Era un simbolo: il segreto stava lì…”. Paolo Rumiz lo scrive a proposito dei Serenissimi nel suo libro La secessione leggera, di vent’anni fa. Paolo Rumiz non è un indipendentista veneto, è uno scrittore triestino, meglio mitteleuropeo, intelligente, e certe cose le capisce al volo, non occorre spiegargliele come succede con tanti italiani, e anche con tanti veneti per la verità…
Il simbolo veneto, il Leone di San Marco che ritorna (e un simbolo, anche nel terzo millennio, ha mille sfaccettature), può essere riprodotto, dipinto, scolpito, accarezzato, fotografato, scalpellato, distrutto; e Napoleone l’aveva capito benissimo due secoli fa: “Atterrate il Leone di San Marco”, aveva scritto nella dichiarazione di guerra alla Serenissima, e oltre mille Leoni furono distrutti nella sola Venezia. “Chiunque griderà Viva San Marco sarà punito di pena di morte”, sta scritto nel proclama della giacobina Municipalità Provvisoria di Venezia nel 1797.
Ma dopo duecento anni noi veneti siamo ancora qua a gridare “Viva San Marco”, a riprodurre il nostre Leone con pitture, con sculture, con le bandiere, con lo spray, con le ricevute del referendum… Perché un simbolo ha una dimensione materiale che può essere scalpellata, distrutta, accarezzata, ma ha anche una dimensione “spirituale” che si perpetua nella mente e nel cuore e che non può essere cancellata, scalpellata, imprigionata… ed è questa dimensione che fa paura a Roma.
Nella porta delle mura di Peschiera del Garda, recentemente riconosciute come patrimonio mondiale dall’UNESCO, sta scritto “Che tu sappia. Questa eccelsa immagine del Leone ti dissuada dal provocare i Veneti, giacchè essi contro il nemico hanno il vigore del Leone”.
Attenta, Roma…