Rosaspina, nell’originale tedesco Dornröschen, è la versione raccolta dai fratelli Grimm della fiaba conosciuta generalmente come La bella addormentata nel bosco. I suoi precedenti si possono individuare nella fiaba indiana di Surya Bai, in alcune fonti medievali parzialmente citate dagli stessi Grimm, in Sole, Luna e Talia di Basile e nella Belle au bois dormant di Perrault.
La situazione di partenza è quella di un re e di una regina che da molti anni non riescono ad avere figli. Un giorno una rana – in altre edizioni un gambero o un granchio – predice alla sovrana che partorirà una bambina. La rana rappresenta simbolicamente due mondi con i successivi stadi nella sua evoluzione da creatura acquatica ad anfibia: la sua natura metamorfica allude alla necessità del cambiamento, all’ineluttabilità della crescita con il conseguente abbandono della condizione infantile.
Di lì a poco la regina rimane incinta e mette al mondo una bambina: si organizza perciò un banchetto a cui vengono invitate dodici fate, che assicureranno alla neonata la loro protezione e i loro doni magici. Il numero non è casuale, riferendosi presumibilmente alla chiusura di un ciclo, ma se invece il riferimento è al calendario lunare, la tredicesima luna ne è esclusa. La ragione per cui l’invito non viene esteso è in effetti poco credibile: il servizio reale dispone soltanto di dodici piatti d’oro.
La tredicesima fata, quella che non è stata invitata, irrompe tuttavia nella sala maledicendo la principessina e condannandola a morire appena compiuti i quindici anni, pungendosi con un fuso. Per fortuna della bambina, la dodicesima fata deve ancora rendere noto il suo dono: pur non essendo in suo potere di annullare un maleficio attuato da un’altra fata, può attenuarlo, volgendo la condanna eterna in un sonno centenario.
Perché non è stata invitata proprio la fata di cui erano ben noti tanto il potere che la suscettibilità? Osservando gli sviluppi della storia, si nota che la maledizione rappresenta tanto un fattore di stasi quanto il motore segreto della vicenda, creando la condizione perché soltanto il prescelto possa raggiungere la bella addormentata. Il sonno, infatti, a differenza della morte non è definitivo: si configura così come un periodo di passaggio la cui ritualità è sottolineata dal contesto e dalle modalità del risveglio.
Ma perché un sonno di cento anni? Semplicemente un periodo di latenza? Più che di sonno per altro si dovrebbe parlare d’immobilità: uomini, donne, animali e persino oggetti inanimati vengono congelati in un fermo immagine senza testimoni. Qual è la ragione simbolica di questa sospensione dal tempo e dallo spazio? Se l’età della principessa può essere quella in cui, all’epoca, la maggior parte delle bambine diventavano donne e se il sangue della puntura allude a quello mestruale, come suggerisce Bettelheim, a cosa serve che l’intero castello sia nascosto agli occhi del mondo per un tempo così lungo? E come può diffondersi la leggenda della bella addormentata, di cui narrano i Grimm, se nessuno è in grado di accedervi? L’essere circondato dai rovi lo preserva dalle mire di chi non è destinato a svegliare la principessa, ma non è forse un apparato troppo complesso e artificioso per giustificare tale funzione di prolungamento abnorme della verginità? Che cosa nasconde allora questa morte apparente?
Il castello può essere interpretato come una proiezione dell’inconscio, uno scenario onirico. Si può allora immaginare Rosaspina prigioniera del suo stesso sogno, circondata da un muro invalicabile di rovi, in preda, per contrasto, a uno slancio vegetativo incessante, sia pure privo di un fine che non sia quello della difesa: ma cosa dev’essere difeso, in ultima istanza? Il sogno della principessa, la sua innocenza, il suo destino? Dopo la maledizione il re si era adoperato affinché tutti i fusi del regno venissero bruciati: è evidente l’assimilazione fra oggetti appuntiti, si tratti delle spine dei rovi o dei fusi di un arcolaio (nella fiaba di Surya Bai il ruolo è svolto dall’unghia velenosa del malefico Rakshasa, che fa sprofondare la ragazza in un sonno simile alla morte).
Tuttavia, proprio nel giorno fatidico in cui la principessa Rosaspina – bellezza insidiosa già nel nome – compie quindici anni, i suoi genitori inspiegabilmente si assentano e anche i cortigiani scompaiono dal castello, lasciandolo incustodito, salvo tornare quando l’incantesimo si è già compiuto.

La filatrice nella torre, illustrazione del 1880.

Altra figura su cui i Grimm non ci danno delucidazioni è la vecchia filatrice nella torre – un ambiente spesso destinato alla segretezza – che, a onta degli ordini reali, ha conservato il suo arcolaio e suscita la curiosità di Rosaspina, la quale, per via dell’editto paterno, non ne ha mai visto uno. Si tratta della fata che ha lanciato il sortilegio? E che cosa ci fa nella torre, altrimenti?
Sembra che ogni aspetto, anche il meno verosimile, concorra a far sì che il maleficio si compia: è questo il fine della storia? Mostrare che non ci si può opporre al proprio destino? Il destino s’incarna nel principe che cento anni dopo troverà fiori in luogo dei rovi (rose invece che spine) e senza bisogno di aprirsi un varco potrà arrivare al castello, visitarne gli interni in perfetta solitudine come aveva fatto a suo tempo Rosaspina, salire sulla torre e giungere infine al cospetto della bella addormentata. Qui, ci dicono i Grimm, la bellezza della principessa è tale che il principe non riesce più a distogliere lo sguardo da lei e infine si china a baciarla.
Non ci viene detto se Rosaspina, i suoi genitori o i cortigiani serbino memoria dei fatti e in particolare del loro interminabile sonno. Il risveglio generale è il segno che il destino si è compiuto, la bambina è ormai una donna, una donna innamorata e già pronta al matrimonio. Forse in tutti quegli anni Rosaspina ha sognato il suo principe ideale o forse il suo è stato un lunghissimo sogno senza sogni, una morte apparente, premessa della futura, lontana metamorfosi. In ogni caso, senza l’incantesimo, non avrebbe conosciuto il vero amore.
Se la principessa ha vissuto un secolo senza invecchiare di un solo giorno, è forse allora da questo che si deve partire per trovare il senso profondo della vicenda, la storia di una lunghissima gestazione del Sé, una storia fuori del tempo, costretta in uno spazio incantato come una sorta di eterno, paradossale palcoscenico dell’immaginario.