Tra le vaste e sconfinate dune rosse del deserto del Kalahari, nel cuore dell’Africa australe, all’interno degli attuali Stati di Botswana, Namibia e Sudafrica, dimora una delle più affascinanti e antiche popolazioni non solo del continente, ma dell’intera storia dell’umanità: si tratta dei san, meglio conosciuti con il nome di boscimani. Sono un gruppo indigeno nomade di cacciatori-raccoglitori che si crede abiti i territori desertici dell’Africa meridionale fin dal paleolitico superiore.
Nel corso della sua storia millenaria è emersa chiaramente una caratteristica di gruppo davvero fondamentale: l’incredibile capacità di adattamento che gli ha permesso di sopravvivere a lungo in uno dei luoghi più inospitali e con meno risorse della terra. Il loro grande merito è stato quello di studiare e comprendere a pieno le scarse fonti di vita a disposizione per poterle sfruttare nella miglior maniera possibile. I boscimani sono infatti famosi per avere una completa e rigorosa conoscenza della flora e della fauna del Kalahari, unita a un altrettanto profondo legame con l’intero habitat naturale con il quale vivono in perfetta sintonia. Tuttavia questo idilliaco equilibrio tra uomo e ambiente e l’ultra secolare storia del popolo sono fortemente minacciati da una serie di eventi che in tempi più o meno recenti ha messo in serio pericolo i san, tanto che – per loro come purtroppo per altri gruppi indigeni – si può parlare di popolazione a rischio di estinzione.
L’inizio della loro decimazione ha coinciso con l’arrivo nell’area di altri gruppi autoctoni africani prima, in particolare agricoltori sedentari bantu e ottentotti, e di allevatori boeri poi, che hanno o scacciato i boscimani dalle loro terre ancestrali o costretti a integrarsi nella neonata società imposta con la forza, alquanto differente rispetto a quella tradizionale cui il gruppo era abituato da secoli.
In parte spinti verso territori ancora più inospitali, in parte apertamente perseguitati o assorbiti, la vita dei san è stata protagonista di un’ulteriore tragedia nel XX secolo, quando gli Stati africani hanno ottenuto l’indipendenza: il governo del Botswana infatti ha pesantemente contribuito alla loro segregazione, intraprendendo un processo di sedentarizzazione forzata di un popolo che è sempre stato nomade, con il pretesto di tutelare le specie animali cacciate dai san. Essi sono stati così sfrattati dalle loro terre originarie, le poche in cui ancora abitavano, e costretti a inglobarsi in una società moderna e sedentaria. La vera ragione di questo piano governativo va semmai ricercata nelle recenti scoperte diamantifere in alcune aree dove erano stanziati gli indigeni, i cui proventi rappresentano la principale fonte di reddito dello Stato. La sedentarizzazione coatta ha inevitabilmente contribuito all’abbandono dello stile di vita tradizionale da parte dei membri superstiti, e a una conseguente perdita di conoscenza del loro patrimonio culturale nonché di identità di gruppo.
I boscimani, nonostante abbiano intrapreso una battaglia legale in tribunale contro il governo, sono ora in tutto e per tutto un’etnia senza terra a rischio oblio. E parlarne è un dovere.
Denominazioni plurime
Esistono molteplici e differenti denominazioni con cui si è soliti indicare gli appartenenti a questo gruppo etnico originario delle zone meridionali del continente africano: oltre ai più famosi san e boscimani vi sono anche i termini khwe e basarwa. Per prima cosa è importante sottolineare come la popolazione sia imparentata con i khoikhoi 1) (o più semplicemente khoi), più noti con il nome di ottentotti, insieme ai quali costituiscono collettivamente il gruppo khoisan, il principale dell’Africa meridionale.
Curiosamente, l’etnia definita san in realtà non possiede un termine preciso per indicare se stessa e tutto il proprio popolo nel complesso, ma le diverse denominazioni le sono state assegnate di volta in volta dall’esterno, da altri gruppi. Per l’appunto, lo stesso nome “san” – che nella lingua locale significa straniero e diverso – le è stato affibbiato dai cugini khoikhoi in quanto i “san” appaiono notevolmente diversi da questi ultimi, che volutamente mettono in evidenza questa differenza. La discrepanza si riscontra in particolare nello stile e nelle scelte di vita quotidiana: i khoikhoi (“vere persone”, da intendere come uomini che possiedono animali domestici) sono allevatori dediti alla pastorizia e pertanto si contrappongono chiaramente ai san (i “da loro diversi”) in quanto non possiedono animali né alcun tipo di bestiame, dal momento che praticano la caccia e la raccolta e si limitano a vivere solamente dei prodotti derivanti da queste due attività.
La parola boscimani deriva direttamente dall’olandese boschjesmens (bushmen in inglese, boesmans in afrikaans) e significa letteralmente “uomini della boscaglia”, coniato dai coloni boeri che invasero la regione insediandosi come agricoltori sedentari: non è difficile coglierne un significato leggermente dispregiativo, se non apertamente offensivo. Il termine khoisan, utilizzato per indicare il complesso dei nomadi san e dei pastori khoi, venne introdotto da Leonard Schulze e reso famoso da Isaac Schapera tra gli anni Venti e Trenta del XX secolo. L’utilizzo di questa terminologia anche a livello antropologico contribuì a rafforzare l’idea di differenza tra i due gruppi etnici, con la marcata sottolineatura della diversità dei san in quanto cacciatori-raccoglitori, percepita non più solo dalle popolazioni del Kalahari ma anche dalla comunità scientifica.
Dal canto loro i san hanno da sempre preferito chiamarsi esclusivamente con i nomi delle singole tribù, evitando denominazioni più generali. Solamente a partire dai tardi anni Novanta anche la loro resistenza è venuta meno e hanno iniziato ad autodefinirsi san o, in alcuni casi, boscimani.
Basarwa è invece una parola di origine tswana, 2) i bantu che vivono nel Botswana, i quali definiscono i rivali san del Botswana come coloro che non allevano mandrie di bovini, traduzione precisa della parola stessa. Basarwa è inoltre l’evoluzione moderna della più antica masarwa, parola dal medesimo significato con l’aggiunta però del prefisso peggiorativo ma, variante considerata più offensiva. I boscimani sono inoltre chiamati mucancalas in Angola, amasili o batwa in Zimbabwe. Il termine khwe invece fa proprio riferimento a una delle differenti tribù dei san, uniche entità cui i boscimani erano soliti conferire nomi per autodefinirsi: oltre ai tsu-khwe altri importanti lignaggi erano i kung e i tuu.
Origini e collocazione geografica
Numerosi ritrovamenti archeologici, quali strumenti da lavoro e particolari pitture rupestri insieme a graffiti, sono le prove certe che collocano i san nella regione del Kalahari già 20.000 anni fa: essi sono pertanto i più antichi abitanti dell’Africa australe. Proprio i loro peculiari disegni li collegano agli uomini del paleolitico superiore, di cui sarebbero i diretti discendenti. È decisamente plausibile che gli antenati dei san siano stati i primi occupanti delle aree corrispondenti agli attuali Botswana e Sud Africa, in quanto nella zona di Tsodilo Hills, nel distretto nord-occidentale del Botswana non lontano dal confine con la Namibia, sono stati rinvenuti utensili in pietra e dipinti d’arte rupestre antichi di 70.000 anni.
Avendo a che fare con una popolazione da sempre distintasi per il suo radicato nomadismo, risulta difficile stabilirne con precisione gli esatti luoghi d’origine: una buona stima porterebbe a circoscrivere il raggio nella zona del Kalahari centrale e centro-settentrionale, proprio tra Botswana, Namibia orientale e Sud Africa settentrionale. È altrettanto possibile ipotizzare brevi migrazioni, a partire dal neolitico, da nord verso sud, ovvero dal cuore del deserto verso il Sud Africa. A favore di questa ipotesi vi è il ritrovamento di una serie di attrezzi, quasi sicuramente attribuibili ai san, all’interno della grotta Border Cave, a KwaZulu-Natal, nei pressi del confine tra Sud Africa e Swaziland.
Altri studi degli ultimi anni parrebbero suggerire un’origine ancor più arcaica, rendendo i san protagonisti di uno dei rami più antichi dell’evoluzione dell’uomo moderno. Gli antenati del gruppo sarebbero rimasti isolati geneticamente per tantissimi anni: nonostante sia stata appurata la presenza nel Kalahari da almeno 20.000 anni, esisterebbero resti di scheletri compatibili con i san decisamente più antichi, risalenti a circa 100.000 anni fa. Questi primordiali antenati sarebbero stati individuati nel popolo degli strandlopers (“camminatori di spiaggia” in afrikaans) o boscopoidi, anch’essi cacciatori-raccoglitori dell’area costiera della Namibia, così chiamati perché erano soliti raccogliere conchiglie e altri organismi arenati sulle spiagge costiere. La caratteristica singolare degli scheletri è il rapporto tra il peso del cervello e del corpo, superiore a ogni altro Homo sapiens mai esistito: i boscopoidi infatti avevano una capacità cranica del 30% più grande rispetto a quella dell’uomo moderno. Da qui è stato facile alimentare la leggenda di un popolo dotato di un’intelligenza fuori dal comune, testimoniata da trappole per la pesca alquanto elaborate e ingegnose e da reperti di sepolture rituali.
Correlate a questa ipotesi risultano altre indagini genetiche, i cui risultati sono stati pubblicati nel settembre 2016 e testimoniano come i san avessero iniziato a diversificarsi dalle altre popolazioni africane a partire da 200.000 anni fa, rimanendo isolati proprio 100.000 anni per poi riunirsi successivamente, risultando così il gruppo più geneticamente diverso tra tutti quelli studiati. I san rappresenterebbero dunque la diretta discendenza genetica della Eva mitocondriale, costituendo il tipo umano più antico, maggiormente vicino agli antenati della nostra specie. 3)
Considerando i ritrovamenti archeologici e i più o meno sicuri esiti delle indagini sul dna, la certezza indiscussa che emerge è che l’antichissimo popolo san ha avuto dagli albori il Kalahari come epicentro della sua lunghissima storia, e le più recenti e comprovate migrazioni sono dovute esclusivamente all’avvento di altri gruppi all’interno dei territori da secoli abitati dai boscimani. All’interno del percorso evolutivo del gruppo etnico, l’assoluto protagonista è infatti il Kalahari, un’enorme distesa di 930.000 kmq. È un deserto di sabbia rossa in parte arido in parte steppico: alcune zone ricevono più di 250 mm di acqua piovana ogni anno, ma la zona veramente arida è quella sud-occidentale dove in media piovono meno di 175 mm. Generalmente il periodo di siccità può variare dai sei fino agli otto mesi: le condizioni di vita sono al limite dell’impossibile.
L’anno, per i boscimani, viene scandito in cinque fasi dall’alternarsi delle stagioni: in ottobre e novembre, la primavera, coincidente con la stagione delle piogge in cui crescono le piante e il deserto fiorisce; seguita dalle grandi piogge da dicembre a marzo in cui vi è incredibilmente abbondanza; successivamente inizia la transizione verso il periodo secco con l’autunno, da aprile a maggio; che diventa inverno da giugno ad agosto, quando la totale assenza di piogge e il freddo la fanno da padroni, con le temperature notturne che scendono tranquillamente sotto lo zero, contrapposte al clima giornaliero relativamente caldo; nell’ultima stagione infine si verifica un rialzo delle temperature verso la fine di agosto e riprende il ciclo delle brevi piogge.
I cacciatori-raccoglitori del Kalahari
Fin dai tempi più remoti i san hanno quindi dovuto fare i conti con un ambiente naturale isolato, impervio e parecchio inospitale come quello del Kalahari, nei confronti del quale hanno però saputo adattarsi con successo, trasformando le poche fonti disponibili in vere e proprie risorse utili non solo alla sopravvivenza ma anche a una più che dignitosa esistenza. L’insieme di tutti questi espedienti, siano essi tecniche di caccia o semplici abitudini quotidiane adottate e consolidate, vanno a completare il ricco patrimonio culturale cementato nelle radici dell’etnia, che rende l’idea di una società fondata e cristallizzata su caratteri precisi. Questi elementi peculiari sono stati propri della cultura boscimane per tutti i secoli della loro storia, almeno fino agli eventi più recenti allorché il contatto e lo scontro con nuove popolazioni giunte nell’area ha modificato sostanzialmente lo stile di vita indigeno, rompendo l’equilibrio millenario instaurato con lo spazio circostante.
L’abbandono imposto delle terre natali e la parziale integrazione forzata all’interno di sistemi sociali loro estranei hanno contributo alla dispersione di gran parte di queste tradizioni, provocando un generale smarrimento dell’identità di gruppo, e della trasmissione e conoscenza dei singoli tratti culturali specifici di generazione in generazione. Uno degli aspetti più significativi che ha da sempre caratterizzato questo gruppo etnico è il nomadismo, che ha determinato alcune scelte sociali: privilegiando gli spostamenti in luoghi diversi, i san non hanno mai preso in considerazione attività stanziali a differenza di altre popolazioni dell’Africa meridionale che, come abbiamo già accennato, si sono affermate come allevatori sedentari.
Fondamentale in questo processo è l’approfondita conoscenza dei propri luoghi e l’autentico e completo rispetto che hanno costantemente riservato all’ambiente. Hanno sviluppato metodi e tecniche di caccia incredibilmente efficaci: erano soliti infatti riconoscere senza problemi le orme di tutti gli animali, riuscendo a stabilirne età, sesso, condizioni di salute e, in alcuni casi, a provare a prevederne le mosse. Altro punto di rilievo è che sono sempre stati contrari alle uccisioni indiscriminate: non si procuravano più selvaggina dello stretto necessario, uccidendo solamente per sostentamento o autodifesa, mostrando una reale comprensione delle dinamiche ecologiche del territorio in cui si trovavano a vivere, rispettandone flora e fauna. I bambini erano educati al rispetto di tutte le forme viventi, animali e vegetali, presenti sulla terra e in caso di atti violenti contro queste venivano puniti. I san si distinguevano dunque come eccellenti cacciatori, in particolare di antilopi, grazie all’ausilio di sofisticate trappole e stratagemmi. L’arte della caccia era praticata tendenzialmente dagli uomini, ma in alcuni casi non era poi così inusuale che vi prendessero parte anche alcune donne. Sicuramente si trattava di un’attività lunga, impegnativa e collettiva che impiegava giorni se non settimane e nella quale erano fondamentali collaborazione e cooperazione. Le battute di caccia iniziavano con la scelta della direzione verso cui muoversi: successivamente, una volta individuate impronte o tracce sul manto sabbioso, evitando qualsiasi rumore, esse venivano seguite per giorni fino a raggiungere la preda. Qui venivano sfoderate le tipiche armi del gruppo, arco (di circa 1 metro di lunghezza) e frecce avvelenate.
Queste ultime meritano un piccolo approfondimento, che testimonia ulteriormente l’enorme perizia tecnica dei san a riguardo, unita a notevole arguzia e perseveranza. Le frecce erano infatti costruite con materiali rudimentali quali legno duro o osso per la punta e, cosa più interessante, completamente intinte nel veleno. Il grande escamotage dei san era quello di ricoprirle con una potente combinazione velenosa costituita dalla linfa estratta dal tronco dell’Euphorbia damarana, 4) specie endemica dell’Africa australe, e dal succo di due tipi di coleotteri (diamphidia e polyclada), mescolati in alcuni casi con altro veleno di serpente o millepiedi. Questa miscela rilasciava tossine che uccidevano in poche ore le ignare prede. La preparazione delle frecce seguiva un vero e proprio rituale: i cacciatori si radunavano intorno al fuoco acceso poco lontano dal centro dell’accampamento, narravano le loro migliori battute di caccia passate ed estraevano i liquidi velenosi in piccole tazze ricavate dal femore di una giraffa o dalle stesse antilopi. In alcuni casi aggiungevano anche altre particolari sostanze vegetali, dopo averle a lungo masticate, che avrebbero poi stimolato il cuore velocizzando la messa in circolazione del veleno. Il tutto terminava con riti propiziatori.
Le battute di caccia potevano quindi durare più settimane e prevedevano un gran numero di ore giornaliere passate in silenziosa attesa. Al momento opportuno veniva scagliata la freccia, e se la preda era colpita veniva inizialmente seguita nell’attesa che facessero effetto le sostanze velenose. Quando l’animale moriva si procedeva a squartarlo per iniziare a consumarne la carne immediatamente sul posto. Doveva necessariamente essere identificato chi avesse scagliato la freccia mortale in quanto a lui spettava la parte migliore, e sempre lo stesso aveva il diritto di distribuire la selvaggina tra i componenti della brigata di caccia. Non era una prerogativa esclusiva degli uomini: se la freccia mortale era stata scagliata da una donna il meccanismo era identico. Inoltre il resto della cacciagione non consumato in loco veniva ridistribuito in famiglia e anche donato a chi invece famiglia non aveva o era impossibilitato ad andare a caccia.
In alcune situazioni, il protagonismo delle donne nelle operazioni di caccia e successiva divisione, insieme alla condivisione della carne anche con chi non era in grado di cacciare, testimoniano un viscerale senso di solidarietà reciproca e di fratellanza clanica, sintomi di una società sostanzialmente egualitaria.
In seguito a battute di caccia redditizie i boscimani si lasciavano andare a festeggiamenti e danze che duravano tutta la notte e in cui gli uomini a volte arrivavano addirittura a lanciarsi le frecce gli uni contro gli altri simulando le scena vissute poche ore prima. Le danze svolgevano anche la funzione di propiziazione per la fertilità ed erano accompagnate dal suono di strumenti come flauti di canna o di osso e di tamburi.
Questi festeggiamenti avvenivano sempre in notturna in contrapposizione alle battute, che invece iniziavano all’alba e che, per le missioni più impegnative, vedevano i san cospargersi la faccia di terra rossa, bianca e gialla in segno di buon auspicio. Spesso si travestivano con pelli di animali, e in alternative alle frecce potevano anche impiegare lance. Oltre alle antilopi venivano cacciati – anche se in misura decisamente minore – struzzi ed elefanti, Per le antilopi più piccole si adoperavano particolari trappole a cappio appese sulle estremità degli alberi che “impiccavano” le bestie al loro passaggio. È evidente come i boscimani abbiano sfruttato nel modo più concreto possibile le pochissime risorse a loro disposizione in questo particolare habitat naturale, dimostrando un’invidiabile intelligenza e una ragguardevole abilità pratica. È altrettanto chiaro che l’arte della caccia non si limitava per loro a una mera attività volta esclusivamente alla sopravvivenza, ma va interpretata con una doppia chiave di lettura: costituisce un preciso rituale riconducibile proprio a questo popolo specifico e ne rappresenta uno degli elementi culturali più rilevanti.
Altrettanta importanza rivestiva l’attività della raccolta, generalmente praticata dalle donne che, due o tre volte alla settimana, con l’ausilio dei classici bastoni da scavo (kibi), si inoltravano nel deserto alla ricerca di erbe selvatiche, radici, piante, frutti, bacche, tuberi, funghi e bulbi. Erano solite raccogliere oltre 100 specie di piante, ma solamente quanto serviva loro, senza eccessi, nell’ottica del costante rispetto per la natura circostante. La dieta boscimane era dunque costituita da carne derivante dalla caccia e da ogni tipo di vegetale commestibile raccolto insieme a uova di uccelli e favi di miele; occasionalmente, anche piccoli organismi animali come bruchi, lombrichi e larve.
Una delle caratteristiche più strabilianti degli indigeni boscimani è la loro straordinaria conoscenza della natura, e nello specifico dei diversi fenomeni fisici e biologici, accompagnata da un’altrettanto significativa competenza in discipline come medicina, anatomia, botanica, zoologia ed etologia; lo dimostrano gli atteggiamenti quotidiani e il loro stesso modus vivendi, che richiedono il possesso di basi radicate e nozioni complesse. Essi conoscevano alla perfezione il valore nutritivo, le proprietà medicali e lenitive della maggior parte delle piante presenti nel Kalahari, così come il loro eventuale utilizzo come veleno o cosmetico. Segno di notevole intelligenza era anche il fatto che solitamente non sprecavano quasi nulla delle prede uccise, dalle parti commestibili alle pelli: la vescica veniva usata come contenitore, l’intestino come corda, le ossa per diverse funzioni.
I san vivevano nelle proprie terre ancestrali rispettando l’ambiente, non dominandolo o sfruttandolo oltre lo stretto necessario. L’acqua, risorsa scarsa ma importantissima, veniva costantemente ricercata: in alcuni luoghi l’acqua delle pozze veniva succhiata direttamente dal terreno mediante cannucce munite di filtro realizzato con una piuma di struzzo. Altre fonti di abbeveramento erano i meloni selvatici tsama e i tuberi di kwa dal gusto amarissimo che veniva smorzato grazie all’aggiunta di foglie di altre erbe aromatiche.
Durante le migrazioni, in particolare nel periodo di siccità, essi sotterravano lungo il cammino uova di struzzo riempite d’acqua e chiuse con un tappo d’erba, preziose risorse idriche imprescindibili. Le uova di struzzo, oltre che come contenitori, erano anche tra i protagonisti della dieta boscimane, in particolare per anziani e bambini. Gli uomini scovavano un nido, raccoglievano le uova e le scuotevano a una a una per verificare che all’interno non vi fossero piccoli; in caso negativo, le portavano all’accampamento per cuocerle a frittata, uno dei loro piatti più elaborati, la cui realizzazione era scandita da passaggi precisi: veniva aperto un foro sulla sommità dell’uovo per introdurvi un rametto e mescolare a lungo il contenuto; in seguito il liquido veniva versato in un guscio di tartaruga e messo in una buca poco profonda circondata da tizzoni ardenti fino a quando la frittata prendeva consistenza con la cottura. Una volta completamente cotta, la cenere veniva soffiata via e la pietanza suddivisa tra i membri della tribù. I gusci delle uova, come dicevamo, venivano utilizzati come borracce lungo i percorsi nel deserto o raggruppati nelle capanne contrassegnate con simboli specifici in modo da distinguerne il proprietario.
Società clanica, parentela nominativa e ripari mobili
Il sistema sociale dei boscimani presentava una struttura incentrata su clan familiari di massimo 50 persone, che si riunivano tutte assieme solo per occasioni speciali quali matrimoni, sepolture e reciproci scambi di doni o notizie. L’unità basilare era quindi rappresentata dal nucleo familiare allargato, riunito in un singolo villaggio, comunemente nei pressi di una fonte idrica. All’interno della tribù ogni situazione degna di dibattito veniva discussa in forma collettiva, un confronto in cui ogni membro poteva esprimere la propria opinione. Infatti, a differenza di altri popoli indigeni dell’Africa, non c’erano veri e propri capi o comandanti supremi, ma il ruolo di leader veniva assunto in circostanze particolari dagli anziani che godevano comunque di una comprovata autorità. Tali occasioni potevano essere le battute di caccia, il momento di scegliere un determinato luogo dove porre l’accampamento, incontri e scambi con altri gruppi di san: in questi casi era dunque l’esperienza a determinare l’assunzione del ruolo.
Un altro aspetto significativo era la condivisione di ogni cosa all’interno del clan, in particolare dei prodotti della caccia e della raccolta che venivano distribuiti tra tutti i componenti. Si può notare come i punti basilari della società boscimane fossero la famiglia nella sua più ampia eccezione, e una struttura sostanzialmente egualitaria e collettivista. Non esistono fonti che citino l’operato o le iniziative particolari di qualche capo specifico: all’interno della comunità vi era parità di ruoli e diritti.
L’unità base della famiglia allargata si poteva dunque aggregare, in determinati frangenti, ad altre famiglie andando a costituire un’orda; più orde a loro volta costituivano una fazione che poteva arrivare a contare qualche migliaio di componenti. Anche all’interno di queste entità più ampie non esistevano capi o guide predefinite, né tantomeno una struttura gerarchica. La famiglia stretta era il centro della vita di ogni indigeno: i san risultavano organizzati in nuclei esogamici patrilineari dove il matrimonio seguiva la norma uxorilocale: l’uomo per ottenere in sposa la donna aveva l’obbligo di cacciare per la famiglia della futura moglie fino alla nascita del primo figlio, inoltre doveva assolutamente evitare di incontrare la suocera e di incrociare lo sguardo del suocero.
Generalmente erano monogami, ma se un cacciatore si dimostrava abilissimo procurandosi ingenti quantità di cibo nel corso delle battute di caccia, gli era anche consentito scegliere una seconda moglie. Per la scelta del consorte vi era una discreta libertà, anche se spesso i futuri coniugi potevano subire l’influenza delle madri nella decisione. Tuttavia, se l’unione non si dimostrava felice, era lecito da parte di entrambi porre fine al matrimonio divorziando, con la libertà più avanti di risposarsi. Era invece severamente vietato il matrimonio tra consanguinei e parenti di primo e secondo grado, considerato incestuoso e severamente punito, così come l’adulterio.
Rigorose erano anche le cerimonie d’iniziazione relative al passaggio dei bambini all’età adulta: una volta raggiunta la pubertà, i giovani maschi e femmine venivano separati e condotti in luoghi estremamente isolati in cui erano istruiti alle tradizioni e usanze del gruppo, e sottoposti a dure prove e cerimonie d’iniziazione. In particolare tra i boscimani kung era prassi comune prendere moglie in tenera età, sicché un adolescente doveva prima dimostrare la propria virilità uccidendo una grande quantità di selvaggina durante la caccia e in seguito sottoporsi ad altri riti cerimoniali, poi poteva finalmente convogliare a nozze.
La famiglia non era dunque vista come una categoria chiusa e statica, ma oltre ai rapporti di parentela tra consanguinei i boscimani possedevano anche una sorta di parentela di nome: le persone più anziane della comunità che portavano lo stesso nome erano chiamate dai giovani omonimi come “nonno” o “nonna”, i più giovani invece “nipoti” dai membri più vecchi che avevano il medesimo nome. Inoltre coloro che erano sposati con una persona con lo stesso nome di un altro membro della tribù, erano da quest’ultimo chiamati “moglie” o “marito” e viceversa; così come i genitori che avevano dei figli con lo stesso nome di un’altra persone della comunità venivano apostrofati come “padre” o “madre”. Da queste informazioni appare evidente come il nome rivestisse notevole importanza nella società san, a tal punto da potere, in alcune situazioni, influenzare la scelta del futuro coniuge: le donne infatti tendevano a evitare di convogliare a nozze con uomini che avessero lo stesso nome del proprio padre o fratello, e lo stesso capitava agli uomini.
Per quanto riguarda i più giovani, la nascita di un figlio non rappresentava un evento straordinario ma era inserito nell’ordine naturale delle cose, non essendo previste cerimonie dedicate o rituali propiziatori. Quando la donna era sul punto di partorire veniva fatta allontanare dal centro del villaggio e portata dalla propria madre tra i cespugli, dove poteva dare alla luce il suo piccolo. I bambini non avevano doveri e obblighi sociali oltre al gioco, il divertimento veniva considerato fondamentale a ogni età. Infatti gli indigeni trascorrevano ore intere a giocare con i figli cercando di farli divertire in tutti i modi con scherzi, musica e danze, donando loro un’infanzia serena. Lo svezzamento durava parecchio, con allattamento protratto fino a tre o quattro anni: per questa ragione i boscimani, rispetto ad altre popolazione africane, non avevano un numero elevato di figli, di norma tre o al massimo quattro.
Il ruolo della donna, come si è già potuto comprendere, era centrale e per nulla passivo o subalterno: protagoniste della raccolta di erbe selvatiche, frutta e qualsiasi tipo di vegetale commestibile, a volte partecipavano anche alle missioni di caccia. Veniva tributato loro enorme rispetto da tutto il clan, ed erano le organizzatrici delle attività nella famiglia ristretta. Potevano essere coinvolte anche nelle discussioni riguardo alla scelta delle aree di caccia e di stanziamento dell’accampamento, dal momento che, essendo abituate a perlustrare il terreno, avevano imparato a conoscerlo profondamente e riuscivano a individuare facilmente eventuali sorgenti nelle vicinanze, elemento cruciale nella scelta di posizionare il villaggio. Le donne venivano anche interpellate e prendevano parte attiva alle “assemblee collettive” della comunità, trattate alla stregua degli individui maschi, così come erano in prima fila nell’attività di scambio o regalo di doni quando i differenti clan si riunivano insieme in occasioni speciali, unica forma di baratto conosciuta dal gruppo.
I boscimani non disponevano di enormi villaggi, le loro abitazioni assomigliavano a rifugi temporanei, che in talune circostanze potevano essere ripari dalla forma sferica realizzati con rami e frasche o essere localizzati in caverne, nei crepacci delle rocce o delle rupi, spesso su alture dominanti per avere una piena visuale. Quando trovavano una posizione favorevole nella quale stanziarsi, costruivano un villaggio più grande con abitazioni più stabili. Tradizionalmente l’accampamento era formato da capanne circolari realizzate con paglia e fango, all’interno delle quali dormivano sulla sabbia, coperti da mantelli. Durante la stagione calda l’accampamento veniva spostato di frequente, così i membri della tribù erano abituati a raccogliere solo gli strumenti strettamente necessari e partire velocemente. Si portavano dietro pochi utensili da cucina, qualche vaso d’argilla, scodelle di legno, un mortaio e le stuoie per eventuali rifugi paravento, creati avvicinando diversi rami legati insieme all’estremità superiore e ricoperti di erbe intrecciate.
Caratteristiche fisiche e “abbigliamento” tradizionale
Le genti boscimane presentano una struttura fisica con caratteristiche anatomiche particolari che permettono di differenziarli da altri gruppi autoctoni del continente africano. Sono infatti di piccola statura (160 cm di media), hanno un tronco ridotto e braccia e gambe molto corte e sottili così come mani e piedi: i loro corpi si mostrano minuti e magri. La pelle è relativamente chiara tendente al giallastro, nota per essere sostanzialmente sprovvista di grasso cutaneo e di conseguenza più rugosa, propensa alla gerontodermia. I volti sono caratterizzati dalla piattezza; così come il naso, largo e piatto, le orecchie piccole e senza lobo, la bocca prominente e le labbra carnose; gli occhi scuri allungati esibiscono una piega cutanea davanti alla palpebra, denominata plica mongolica. 5) I capelli sono neri, corti e crespi, il cranio basso e allungato. In molte donne san si nota un’accentuata steatopigia, ovvero una pronunciata lordosi lombare dovuta all’accumulo di tessuto adiposo sui glutei, un tratto tipico della maggior parte delle donne dell’intero gruppo khoisan.
Il vestiario dei boscimani è dominato dalla semplicità: gli uomini indossano un triangolo di cuoio legato ai fianchi con una corda e un mantello sempre di cuoio sulle spalle; le donne portano un doppio grembiule che scende a coprire davanti e dietro, e all’interno del quale è anche possibile portare i bambini piccoli. Come ornamenti cingono a braccia, gambe e collo anelli e catene composti da dischi realizzati con i classici gusci di uova di struzzo, mentre gli uomini portano fregi che rappresentano trofei di caccia, come sottili anelli di peli della coda di elefanti e giraffe, insieme a vari amuleti e anelli d’erbe intrecciate. Gli uomini hanno a disposizione un sacco di cuoio dove ripongono i pochi averi come tabacco, canapa, una pipa fatta con un osso cavo e un punteruolo di ferro al posto dell’antica lesina: in alcuni casi cucita insieme al sacco vi è anche la faretra dove sono conservate le “preziose” frecce ricoperte di veleno e il bastone per accendere il fuoco. L’arco viene invece legato alla faretra e portato nelle battute di caccia insieme a lance e al bastone da scavo.
All’interno dell’accampamento, le donne possono usufruire del paravento e di un focolare costituito da tre pietre su cui cuociono le pietanze.
Mitologia, credenze e rituali tradizionali
I san godevano di un patrimonio culturale ricco e completo che era formato dall’insieme di credenze spirituali e dalla venerazione di loro divinità, integrati in un complesso sistema di procedure rituali. La loro religione risultava incentrata su un principio dicotomico: credevano che l’uomo fosse formato da due corpi: uno invisibile che alla morte fisica emigrava alla volta del cielo, un altro che dimorava nella tomba del defunto ma poteva continuamente trasformarsi in animale (in particolare serpenti o antilopi). Il medesimo dualismo si riscontrava anche nel loro pantheon dove le divinità principali erano rappresentate da una coppia antitetica: il malvagio Gauab o Nawa, signore dei morti, responsabile di inviare sulla terra le malattie, e Kaggen o Kang, il dio benefico signore degli animali che si manifestava solitamente con l’aspetto di una mantide, ma poteva anche rivelarsi sotto le spoglie di una lepre, di un serpente, di un avvoltoio, di un eland 6) o addirittura di un qualunque boscimano in carne e ossa.
Una versione successiva riportava invece la teoria secondo la quale Kaggen avesse l’aspetto di un gigantesco corvo nero dalla testa piatta e artigli sulle ali, mentre la precedente identificazione nella mantide sarebbe stata solo frutto di un malinteso lessicale: il termine utilizzato per indicare il dio supremo e l’animale dal colore verde avrebbero una pronuncia quasi identica, e nel corso delle generazioni si sarebbe tramandato questo presunto errore. Non possiamo stabilire con certezza quale sia la versione più veritiera, tuttavia si può dedurre l’importanza degli animali nella vita dei san: per loro infatti ogni animale era stato in precedenza un essere umano e anche per questa ragione non veniva mai uccisa più selvaggina dello stretto necessario. Entrambe le divinità avevano moglie e figli, e se smembrate erano in grado di ricomporsi nella loro interezza. Kaggen viveva nel cielo e provocava pioggia e temporali, veniva invocato e attraverso altri spiriti propiziava le attività tradizionali del gruppo, caccia e raccolta di cibo. Chi osava nominare il suo nome invano restava immediatamente fulminato. Accanto a queste due figure centrali, assolute protagoniste della cosmogonia san, si trovavano divinità minori e gli spiriti degli antenati, sempre ricordati e venerati da tutti i membri del nucleo familiare.
La mitologia dei boscimani non era provvista di un autentico mito della creazione così come inteso da altre culture e gruppi etnici, ma alcune leggende provavano a spiegare, non con reale coerenza, l’origine della terra e dei principali fenomeni naturali. Per esempio, il sole sarebbe stato in passato un uomo che abitava in una capanna e quando alzava il braccio la luce cominciava a splendere dalla sua ascella, quando lo abbassava la luminosità veniva meno e diventava notte. La luna sarebbe invece stata la scarpa di una mantide che aveva gettato in cielo in un tempo remoto; la Via Lattea, cenere di legno scagliata sempre nel cielo da una ragazza insieme a radici bianche e rosse, poi tramutatesi in stelle. Un’altra leggenda narrava che l’unico essere vivente a possedere il fuoco fosse lo struzzo, tanto che gli uomini nei tempi più antichi erano costretti a scaldarsi con pelli di animali e a nutrirsi di carne cruda. Un giorno però una coppia di boscimani notò una forte luce sotto l’ala di uno struzzo e, incuriositi dal bagliore, lo distrassero e gli rubarono il fuoco: da quel momento gli uomini appresero l’arte del fuoco e furono gli unici in grado di accenderlo, mentre lo struzzo, ancora sbigottito e adirato per l’inganno, smise di utilizzare le ali: ecco perché questi animali, pur essendo uccelli, non volano.
Notevole rilevanza nella tradizione san rivestivano anche i rituali funerari, i riti di guarigione e quelli propiziatori per la pioggia, la caccia e la raccolta. I boscimani erano abituati a seppellire i morti inumandoli in fosse in posizione fetale con le ginocchia contro il petto. Insieme venivano interrati anche tutti gli averi del defunto, mentre il corpo era avvolto in un mantello decorato con perle e in seguito sotterrato. La tomba veniva ricoperta con cumuli di pietre, erbe e rami spinosi affinché risultasse protetta da eventuali aggressioni di animali, poi era consuetudine accendere un fuoco e conficcare nel terreno un filo d’erba orientato sulla stessa linea della tomba, del fuoco e della località di nascita del morto; infine l’intero luogo veniva abbandonato e non vi si doveva fare più ritorno per almeno due anni, nonostante la persona scomparsa fosse costantemente ricordata e celebrata.
Riguardo ai defunti, i san erano propensi a credere che essi non si allontanassero per sempre, ma in particolare nel periodo immediatamente successivo al trapasso rimanessero nei pressi del villaggio e, in alcuni casi, potessero addirittura causare malattie, incidenti se non altre morti all’interno del clan. Pertanto nella loro società erano fondamentali anche i riti di guarigione: i malati non dovevano essere guariti esclusivamente dal punto di vista medico-sanitario ma anche da quello spirituale, innescando attraverso una danza cerimoniale l’energia vitale presente all’interno del corpo dell’infermo. Questa procedura tradizionale veniva compiuta quattro volte al mese per tutta la notte: acceso un grande fuoco al centro del villaggio, le donne intonavano cori sedute in cerchio mentre gli uomini vi danzavano attorno; all’intensificarsi della danza i guaritori – individui che potevano appartenere a entrambi i sessi, scelti tra i membri più anziani della tribù – iniziavano ad attivare la propria energia vitale, a sudare, a cadere in uno stato di trance, e quindi erano portati dai malati ai quali posavano le mani sul petto o sulla schiena. Dopo diversi massaggi speciali, “rinvigorivano” l’energia vitale propria del soggetto e contemporaneamente “estraevano” la malattia dal corpo e scuotendo le mani la allontanavano via per sempre.
La tradizione san riteneva l’energia dei guaritori localizzata nel loro stomaco e nella parte inferiore della colonna vertebrale. Durante le danze e i canti questa particolare energia saliva dal basso verso l’alto raggiungendo la testa del guaritore prima, gli dèi e gli spiriti degli avi e dei defunti nel cielo poi.
Esaminando il processo tipico del rito di guarigione di questo gruppo emerge ulteriormente un radicato e ferreo spirito collettivo comunitario e un profondo legame tra tutti i membri della comunità: nessuno è infatti superiore agli altri, ognuno è fondamentale nella celebrazione del rito e si impegna per la guarigione del compagno malato, tutti i boscimani sono posti su un medesimo piano di importanza e funzionalità. Quindi, così come è palese che non esistesse una reale e rigida gerarchia sociale all’interno del clan, è altrettanto evidente l’assenza di una gerarchia religiosa. Non si parla di una stretta cerchia di individui scelti come guaritori né tanto meno di élite sciamanica come in altri gruppi etnici, ma costoro possono essere arruolati di volta in volta indistintamente tra uomini e donne, con l’unico requisito di una lunga esperienza di vita all’interno della comunità. Studiando l’universo mitologico e il sistema rituale locale, è possibile classificare la religione boscimane come animista, lontanissima dalle grandi religioni monoteistiche e dai loro rigorosi princìpi e livelli gerarchici.
Altre credenze autoctone si fondavano sulla convinzione che per ottenere buoni risultati nella vita quotidiana fosse necessario attuare una serie di riti propiziatori fatti di cerimonie, preghiere e sacrifici. Queste manifestazioni erano volte a garantire auspici favorevoli per attività tradizionali come la caccia e la raccolta, ma anche prima di partire per un viaggio alla ricerca di un nuovo accampamento o per invocare la pioggia. Come già detto in precedenza, la caccia stessa rappresentava una particolare situazione rituale in cui i boscimani mettevano in atto comportamenti reiterati ed estremamente peculiari, così come le successive danze di ringraziamento per festeggiare una caccia fruttuosa che si protraevano per l’intera nottata. Infine, elemento davvero significativo all’interno del mondo san era l’acqua, risorsa tanto preziosa quanto rara, per questo mai sprecata ma ricercata con grande cura e dedizione, invocata, venerata e protetta con ogni sorta di stratagemma possibile.
Un popolo di “graffitari” con una lingua di click
Un altro tra gli elementi per i quali i san sono più noti è sicuramente la loro particolare vena artistica: in tutto il Kalahari sono state rinvenute pitture murali e affreschi su roccia riconducibili al nostro gruppo etnico. I san, fin dai tempi più remoti, si sono dunque distinti come grandi pittori e incisori, realizzando disegni con molteplici situazioni della loro quotidianità che sono giunti fino a noi e possono essere considerati a tutti gli effetti opere d’arte. Si tratta di petroglifi, ovvero segni e graffiti scolpiti nella pietra mediante l’utilizzo di strumenti a punta dura (roccia o metalli come bronzo e ferro) simili a scalpelli, seguendo una tecnica di picchiettatura. I disegni, ricchi di colori e per questo definiti incisioni policrome su roccia, venivano realizzati soprattutto sulle pareti granitiche delle caverne dove in tempi alquanto remoti i san – e prima i loro antenati – dimoravano, oppure sopra grandi massi sparsi negli ampi spazi aperti del deserto.
Solitamente sono per lo più rappresentate scene di caccia e di guerra all’interno di un contesto paesaggistico fortemente naturalistico, ove l’accento è anche posto sugli elementi vegetali e animali. In alternativa raffigurano episodi collegati alla routine della vita nell’accampamento, in particolare danze rituali e invocazioni agli dèi. Alcuni ritrovamenti di pitture rupestri riguardanti elementi riconducibili alla sfera magico-religiosa e mitologica (animali o figure umane con volti di animali) testimoniano ancor più l’importanza e complessità della cultura immateriale boscimane, considerata un mezzo imprescindibile per portare avanti una vita felice e appagante.
Il significato di queste pitture rupestri non è infatti da ascriversi esclusivamente alla bravura locale in una specifica disciplina artistica o alla volontà di produrre pittogrammi come mero hobby per trascorrere il tempo nel deserto, ma è intriso di rimandi e richiami religiosi e simbolici, che in alcuni casi si rifanno a concetti e valori precisi: dipingere un eland o un antilope, per esempio, non voleva dire solo raffigurare e riprodurre manualmente l’animale, ma esprimere la sacralità riposta dal gruppo nell’animale. Il fine ultimo era quindi liberarne l’essenza e aprire così a tutti i membri della tribù le porte del mondo spirituale. Capiamo dunque la notevole rilevanza simbolica dell’arte pittorica e della sua connessione con l’universo di credenze dei boscimani, uno dei punti nevralgici della loro società.
I petroglifi sono utili anche per motivi di datazione archeologica: essi testimoniano la millenaria presenza dei san nell’area, e l’attribuzione temporale di diverse opere ha contribuito a dipanare la matassa della loro storia evolutiva. Molti pittogrammi risultano eseguiti sicuramente oltre 25mila anni fa, altri, come quelli della regione di Tsodilo Hills in Botswana, addirittura 70mila anni fa, tracce fondamentali per provare a ricostruire almeno in parte le radici storiche di gruppi che hanno da sempre abitato un’area poco densamente popolata come il Kalahari e per questo assai scarna di prove e documenti certi. Le migliori pitture rupestri sono state rinvenute a Twyfelfontein in Namibia, nei Monti Drakensberger in Sud Africa, e in Zimbabwe nelle Matopo Hills: si noti come queste località si trovino in zone differenti del Kalahari, a parecchi chilometri di distanza tra loro e anche abbastanza lontane dal cuore del territorio dei san in Botswana, attestando il perpetuo e secolare nomadismo del gruppo che tendeva a spostarsi in continuazione.
L’impiego di strumenti per realizzare queste incisioni insieme ad altri utensili costruiti in modo simile, ha portato a considerare i san come “maestri dell’industria litica”, esperti nel fabbricare qualsivoglia utensile servisse loro nelle attività quotidiane tradizionali. Oltre ai famosi punteruoli per scolpire la roccia venivano prodotti schegge e coltelli per sventrare gli animali nel momento della cattura, punte di lance e frecce in pietra, così come mortai per schiacciare semi e cavallette ottenuti da grossi massi di pietra, e infine una parte degli importantissimi bastoni da scavo utilizzati durante caccia, raccolta e ricerca del luogo adatto per insediare l’accampamento.
I san parlavano idiomi differenti a seconda dell’area geografica nella quale vivevano ed erano soliti spostarsi: tutte queste lingue boscimane appartengono alla famiglia khoisan, le storiche lingue del più ampio gruppo formato dall’insieme delle etnie khoi e san, che rappresenta il più piccolo phylum linguistico africano. È formato solo da cinque famiglie linguistiche principali che a loro volta comprendono altri idiomi diffusi dal Sud Africa all’Angola, dal Botswana alla Tanzania, dimostrazione della grande mobilità di questi popoli. Alcuni studiosi hanno ipotizzato eventuali parentele con le lingue nilotiche e camitiche a causa di leggere somiglianze. La maggior parte dei dialetti appartenenti a questi sottogruppi contano pochi parlanti, alcuni si sono estinti nel corso degli ultimi anni.
Nel XX secolo le lingue khoisan erano state suddivise secondo un criterio meramente geografico in settentrionali, centrali e meridionali: quelle parlate dai boscimani appartenevano al ramo centrale o meridionale. Tutti gli idiomi appartenenti a questa famiglia sono caratterizzati da profonde affinità reciproche, soprattutto il distinguersi dalle altre per i noti click, suoni avulsivi consonantici simili a schiocchi che vengono prodotti mettendo la lingua in maniera particolare tra palato e gengive, mediante aspirazione. Questi click sono il principale segno di riconoscimento della lingua boscimane, che viene immediatamente notato e indentificato da coloro che ascoltano una conversazione pur non conoscendo il loro dialetto: oltre al particolare suono si rimane colpiti anche dalle deformazioni della mascella che vengono compiute per pronunciare questi fonemi. I click vengono solitamente trascritti impiegando simboli non alfabetici come punti esclamativi o barre verticali: esistono centinaia di questi fonemi codificati, ognuno dei quali può a sua volta presentare tonalità differenti. Le consonanti click sono proprie anche di altri idiomi, per questo le lingue della famiglia khoisan vengono anche inserite, secondo un’altra classificazione, in un ampio raggruppamento formato da altre con i medesimi fonemi, come bantu (xhosa, zulu, sesotho) e la lingua dahalo diffusa in Kenya. È lecito supporre che i click bantu derivino proprio da quelli khoisan, mentre quelli dahalo sarebbero stati mutuati da un altro ceppo linguistico, antecedente a quello san. Questi particolarissimi suoni si trovano anche in alcuni dialetti degli aborigeni australiani, in particolare nella lingua cerimoniale damin.
Dal punto di vista grammaticale i dialetti san hanno altrettante caratteristiche comuni, come l’utilizzo del genitivo che precede il nome della cosa posseduta, la differenziazione di modi e tempi verbali attraverso l’utilizzo di particelle preposte, il plurale formato grazie a suffissi (a parte nel kham dove si fa con il raddoppiamento) e i pronomi e aggettivi numerali che arrivano solamente al 3. Quindi anche il linguaggio del popolo boscimane risulta originalissimo, dominato dalla presenza dei click. I san, tuttavia, sono abituati a comunicare non solo con le parole ma anche con il resto del corpo attraverso sguardi, movimenti della testa e messaggi con le mani. Queste consuetudini probabilmente traggono la loro origine dalle tattiche di comunicazione silenziosa messe in atto per dare indicazioni durante la caccia.
Migrazioni e colonizzazione: inizio della perdita dei territori ancestrali
Tutti i differenti aspetti materiali e immateriali legati alla tradizione san finora descritti costituivano quell’eterogeneo e articolato complesso di usanze, abitudini e riti che formava la società boscimane nella sua interezza, un sistema composto da elementi assai particolari e originali, che da un lato permettevano una netta distinzione con altre culture, dall’altro contribuivano a rafforzare l’identità collettiva di gruppo. Purtroppo dobbiamo utilizzare i verbi al passato, in quanto le vicende che nella storia moderna e recente hanno coinvolto i san, hanno concorso alla dispersione dei principali tratti di questo popolo davvero unico nel suo genere. La cultura originaria boscimane è oggi quasi interamente andata perduta, e questo smarrimento rischia di trascinare nell’oblio anche l’intero gruppo etnico. Le migrazioni nella zona del Kalahari di nuove etnie provenienti da altre aree del continente africano e l’arrivo dei coloni europei hanno significato la cacciata degli indigeni dai loro luoghi originari; un successivo processo sia di sottomissione e persecuzione, sia di integrazione forzata se non di manifesto assorbimento, hanno determinato la fine della libertà dei san di praticare attività e riti tradizionali, la trasformazione del loro stile di vita e nel complesso la rottura del loro millenario sistema sociale: essi sono stati protagonisti di uno sradicamento fisico e morale-affettivo dalle terre dei padri così come dai loro meccanismi di comunità e cultura tradizionale.
L’inevitabile conseguenza è l’annullamento dell’identità boscimane e il serio rischio di scomparsa dell’intera etnia. L’inizio di questo triste percorso va individuato nelle migrazioni interne al continente africano avvenute tra il X e il XV secolo dei “cugini” khoikhoi o più semplicemente khoi, meglio noti come ottentotti, e degli tswana, popolo di etnia bantu. I khoi appartenevano allo stesso ceppo etnico dei san con i quali andavano a comporre appunto la famiglia khoisan, e i loro idiomi erano strettamente imparentati. Tuttavia dal punto di vista culturale vi erano profonde e radicate differenze tra le due società: i khoi erano dediti alla pastorizia, tanto che il loro stesso nome indicava l’abitudine di possedere animali domestici, e si definivano “veri uomini” in opposizione ai “diversi da noi” san, diversi in quanto non possessori di animali domestici. Già analizzando la terminologia con cui i khoi si autodefinivano e, per contrasto, definivano i “parenti” san, non usando neanche un termine specifico ma descrivendoli come il proprio contrario, emerge un netto senso di superiorità dei primi nei confronti dei secondi, che si tradurrà anche nella realtà socio-territoriale. L’aspetto significativo era rappresentato dalla circostanza che i khoi erano, a differenza dei cacciatori-raccoglitori boscimani, esclusivamente allevatori e occupavano in modo stanziale i propri territori. Di conseguenza una volta giunti nell’area da secoli abitata dai san iniziarono a occupare in modo pressoché definitivo alcuni lembi di terra funzionali all’allevamento, cominciando a scacciare verso sud i boscimani in zone del Kalahari sempre più periferiche e marginali, desolate e prive di risorse.
Il gruppo degli tswana, popolo bantu autoctono dell’Africa centro-meridionale, peggiorò ulteriormente la situazione: la loro venuta relegò ancor più i san in aree isolate, spesso scacciati dai loro territori anche con l’uso della violenza. Gli tswana erano infatti maggiormente strutturati e forti dal punto di vista militare, ma anche in questo caso il nodo focale della questione non si sviluppò su un piano bellico quanto piuttosto socio-economico. Anche questa etnia bantu non era nomade, praticava un’agricoltura decisamente sedentaria, e per questo si verificò più una inevitabile imposizione di sistema produttivo che un esodo forzato con le armi: i san infatti si spostavano in continuazione, abbandonando completamente i precedenti accampamenti che non “marcavano” territorialmente, quindi fu relativamente semplice per tswana e khoikhoi, una volta stabilitisi in quei luoghi, mantenerne il controllo e appropriarsene definitivamente.
A partire dagli eventi appena descritti, in seguito al contatto e in taluni casi agli scontri con khoi e tswana, i boscimani non solo iniziarono a perdere alcuni territori originari ma cominciarono anche a diminuire gradualmente. Successivamente, a partire dalla fine del XV secolo, iniziarono le spedizioni oltreoceano delle grandi monarchie europee che portarono alla conquista e spartizione del continente nero. Nel corso del secolo seguente i viaggi di scoperta si intensificarono e gli europei non si limitarono a porre avamposti sulla costa, ma installarono vere piazzeforti commerciali per poi dedicarsi anche all’esplorazione dell’interno.
Nell’Africa meridionale, e in particolare nella zona corrispondente all’attuale Repubblica Sudafricana, si stanziarono nel corso del XVII secolo olandesi prima e inglesi poi. A entrare direttamente in contatto con i san furono inizialmente i coloni olandesi, i quali a partire dal 1652 si trovarono a confrontarsi con le popolazioni autoctone: gli europei si dimostrarono decisamente più violenti dei gruppi africani nei quali i boscimani si erano imbattuti. Quotidiano fu l’uso indiscriminato della forza e delle armi per spodestarli dalle loro terre ancestrali in nome della conquista prima e del consolidamento territoriale poi. In questo caso si sommarono sia fattori militari sia socio-economici: i bianchi, irrompendo brutalmente nella società indigena, imposero in modo permanente un modello economico incentrato su agricoltura e allevamento, introducendo la figura dell’azienda agricola e della proprietà privata, ovviamente su terre che non erano mai state di loro proprietà.
I san furono dapprima discriminati e poi apertamente perseguitati e, in alcune situazioni, ferocemente massacrati. Essi reagirono attaccando e depredando indiscriminatamente il bestiame d’allevamento delle fattorie degli agricoltori ugonotti olandesi e successivamente anche dei boeri, utilizzando le tecniche che per secoli avevano impiegato con successo nella cattura di prede nel deserto. La replica dei coloni fu durissima e spietata e segnò un drastico calo tra le fila della popolazione boscimane: il conflitto con i bianchi perdurò per tutta la storia moderna e si rivelò tremendamente cruento. Oltre ai numerosi morti negli scontri, un discreto numero di san perì anche a causa di infezioni ed epidemie sviluppatesi al contatto con l’uomo bianco, mentre un’altra parte fu resa schiava e obbligata a lavorare nelle aziende agricole.
In ogni caso si era instaurata una nuova potenza dominatrice che aveva soggiogato e sottomesso i boscimani modificandone e compromettendone irreparabilmente le tradizioni, consolidando definitivamente una struttura socio-economica – già praticata da khoi e tswana – che annullava completamente la realtà san. Questa fase storica non solo segnò l’inizio della perdita da parte dei boscimani dei loro territori natii e dei princìpi della loro tradizione sociale, ma di molte libertà fondamentali allorché cominciarono a essere trattati come belve feroci.
La transizione a etnia minoritaria
I secoli successivi della storia moderna, punto di massimo sviluppo del colonialismo e dell’espansionismo occidentale, suggellarono la definitiva cristallizzazione del dominio territoriale, politico, amministrativo e commerciale europeo e la implicita, netta sottomissione delle popolazioni autoctone africane. I san in particolare videro segnato il proprio destino, costretti dagli eventi all’ultima posizione nella gerarchia etnica regionale, al di sotto non solo dei coloni ma anche degli altri gruppi africani.
Il processo di marginalizzazione dei boscimani, iniziato con l’avvento di khoi e tswana prima e olandesi e boeri poi, ha rappresentato la prima tappa del lungo e triste percorso di perdita dei loro diritti. Il modo tradizionale di concepire l’utilizzo della terra e lo stile di vita di questi gruppi, agricoltori e allevatori sedentari, era prevalso sull’abitudine degli autoctoni al nomadismo, imponendosi come il sistema economico principale e unico.
Il successivo passaggio legato alla perdita dei territori dei padri avvenne durante la colonizzazione. I britannici infatti fossilizzarono il particolare quadro che si era venuto a creare formalizzando un sistema di proprietà della terra – successivamente ereditato soprattutto dal Botswana indipendente – che confermava e ufficializzava il possesso e il diritto di proprietà ai coloni e ai soli tswana, in quanto i pochi spazi ancora teoricamente dei san e nei quali essi tendevano a spostarsi erano “percepiti” come non utilizzati. Cosicché, oltre alle terre già in possesso degli tswana precedentemente sottratte ai san, fu assegnato ai loro capi anche il compito di redistribuire nel proprio gruppo anche quelle apparentemente vuote… che in realtà vuote non erano, appartenendo da secoli a una popolazione che aveva l’unica “sfortuna” di praticare il nomadismo, stile ormai superato e lontano dai canoni europei e anche degli altri gruppi africani di quel periodo.
Le mosse politiche degli inglesi non erano casuali né tanto meno guidate da una reale attenzione per il popolo tswana, ma facevano parte di un progetto più generale riguardante tutti i territori della corona in Africa: la concessione di questi diritti al gruppo di origine bantu era solamente una strategia di convenienza, in quanto l’etnia era già diventata maggioritaria nell’area e, per garantirsi il controllo e una tranquilla amministrazione locale, appariva necessario intrattenere con essa buoni rapporti. Il Botswana era infatti diventato protettorato britannico nel 1885 con il curioso nome di Bechuanaland: costantemente sotto minaccia di conquista da ogni lato, gli inglesi sostanzialmente favorirono un’altra migrazione interna di allevatori nelle già citate terre “non occupate” nei pressi di Ghanzi. La redistribuzione dei territori agli tswana era dunque frutto di un preciso calcolo politico volto al tentativo di contrastare una potenziale invasione dei tedeschi dalla confinante Namibia, che avrebbe seriamente minato il sogno della corona di gestire un vasto impero esteso dal Capo di Buona Speranza al Cairo.
In seguito a piani progettati a tavolino per soddisfare egoismi del padrone coloniale e relativi calcoli geopolitici, furono quindi i san a patire la privazione di luoghi e libertà di gruppo. Coloro i quali non erano stati massacrati nei secoli precedenti o morti di malattie importate dai bianchi, o costretti a lavorare nelle aziende agricole, si rifugiarono in villaggi già occupati da altri gruppi, confrontandosi per forza con culture dominanti che finirono per schiacciare quella tradizionale san. Un altro fatto di carattere economico che contribuì a trasformare i boscimani in etnia minoritaria (per non dire fantasma) in un luogo che invece apparteneva loro da secoli, fu un procedimento realizzato dal governo della corona: durante il periodo coloniale, oltre all’agricoltura era nata anche una forte economia di allevamento con una florida esportazione di bovini all’estero che costituiva la più alta fonte di reddito del Paese, tanto che gli inglesi, per difendere gli allevamenti dalle malattie che i bovini erano soliti contrarre dagli animali selvatici, fecero erigere un’alta e lunga recinzione che divideva quasi di fatto il Botswana in due zone. Il muro, esteso per migliaia di chilometri, impediva la migrazione degli animali da nord a sud: l’inevitabile conseguenza si abbatté ancora una volta su coloro per i quali la caccia rappresentava la principale attività di sussistenza. I boscimani da un giorno all’altro vennero privati della possibilità di cacciare liberamente gli animali del Kalahari, che in determinati periodi dell’anno migravano verso nord per abbeverarsi. La caccia veniva come sempre praticata in perfetto equilibrio con l’ecosistema, non uccidendo mai più dello stretto necessario per cibarsi. Anche in questo caso, come nei secoli precedenti, i san presero a depredare gli animali di allevamento delle fattorie tswana e dei coloni, scatenando un’ulteriore reazione violenta degli allevatori e del governo che contribuì a un nuovo calo demografico.
Il botswana ottenne l’autogoverno interno nel 1965 e l’indipendenza ufficiale dall’Inghilterra l’anno successivo, entrando nel Commonwealth e mantenendo quindi un forte legame, tuttora vivo, con gli antichi colonizzatori. Dopo l’autonomia amministrativa la posizione dei san non migliorò, anzi la loro già compromessa situazione peggiorò, se possibile, ancora di più. I boscimani si trovarono di fatto incastrati in una realtà già prestabilita e che con gli eventi degli ultimi anni era andata cristallizzandosi: l’80% della popolazione era formato dall’etnia tswana, ormai indiscussa leader dello Stato che, con l’appoggio degli inglesi, si era assicurata e ormai deteneva il potere politico ed economico. Le lingue ufficiali della neonata entità erano esclusivamente lo tswana e l’inglese, entrambe ignote alla quasi totalità degli appartenenti alla comunità san. Quest’altra situazione di svantaggio li portò a non avere rappresentanze in ambito politico. Inoltre i consigli distrettuali della terra, organizzati per l’appunto su base territoriale, istituiti per ufficializzare i diritti di proprietà nello Stato indipendente, erano fondati su quelli precedenti stabiliti dagli inglesi che di fatto tagliavano completamente fuori i boscimani. I loro diritti sulle terre ancestrali non venivano assolutamente considerati né tanto meno riconosciuti dal punto di vista amministrativo, e ancora una volta il carattere nomade della popolazione era ritenuto incompatibile con la stessa possibilità di possedere terre. In più per la medesima ragione le aree dove fisicamente risiedevano, venivano – alla stregua del passato – considerate ancora vuote e quindi destinate a usi commerciali degli tswana.
Le tragiche circostanze che hanno segnato la storia dei san durante il tardo periodo coloniale possono spiegare la loro situazione attuale, caratterizzata da subalternità, sottomissione, sofferenza e oblio. Nel corso della storia moderna i boscimani, da padri del Kalahari, sono stati ridotti con la forza a minoranza etnica della regione, popolo continuamente a rischio e in pericolo d’estinzione. Purtroppo questa drammatica situazione all’indomani dell’indipendenza non si è arrestata; anzi, il peggio doveva ancora arrivare con la seconda metà del XX secolo.
La Central Kalahari Game Reserve e gli ultimi sfratti
Nel 1961 quando il Botswana era ancora sotto le dipendenze britanniche, il governo anglosassone creò la Central Kalahari Game Reserve, un’ampia riserva naturale estesa su un territorio di quasi 53.000 kmq che risulta a tutti gli effetti un’area protetta nonché il secondo parco naturale più grande del mondo. L’istituzione della CKGR era finalizzata a un doppio obiettivo: proteggere i territori ancestrali delle popolazioni autoctone come i boscimani gana, gwi e tsila e i vicini bakgalagadi permettendogli di preservare i residui della loro cultura e mantenere lo stile di vita tradizionale, e contemporaneamente salvaguardare la fauna locale. Leggendo le due finalità condivise, alla luce di quanto raccontato finora sul modus vivendi san, possiamo tranquillamente affermare che le due posizioni non erano incompatibili né autoescludenti, in quanto gli stessi indigeni dovevano la loro sopravvivenza alla selvaggina che pertanto non cacciavano mai più dello stretto necessario.
La situazione dopo l’indipendenza dello Stato si fece ancora più pesante per i boscimani, schiacciati dall’inesorabile avanzata politica dell’etnia tswana che divenne l’indiscussa detentrice di ogni forma di potere. Negli anni Settanta, altri luoghi originari dei san furono loro sottratti per essere concessi ad agricoltori e pastori di origine tswana; all’interno della riserva, invece, gli indigeni fino a quel momento rimasero praticamente indisturbati, riuscendo così a mantenere un briciolo di continuità con il passato, nonostante un’identità sociale e culturale già fortemente messa in crisi dal colonialismo.
Ma la CKGR portava con sé un enorme problema di fondo: le terre interessate, nonostante coincidessero con aree dei padri boscimani, rimasero bollate come terre della corona anche dopo la fine della dominazione britannica, e di conseguenza i diritti di proprietà non furono trasferiti alla popolazione autoctona bensì alla nuova élite etnica degli tswana. Agli inizi degli anni Ottanta, il governo intraprese un preciso progetto volto al trasferimento coatto dei membri della comunità boscimane al di fuori dei territori della CKGR. Si trattò di un vero e proprio percorso di ricollocamento spaziale: inizialmente agli indigeni fu proposto di abbandonare l’area della riserva per spostarsi in altri luoghi, provando a convincerli con una serie di promesse rivelatesi poi vane. Chi non si lasciò convincere fu poi costretto con la forza. Le élite politiche dominanti da principio avevano giustificato la politica di reinsediamento nei confronti dei boscimani adducendo il falso pretesto della salvaguardia delle specie protette nella riserva, e avevano promesso un netto miglioramento generale delle loro condizioni di vita attraverso l’erogazione, pensata su loro misura, di una serie di servizi quali scuole dedicate, assistenza sanitaria, lavoro, piccoli appezzamenti di terra, bestiame e anche discrete somme di denaro.
Senza particolare sorpresa possiamo affermare che nessuna di queste condizioni si è poi verificata per quei pochi membri della comunità san che accettarono la proposta: non vi sono state adeguate retribuzioni per gli espropri nella CKGR, non sono stati concessi i promessi titoli di proprietà sui nuovi appezzamenti di terra in cui erano stati costretti a trasferirsi, e inoltre questo esodo è spesso coinciso con la separazione di parecchi nuclei familiari, sudivisi tra differenti accampamenti.
Questa situazione ha di fatto segnato la fine di quel poco di fiducia che le genti san riponevano nel governo centrale, facendo in modo che si mobilitassero ulteriormente in difesa dei loro luoghi ancestrali, opponendosi apertamente ai piani amministrativi. A questo punto il Botswana ha messo in atto una serie di escamotage, uno più subdolo dell’altro, per far sì che i boscimani venissero buttati fuori dalla CKGR. I san sono stati ingiustamente accusati di aver cacciato e ucciso più animali del limite consentito (tre antilopi a persona all’anno), “causando” danni irreparabili all’ecosistema locale e mettendo a serio rischio la sopravvivenza delle specie in via d’estinzione. I presunti responsabili sono stati imprigionati e torturati da alcuni funzionari della riserva, minacciati con il fuoco, picchiati e legati ai paraurti delle auto.
Ma questo è solo uno degli esempi dei metodi intimidatori e spesso apertamente violenti adottati dal governo. Infatti dapprima sono stati interrotti i servizi base che venivano garantiti anche prima degli anni Ottanta, come il trasporto dei bambini a scuola e le unità di soccorso e aiuto sanitario mobili, poi un pozzo all’interno della CKGR è stato dismesso e murato e altre riserve d’acqua completamente rovesciate nel deserto, le loro case date alle fiamme e distrutte, le scuole chiuse. Sostanzialmente i san hanno dovuto subire una vera persecuzione, costretti a vivere in un regime del terrore orientato a togliere loro ogni bene primario e servizio possibile, costringendoli all’inevitabile allontanamento dalle zone natie, come voluto dall’autorità centrale.
Nonostante l’aperta opposizione indigena, nel 1997 sono cominciati gli sfratti indotti: uomini e donne ma anche bambini e anziani sono stati spostati con la forza dai loro villaggi, caricati come bestie su camion e condotti in campi di reinsediamento in altri luoghi dello Stato. Si è quindi verificata una vergognosa escalation di crudeltà, dalle minacce alle intimidazioni, dalle privazioni alle devastazioni, fino a tortura, violenza fisica ed esodo coatto di massa. Gli sgomberi sono terminati a quasi otto anni di distanza, con altre due ingenti operazioni nel 2002 e infine nel 2005. Ora la quasi totalità dei membri della comunità san vive in campi di reinsediamento al di fuori della CKGR: una piccola parte, fortemente indotta dalle circostanze, si è mescolata con l’etnia dominante tswana in Botswana e con le altre minoritarie, mentre la maggior parte vive ancora in gruppo in condizioni di degrado.
I boscimani oggi tirano avanti con piccoli lavori informali, alcuni sono impiegati alle dipendenze di allevatori o agricoltori soprattutto nelle piantagioni di erbe medicinali, altri in lavori manuali e di piccolo artigianato come intrecciare braccialetti e collane. In generale all’interno dei campi di reinsediamento la situazione è avvolta da un’atmosfera collettiva di decadenza e sofferenza psico-fisica con gli indigeni spesso vittime di noia, depressione, alcolismo e purtroppo bersagliati da terribili malattie come tubercolosi e HIV. Le promesse aleatorie del governo si sono poi rivelate per quelle che fin da principio sembravano, ovvero fasulle: l’apparente richiamo al benessere e ai confort occidentali, millantato dall’autorità centrale per convincere gli autoctoni ad abbandonare le loro terre ancestrali, erano solo infime scuse per spingerli verso una sedentarizzazione forzata e un futuro progressivo assorbimento, il tutto nell’ottica di un più grande e complesso progetto di distruzione della cultura nativa, con il fine primario di spodestarli dal cuore del Kalahari e impadronirsi delle loro zone per sfruttarle per i propri interessi.
Il triste e inevitabile risultato è l’abbandono da parte dei boscimani del loro stile di vita tradizionale e una costante perdita dei caratteri più originali della loro cultura che appare oggi a rischio scomparsa. Solamente poche centinaia di san, rimasti o ritornati di nascosto nella CKGR, provano ancora a praticare la caccia e la raccolta secondo le usanze tradizionali, in un ambiente già fortemente inospitale reso ancora più duro e impossibile dall’opposizione violenta del governo.
Diamanti e turismo
Ma qual è la motivazione reale che si cela dietro il lungo e preciso progetto da parte dell’autorità centrale del Botswana per estromettere nel modo più totale e permanente i san dal proprio territorio? Naturalmente la sbandierata volontà di offrire condizioni di vita migliori, peraltro assolutamente non rivelatesi tali, e sconfiggerne l’“arretratezza” (secondo canoni occidentali) per iniziare un percorso di sviluppo, sono solamente pretesti di facciata.
Le ragioni primarie, come spesso accade, sono da ricercare esclusivamente all’interno della sfera economica, leggendo in particolare alla voce dei guadagni e degli interessi personali dell’élite statale: diamanti e, in misura minore, turismo di massa. Agli inizi degli anni Ottanta, infatti, nelle terre ancestrali dei san, e in particolare all’interno del perimetro della CKGR dove gli autoctoni si erano stabiliti da anni, vennero scoperti ricchi giacimenti di diamanti e gemme. Negli anni precedenti era già stato appurato come il sottosuolo del Botswana fosse ricco di risorse preziose, in quanto in altre zone erano state trovate pietre preziose tanto che l’industria estrattiva si era affermata come la principale attività economica nonché primaria fonte di reddito nazionale.
La multinazionale sudafricana De Beers – leader nel settore minerario e oggi responsabile del 40% della produzione mondiale di diamanti – aveva adocchiato immediatamente l’opportunità, stringendo già nel 1978 una partnership al 50% con il governo del Botswana che, fiutando notevoli guadagni, aveva stipulato l’accordo all’istante. La scoperta dei nuovi giacimenti rappresentava dunque nuova linfa per questa collaborazione e il governo pensava di doverla sfruttare a tutti i costi, anche a scapito dei gruppi locali. Così, per agevolare le operazioni di scavo ed estrazione dei diamanti, sarebbe stato “necessario” allontanare definitivamente gli ingombranti boscimani da queste aree, per poter trafficare liberamente senza ostacoli e rimpinguare enormemente le casse dello Stato. Ecco spiegato il motivo alla base del piano di sgombero dell’etnia san e di tutta la vergognosa politica di ricollocamento nei campi in altri luoghi.
Nel corso degli ultimi decenni del XX secolo e nei primi anni del XXI, la De Beers ha ottenuto agevolazioni e concessioni straordinarie nella CKGR e il governo del Botswana si è incredibilmente arricchito: gli introiti con la compagnia sudafricana costituiscono addirittura il 30% del PIL nazionale; nel 2010 i guadagni derivanti in generale dall’attività mineraria hanno generato un surplus di addirittura 22 milioni di dollari diretti nelle casse del governo. Il Botswana si è quindi affermato come il principale esportatore di diamanti al mondo ed è diventato uno degli Stati africani più ricchi.
I boscimani, oltre all’imposizione di sistemi di produzione a loro sconosciuti indotti da altri popoli africani o coloni senza scrupoli, hanno dovuto anche subire lo sfratto dai loro territori a causa del fatto che essi costituiscono probabilmente la zona diamantifera più ricca della terra. Oltre al noto deposito di risorse dove un tempo risiedeva la comunità boscimane di Gope, ne sono stati individuati altri all’interno della CKGR che abbondano di kimberlite, roccia vulcanica in cui si trovano i diamanti.
Nel maggio 2007 la De Beers ha venduto per 34 milioni di dollari proprio il giacimento di Gope a un’altra compagnia diamantifera, la britannica Gem Diamonds. Il governo statale ha autorizzato la costruzione di una nuova miniera e, ancor peggio, ha ufficialmente dichiarato che alla multinazionale non sarebbe stato permesso fornire acqua ai san, in quanto la stessa élite centrale si era arrogata il diritto di usufruire dei pozzi scavati per abbeverare la fauna selvatica locale. Dal canto suo la Gem Diamonds ha sostenuto che i boscimani avevano espresso parere favorevole all’apertura della miniera, quando in realtà alla comunità non era stata fornita alcuna informazione sull’argomento, con particolare riferimento agli eventuali impatti ambientali dell’attività estrattiva. Infine la miniera è stata inaugurata nel settembre 2014 e l’impresa inglese ha stimato che il giacimento possa attestarsi su un valore di 4 miliardi di dollari.
L’altra motivazione alla base del trasferimento coatto dei san è il turismo, seconda risorsa più importante e redditizia per il Paese dopo il business diamantifero. Gli indigeni che a partire dall’indipendenza si erano stabiliti nell’area della CKGR, anche in questo caso, sono stati sacrificati in nome della possibilità di incrementare i guadagni con l’attività turistica proprio entro i confini della riserva. Essa era in effetti un vero e proprio parco naturale e la presenza dei nativi era ancora una volta considerata un ostacolo.
L’apice della vergogna è stato raggiunto negli ultimi anni: mentre il Botswana negava l’acqua ai pochi boscimani rimasti in questi territori, contemporaneamente sanciva un accordo con la compagnia Wilderness Safaris autorizzandola, tra le altre cose, alla costruzione e successiva apertura di un resort turistico nella CKGR, dotato di un’ampia piscina. Così a poca distanza dal villaggio indigeno di Mothomelo è stato edificato un complesso di lusso per turisti facoltosi, il Kalahari Plains Camp, con 10 sfarzose camere e la possibilità di partecipare a safari tour guidati. Il tutto realizzato con un contratto d’affitto ufficialmente stipulato con il governo, ma che ovviamente non ha tenuto il minimo conto dei (a questo punto “presunti”) sacrosanti diritti dei san i quali, ancora una volta, non sono stati consultati in merito. Il rivoltante paradosso è ora sotto gli occhi di tutti: i boscimani rischiano di morire per il divieto di accesso alle fonti idriche nelle terre che spetterebbero loro di diritto, i turisti milionari nuotano tranquillamente nella piscina dell’hotel.
L’ente di promozione turistica del Botswana distribuisce senza vergogna locandine raffiguranti membri della comunità san per promuovere i viaggi nel Kalahari, mentre i politici locali stanno cercando, ormai da decenni, non solo di distruggere ma addirittura di cancellare l’etnia, con le sue tradizioni e la sua cultura, dalla faccia della terra. I turisti vengono inoltre invitati a godere di una piena immersione nello spirito locale, vivendo un’esperienza etnica accanto ai pochi boscimani che ancora abitano all’interno della riserva, dai quali è possibile imparare le peculiari tecniche di caccia e raccolta (più volte vietate dal governo negli ultimi anni), e ad assistere alle danze tipiche. Tutto ciò costituisce uno degli innumerevoli casi di sfruttamento della storia e delle tradizioni culturali delle popolazioni indigene, costrette a mettere in scena i loro rituali per garantire agli stranieri ciò che indubbiamente si aspettano e che gli è stato promesso; e i san, oppressi dal peso politico del governo, relegati in una posizione di assoluta sottomissione, spesso intimiditi se non minacciati, sono praticamente obbligati ad accettare questa paradossale situazione.
L’organizzazione Survival International, da sempre in lotta per il rispetto dei diritti dei popoli indigeni, dal 2013 ha intrapreso una campagna per boicottare apertamente il turismo di massa in Botswana, meta che rimane però assai gettonata. Partnership economiche, resort di lusso, accordi milionari, guadagni, ricchezza… il tutto ottenuto con l’intimidazione e con la forza in luoghi che apparterrebbero da secoli a un’etnia locale vittima di costanti soprusi: ingiustamente discriminata, ghettizzata e praticamente indotta allo sterminio, se non (ancora) numerico, almeno culturale.
Battaglia legale
Per molti anni all’indomani dell’indipendenza i san hanno dovuto subire continue vessazioni e soprusi, non potendo opporsi in alcun modo alle mire politiche del governo del Botswana: per esempio è noto un rapporto del 1991 pubblicato dal Botswana Christian Council riguardante alcuni membri della comunità boscimane i quali, soltanto sospettati di aver cacciato selvaggina in una proprietà privata, sono stati catturati e torturati dalle guardie statali dei parchi nazionali. L’esigua rappresentanza politica indigena non ha aiutato in queste situazioni fino all’inizio del XXI secolo. Dopo gli sfratti intrapresi nel 1997 che hanno segnato l’inizio della lugubre epopea del gruppo etnico, nel 2002 gli stessi san hanno deciso di scontrarsi con l’autorità centrale trascinando il governo in tribunale per averli spodestati illegalmente dalle loro terre d’origine.
Nei primissimi anni Duemila, infatti, il Botswana ha iniziato a velocizzare e brutalizzare il processo di trasferimento e reinsediamento nei nuovi campi: è stato necessario riempire 63 villaggi al di fuori della riserva del Kalahari, dato significativo per comprendere il gran numero di indigeni che è stato costretto ad abbandonare la propria casa. Nel febbraio 2002 il governo ha abolito l’approvvigionamento d’acqua (primo di numerosi episodi negli anni a seguire), la luce elettrica e proibito formalmente la caccia. Inoltre, in seguito all’esodo coatto degli indigeni, sono stati posti guardiani nei punti di entrata della riserva in modo che fosse impedito loro qualsiasi tentativo di riaccesso.
In questo clima infuocato è cominciato il processo nel 2004 presso l’Alta Corte di Lobatse. 7) Pur essendo intentato da una comunità poverissima, il procedimento penale si sarebbe rivelato il più lungo e costoso ma anche complicato e burrascoso della storia del Paese. I primi san a fare causa furono 239 cui se ne aggiunsero altri 135: considerando i figli e le famiglie al completo, i nativi rappresentati in tribunale si aggiravano intorno al migliaio, anche se molti di loro, decisamente avanti con gli anni, sarebbero morti prima di ottenere giustizia. Il processo proseguì tra rinvii e sospensioni ingiustificate, mentre nel frattempo alcuni boscimani tentavano di rientrare nella CKGR per stabilirvisi, nuovamente scacciati in almeno tre occasioni.
Nello stesso periodo il governo si adoperò per eliminare dalla Costituzione dello Stato una vecchia clausola che, in piccola parte, proteggeva i nativi e avrebbe potuto essere impiegata nella lotta processuale. La stessa Survival ha contribuito a pagare parte delle spese legali dei san. L’agognato verdetto è giunto il 13 dicembre 2006. quando i giudici si sono espressi a favore dei san dichiarando illegale e incostituzionale la loro cacciata dalla CKGR. La sentenza affermava che i boscimani potevano vivere all’interno delle aree avite, e soprattutto avevano il diritto di praticare caccia e raccolta liberamente secondo le loro usanze e pratiche tradizionali – manifestamente non invasive – senza necessità di richiedere permesso alcuno. La sentenza della Corte Suprema avrebbe dovuto essere seguita dal rientro della popolazione san nella CKGR, eppure non è stato così: il governo inizialmente ha rinunciato a ricorrere in appello, ma dal giorno successivo alla sentenza ha continuato con ogni mezzo a ostacolare il rientro degli autoctoni nei loro territori. Ha provveduto affinché i diritti derivanti dalla vittoria processuale fossero garantiti esclusivamente ai 239 boscimani esplicitamente citati nei documenti della Corte e non, come di legge, all’intera comunità.
Così soltanto un ristretto numero di autoctoni ha potuto fare effettivo ritorno nella riserva, dove peraltro vige ancora il divieto di cacciare e di introdurre animali domestici, mentre l’assistenza sanitaria non è completamente garantita, e soprattutto nell’ultimo decennio l’acqua è stata più volte chiusa. I parenti dei 239 reinsediati sono addirittura obbligati a richiedere speciali permessi per andare a trovarli, in caso contrario rischiano pene fino a sette anni di reclusione. Insomma, è tristemente prevedibile che, se non muteranno in fretta le cose, la maggioranza dei boscimani rimarrà chiusa al di fuori della propria terra, infliggendo un ulteriore duro colpo alla tradizione culturale locale.
La questione acqua è talmente ignobile da meritare un approfondimento a parte. Il governo centrale aveva giù utilizzato questo metodo infame all’inizio del periodo degli sfratti e non ha mai smesso di farlo: prima degli sgomberi coatti, i san erano soliti attingere in particolare da un pozzo situato nei pressi della comunità di Mothomelo, e un’autocisterna distribuiva l’acqua a tutte le tribù una volta al mese. Durante gli sfratti il governo eliminò questo servizio, smantellando cisterna e pompa dell’acqua e rendendo di fatto il pozzo inutilizzabile. I pochi boscimani ritornati nella riserva sia prima sia dopo la vittoria legale erano dunque costretti a sopravvivere solamente con l’acqua piovana che cadeva durante la stagione delle piogge, e con gli scarsi liquidi ricavati da meloni e radici, decisamente non sufficienti al fabbisogno collettivo. Nello stesso periodo, come dicevamo, il governo non si faceva alcuno scrupolo nel permettere alle compagnie diamantifere di utilizzare tutta l’acqua di cui necessitavano, nello scavare pozzi per l’abbeveramento di animali selvatici e nell’autorizzare la realizzazione di un resort turistico di lusso con piscina.
Nel 2010, i san intentarono una nuova azione legale contro il governo finalizzata a ottenere nuovamente accesso alle risorse idriche: il caso anche in questa occasione venne discusso presso la Corte Suprema del Botswana il 9 giugno, ma il giudice espresse parere negativo rigettando le richieste indigene. Nel 2011, in seguito a una nuova richiesta, la Corte d’Appello ribaltò giustamente il verdetto di primo grado accogliendo il ricorso dei boscimani e condannando aspramente il “trattamento degradante” del governo nei loro confronti. L’antico pozzo di Mothomelo è stato così ripristinato e dopo nove anni i san hanno potuto finalmente ritornare a bere. La sentenza ha rappresentato indubbiamente un’importante vittoria, ma i presupposti e le azioni che hanno condotto a questa situazione appaiono davvero aberranti: privare una popolazione di una risorsa vitale come l’acqua – tanto più in una realtà territoriale come quella del Kalahari dove essa scarseggia e si vive in condizioni quasi proibitive – si rivela una mossa meschina e becera; in una parola: disumana.
Ma la battaglia politica non è ancora terminata. Nel 2013 i san sono tornati in tribunale per ottenere il libero accesso alle loro terre ancestrali, richiedendo l’abolizione della squallida misura dei permessi mensili introdotta dal governo centrale. Il Botswana ha risposto con un’altra mossa scorretta, vietando l’ingresso nel Paese a Gordon Bennet, storico avvocato britannico dei boscimani, e successivamente il nuovo caso è stato chiuso lasciando momentaneamente, in palese violazione delle leggi internazionali, i san privi del rappresentante legale che avevano scelto e che conosceva alla perfezione la delicata situazione dopo averli affiancati per anni.
Fortunatamente, la questione dei san in Botswana non è passata in secondo piano a livello mondiale: diverse organizzazioni monitorano costantemente la situazione tenendo viva l’attenzione e tentando di dare una mano alla causa locale. Survival International nel 2016, in occasione dei festeggiamenti organizzati per i 50 anni dell’indipendenza dal Regno Unito, ha promosso una nuova campagna, “Bot50”, attraverso la quale è stato lanciato un forte appello alle autorità statali affinché pongano fine una volta per tutte alle discriminazioni e ai soprusi nei confronti dei san. La Costituzione del Botswana è fondata sull’assunto che tutti i cittadini godono dei medesimi diritti: non è dunque previsto il riconoscimento formale di gruppi particolari con specifici diritti in materia identitaria e culturale. Da qui muove il rifiuto governativo ad avviare politiche mirate nei confronti dei boscimani che ne riconoscano diritti economici, sociali e culturali. La questione riguarda soprattutto le pratiche di vita tradizionali, adottate da tempo immemorabile dal gruppo etnico: il divieto di caccia in particolare nella CKGR, dove la Corte ha riconosciuto ai boscimani la facoltà di reinsediamento, disattende e viola apertamente il diritto all’autodeterminazione sancito nella Dichiarazione ONU sui diritti dei popoli indigeni, tra i quali esiste anche quello di abitare nei luoghi ancestrali.
Il Botswana ha sottoscritto questa dichiarazione; il problema sta però nel fatto che il sistema giuridico dello Stato è di tipo dualistico, con diritto internazionale e diritto interno che si presentano come ordinamenti separati e completamenti indipendenti. I trattati internazionali, così come dichiarazioni e convenzioni particolari, possono entrare a far parte dell’ordinamento nazionale esclusivamente tramite leggi specifiche, che naturalmente il governo per interesse personale non si affretta a promulgare.
Uno dei pochi risvolti positivi di tutto l’iter giudiziario iniziato ben più di un decennio fa nasce in particolare dalla prima vittoria nel 2006 a cui hanno fatto seguito le altre: essa ha infatti costituito un precedente rilevante per tutti i gruppi indigeni, facendo sì che anche altre comunità valutino eventuali ricorsi legali per far valere i propri innegabili diritti, con un minimo di fiducia in più verso leggi e istituzioni. Gli stessi boscimani residenti in Namibia hanno cominciato a mobilitarsi per reclamare quanto spetterebbe loro di diritto.
Come si evince dagli eventi della seconda metà del Novecento, la questione in Botswana è però la più complicata in quanto dietro la volontà governativa di cancellare gli autoctoni si celano notevoli interessi economici e politici. La situazione attuale è di parziale stallo: la società civile locale non è molto vigile e partecipe e tanto meno sensibile nei confronti della causa; i san non godono praticamente di rappresentanza politica e di conseguenza non riescono a coinvolgere in maniera determinante l’opinione pubblica, fortemente influenzata e manipolata dal governo. In Botswana l’etnia san è apertamente ritenuta inferiore rispetto alle altre, il che si traduce ancor oggi, alle soglie del nuovo decennio, in una totale discriminazione socio-culturale che conduce all’isolamento e, in àmbito economico, in una grave disoccupazione di gruppo: i boscimani riescono a trovare lavoro quasi soltanto come domestici e manovali o in altri impieghi a bassissima retribuzione.
Oltre al sostegno di organizzazioni che tutelano i diritti dei popoli nativi, l’ultima speranza politica dei san è la comunità internazionale, alla quale sarebbe opportuno richiedere formalmente di occuparsi in modo serio della loro tragedia. Uno degli obiettivi è la ratifica da parte del Botswana della convenzione ILO 169 sui diritti delle popolazioni indigene. 8) Si tratta di una convenzione del 1989 dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro che ha lo scopo di proteggere i diritti dei gruppi tribali negli Stati che l’hanno siglata. In questo specifico caso risulta coinvolta anche l’Unione Europea, in quanto nel 2011 l’UE e lo Stato africano hanno stipulato un accordo per la gestione e conservazione dello habitat naturale, con l’obiettivo europeo di sostenere economicamente (10 milioni di euro) il governo nazionale al fine di migliorare la salvaguardia e la fruizione sostenibile delle riserve protette e delle aree naturali a esse contigue, gestite da comunità locali. Tra le zone protette ovviamente spicca la riserva del Kalahari, e l’aspetto fondamentale è che un’eventuale ratifica della Convenzione da parte di tutti i Paesi membri dell’UE vincolerebbe, secondo l’accordo, entrambi i segnatari alla tutela dei territori ancestrali, anche quelli dei san. Malgrado le vane minacce di blocco degli aiuti in caso di sgombero dei boscimani nei primi anni Duemila, l’erogazione di contribuiti europei è proseguita senza sosta nel corso degli anni.
Non permettiamo l’eclissi dei boscimani
Avendo ripercorso la millenaria storia dei san e avendone studiato caratteristiche principali e sfaccettature della loro società e tradizione, emerge quanto la vicenda di questo affascinante popolo originario dell’Africa australe sia complessa e turbolenta, segnata, in particolar modo negli ultimi due secoli, da innumerevoli episodi di abusi e sopraffazioni. finalizzati alla cancellazione del gruppo. In questo senso il Botswana, cuore del territorio originario dei boscimani, si è comportato in modo emblematico: le ingerenze dell’élite dominante sono passate dalle minacce alle intimidazioni, dai suggerimenti mascherati a vere e proprie imposizioni, dai divieti alle aggressioni fisiche.
Le promesse di una vita migliore secondo il modello occidentale si sono rivelate presto per quello che erano: vane scuse, figlie di un freddo e calcolato progetto di trasferimento forzato motivato da interessi di natura economica e politica. Il tutto senza tener minimamente conto non solo del parere ma neanche delle tradizioni di chi quel territorio aveva abitato per millenni. Ciò si è tradotto nella definitiva sedentarizzazione forzata di un popolo da sempre nomade, già imbrigliato nei sistemi economici produttivi di coltivazione e allevamento a loro sconosciuti durante il periodo coloniale, cui era seguito, tramite raggiri burocratici, una prima sottrazione di terre ancestrali.
La cosa più ignobile è che il processo di sedentarizzazione voluto dal governo non era e non è mirato a incorporare o integrare l’etnia san nel sistema socio-culturale dominante, ma ad assorbirla fino alla totale scomparsa. Siamo di fronte a una vera e propria “pulizia etnica”; sebbene, come abbiamo più volte sottolineato, non si tratti tanto di mere questione numeriche (i san sono pochi ma non immediatamente prossimi all’estinzione demografica), quanto soprattutto culturali. Gravissima è la perdita delle pratiche, dei rituali, delle usanze tradizionali, propri della cultura boscimane che per le iniziative del potere centrale stanno via via dissolvendosi nell’aria. L’esodo coatto dai luoghi originari, il divieto di praticare caccia e raccolta, la sedentarizzazione, hanno violentemente lacerato l’universo culturale locale, rompendo nettamente schemi e consuetudini, al punto che molti elementi e tratti sono stati dimenticati e perduti.
Attualmente in Botswana la maggioranza dei san vive ancora al di fuori della propria terra ancestrale, mentre chi è riuscito a tornare nella Central Kalahari Game Reserve non se la passa molto meglio, essendo vietata la caccia. In certe località, sull’esempio di quanto avviene in Sudafrica, alcuni sono stati obbligati dal governo e dalla povertà a porsi al servizio del turismo di massa: esibiti su locandine e dépliant, trasformati in “attrazioni turistiche”, devono mettere in scena squallidi spettacoli “etnici” per i facoltosi visitatori intrecciando collane e braccialetti, inscenando battute di caccia “tradizionali” durante il giorno, praticando danze tipiche davanti al fuoco la sera, in modo da garantire agli ospiti proprio ciò che nella loro grande ignoranza si aspettano: uno squallido e posticcio spettacolo tribale. Molti membri della comunità, a causa dello smarrimento collettivo, manifestano gravi problemi sociali e di salute che si traducono in comportamenti a rischio. Se l’atteggiamento del governo e di tutte le altre componenti sociali del Botswana continuerà a essere questo, le cose non potranno migliorare.
È evidente il dichiarato odio razzista da parte degli altri gruppi etnici nei confronti dei san, considerati “esseri inferiori” e definiti “uomini primitivi”, “tribù di selvaggi” o “rimasti all’età della pietra”, discriminati e ghettizzati all’interno dello Stato. È pertanto opportuno sottolineare – come fatto per altri popoli indigeni incontattati, di cui un esempio lampante sono i sentinelesi – la totale inappropriatezza di termini quali selvaggi o primitivi, il cui utilizzo fa sicuramente notizia e crea impatto, ma è profondamente sbagliato e offensivo. Il motivo è semplice: parliamo di popolazioni che per svariate ragioni hanno mantenuto particolari caratteristiche socio-economiche o sviluppato sistemi e pratiche differenti rispetto a quelle a cui siamo oggi abituati. In particolare i san si sono adattati alle difficoltà del loro territorio rimanendo nomadi e cacciatori-raccoglitori, mantenendosi, fino a quando gli è stato permesso, attaccati alle loro radici e tradizioni, e in seguito lottando fieramente contro i soprusi subiti.
Le sentenze delle diversi Corti che negli ultimi anni hanno dato ragione ai san possono rappresentare il punto di partenza da cui innescare un cambiamento, puntando decisamente sul riferimento alle normative internazionali volte a tutelare i popoli autoctoni. L’unica soluzione che si può adottare per fronteggiare il difficile caso dei boscimani è pertanto quella di non abbandonarli a se stessi e alle zanne di chi da decenni cerca di annientarli: sarebbe opportuno continuare a fare pressione sul governo locale affinché rispetti e applichi i diritti di tutti i popoli indigeni, supportare l’operato degli enti che si interessano realmente alla sorte degli autoctoni come Survival International e boicottare l’indegno turismo di lusso nella CKGR.
Penso anche che sia giusto e necessario divulgare il più possibile questa brutta pagina di storia, sottolineando cause e colpe, e valutando possibili spiragli futuri. Ognuno, nel suo piccolo, dovrebbe fare qualcosa per dar voce a questo popolo dalla cultura straordinaria e dall’ammirevole, esemplare rispetto per l’habitat naturale che lo circonda.
N O T E
1) I khoi o khoikhoi (meglio conosciuti come ottentotti) sono il gruppo etnico originario dell’Africa sud-occidentale strettamente imparentato con i san con i quali formano il gruppo khoisan, caratterizzato dalla comune lingua. Il termine ottentotto significa “balbuziente” in dialetto olandese e indica il particolare suono dei click, schiocchi consonantici tipici della lingua khoisan. Rispetto ai “cugini” oltre a praticare la pastorizia erano anche dediti alla produzione tessile, metallurgica e di oggetti di ceramica. Anch’essi, come i boscimani, sono stati decimati da popoli di etnia bantu prima e dai coloni poi: all’inizio del XX secolo i gruppi namaqua ed herero si ribellarono ai tedeschi in Namibia e il 50% della popolazione fu sterminato. Oggi sono circa 20.000 e il lignaggio principale è quello namaqua.
2) Gli tswana sono un gruppo etnico di etnia bantu probabilmente autoctono dell’Africa centro-meridionale che, in seguito a migrazioni successive al X secolo, si è stanziato nel Kalahari, in particolare negli attuali Botswana e Sudafrica. Il numero totale si aggira intorno ai 4,5 milioni, in Botswana costituiscono la componente maggioritaria della popolazione (più dell’80%) e si sono affermanti come élite politica dominante. Minoranze sono localizzate in Namibia e in Zimbabwe. Generalmente sono suddivisi in unità claniche corrispondenti ad altrettante linee dinastiche tra cui i principali sono i barolong, i bakwena, i bamangwato e i batawana: in passato ogni tribù aveva un proprio capo sottoposto all’autorità del capo supremo degli tswana, detto kgosikgolo.
3) In seguito a comparazioni di DNA mitocondriale di esseri umani appartenenti a etnie diverse, i ricercatori hanno scoperto che tutte queste sequenze genetiche si sono evolute da un antenato comune. Dal momento che una persona eredita i mitocondri esclusivamente dalla propria madre, si è affermato che tutti gli esseri umani abbiano una discendenza femminile derivante da una donna indicata con il nome di Eva mitocondriale, vissuta in Africa tra i 99.000 e i 200.000 anni fa.
4) L’euphorbia damarana è una pianta velenosa appartenente alla famiglia delle euphorbiaceae, endemica dell’Africa australe e diffusissima in particolare in Namibia e in Botswana. È costituita da steli sottili e grigi che possono crescere fino a 2,5 m, sulle cui punte nella stagione dei frutti compaiono capsule di colore giallo e marrone.
5) L’epicanto, o plica mongolica, è la piega cutanea localizzata sopra l’occhio davanti alla palpebra che può essere mediale (nei pressi del naso), mediano (in posizione centrale) e laterale (nella zona più esterna). È una caratteristica fisica comune di popolazioni amerinde, asiatiche e dei san.
6) L’eland è un’antilope tipica della savana: di dimensioni considerevoli, è un erbivoro che si nutre principalmente di erbe, fogliame e ramoscelli. Era l’animale maggiormente cacciato dai boscimani e per questo motivo rivestiva anche un ruolo simbolico centrale all’interno del loro universo mitico.
7) Lobatse è una città di circa 29.000 abitanti situata nel distretto sudorientale del Botswana che da un punto di vista amministrativo, insieme alla capitale Gaborone e altre quattro città, costituisce un’entità statale di primo livello.
8) La Convenzione ILO 169 dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro è uno strumento giuridicamente vincolante che ha come finalità protezione e tutela dei popoli indigeni e tribali negli ordinamenti degli Stati che l’hanno siglata. Il criterio fondamentale su cui è fondata è l’autoidentificazione dei popoli: questo principio basilare deve essere considerato tanto quanto devono essere riconosciuti altri diritti di questi gruppi, quali il rispetto degli stili di vita tradizionali, la differente cultura (abitudini, lingue, usanze) rispetto a quella di altre componenti della popolazione nazionale, l’organizzazione di leggi secondo i propri costumi, la vita condotta in continuità storica rispetto a una determinata area già occupata prima dell’arrivo di altre popolazioni. Adottata il 27 giugno 1989, a oggi è stata ratificata soltanto da 20 Paesi.