Nel secolo scorso mi ero occupato seppur saltuariamente del Sudan e della sua parte meridionale che da anni combatteva per l’indipendenza. Mi ricordo perfino di Anyanya I, i guerriglieri indipendentisti (neri, in genere animisti o cristiani) che negli anni sessanta combattevano con archi e frecce. Oltre che di Anyanya II, di John Garang, per oltre vent’anni a capo dell’Esercito di Liberazione del Popolo del Sudan (SPLA, poi SPLA/M), eccetera.
Sulla questione avevo intervistato uno dei due vescovi di Karthoum (per “Frigidaire”… più ecumenico di così!) e alcuni volontari impegnati nel denunciare e contrastare (liberando direttamente gli schiavi) la piaga della schiavitù in Sudan e altrove, come il maltese Joe Buttgieg e il sociologo della Mauritania Chiekh Saad-Bouth Kamara.
Avevo poi conosciuto, raccogliendone la testimonianza, la vicentina suor Lina Costalunga (sorella di Mario uno dei fondatori dei Costruttori di Pace) scomparsa nel 2020 dopo aver trascorso molti anni nel martoriato Paese. E anche (a Verona, dai Comboniani) un seminarista, Paulino Lukudu, scomparso nel 2021, destinato a diventare vescovo di Juba con cui ero rimasto in rapporto epistolare.
E altro ancora; sempre sostanzialmente simpatizzando per la causa della popolazione nera del sud del Sudan in conflitto, suo malgrado, con i governi e con la popolazione – per lo più araba e musulmana – del resto del Paese. Per cui mi ero rallegrato per la conquistata indipendenza nel luglio 2011, considerandola l’inizio di tempi migliori.
Invece (come del resto è capitato con l’Eritrea) le cose non sono andate come si sperava e le recenti notizie di violenze sistematiche e stupri di massa lasciano poco spazio all’ottimismo per il “Paese più giovane del mondo”.
Del resto, anche calcolando soltanto gli ultimi dieci anni possiamo parlare di ordinaria amministrazione. Nella brutale guerra civile che prosegue imperterrita e ininterrotta dal 2013 (nonostante gli accordi di pace, mai rispettati, del 2018 tra Salva Kiir e Riek Machar), a pagare il prezzo più alto sono soprattutto le donne.
L’esercito e le varie bande armate (talvolta direttamente agli ordini di funzionari, governatori, commissari), sia quelle filo-governative sia quelle dei ribelli, utilizzano (così come avviene in Congo, in Medioriente, eccetera) lo stupro come arma di guerra. Oltre naturalmente a saccheggi, incendi di villaggi, devastazione del territorio e distruzione di raccolti, con le conseguenti carestie, che costringono interi gruppi etnici e tribali ad abbandonare le loro terre ancestrali. Si calcola che oltre due milioni di abitanti del Sud Sudan siano fuggiti oltre confine in Uganda, in Etiopia, in Sudan, mentre altri due milioni si ritrovano nella condizione di “rifugiati interni”.
In occasione della recente conferenza di Londra, Preventing Sexual Violence Initiative,
la presidente della commissione delle Nazioni Unite per i diritti umani in Sud Sudan, Yasmin Sooka, ha dichiarato che “in nessun’altra parte del mondo si trovano così tante donne che vivono un conflitto subendo ripetutamente stupri di gruppo, anno dopo anno, dal 2013”. Aggiungendo che tali donne successivamente subiscono l’ulteriore umiliazione di venire “abbandonate dai mariti, emarginate anche dalle proprie famiglie a causa della violenza che hanno subìto”. Mentre ovviamente i maschi responsabili rimangono impuniti, anzi talvolta fanno carriera.
Nel 2014 l’allora presidente Salva Kiir aveva firmato un comunicato congiunto con l’ONU in cui si proponeva come “un campione nella lotta contro la violenza sessuale”. E anche l’esercito tre anni fa aveva promosso un “piano d’azione per affrontare la violenza sessuale”. Inoltre nel 2020 il governo del Sud Sudan aveva istituito un tribunale per la violenza di genere nella capitale Juba. Ma si trattava di parole al vento.
Intanto un gran numero di donne (tra i due e i tre milioni, si calcola) devono arrangiarsi come possono. Evitando i luoghi a rischio, compresi quelli indispensabili per la vita quotidiana come i punti di raccolta dell’acqua e della legna, o i mercati.
Secondo il rapporto della commissione ONU, in uno degli Stati più esposti a tala piaga – Unity, uno dei 10 che compongono il Sud Sudan – il Commissario della contea avrebbe pianificato e ordinato stupri di massa, con oltre seimila casi accertati nel 2021. A cui spesso seguivano decapitazioni e vittime arse vive, con casi documentati dal rapporto onusiano anche di bambine con meno di dieci anni.
E la denuncia di Yasmin Sooka proseguiva: “Stupri diffusi, di gruppo, incredibilmente brutali e prolungati vengono perpetrati da tutti i gruppi armati in tutto il paese, spesso nell’àmbito di tattiche militari di cui sono responsabili governi e leader militari. Spesso mariti, genitori o figli delle vittime sono stati costretti a guardare, impotenti”.
Che dire? A volte l’indipendenza da sola non basta, evidentemente.