Nelle leggende custodite dagli anziani ed in alcuni toponimi è ancora vivo il riverbero di una vicenda che insanguinò quest’angolo di Piemonte nel XV secolo: come altrove e per un lungo arco di tempo, anche qui “femmine del diavolo”, “ree” di comportamento irregolare rispetto ai canoni prefissati, furono le vittime innocenti di una violenza in cui si mescolavano superstizione, cieca e malintesa osservanza religiosa, pregiudizio sessista e spietato esercizio del potere.

La stregoneria in modo diverso ha coinvolto le nostre regioni, generando paure e angosce spesso amplificate dalla superstizione e dalle tendenziose e oscuranti “verità” pretese da un clero troppo lontano dall’autentico incarico di cui si diceva depositario. Allora, mentre il fumo nero si alzava in paesi e città, il “braccio secolare” si sentiva il vero salvatore di una società tormentata da mali che avevano un’origine reperibile in elementi catalizzatori adagiati tra i figli del Bene: le streghe. Qui ci limiteremo a riflettere su alcuni avvenimenti verificatisi nel Canavese (provincia di Torino) nel XV secolo: sono fatti che, pur nella dimensione un po’ “naïf”, fatta di cose semplici e legate alla realtà rurale collettiva, trasudano comunque quel terrore e quella sofferenza che in Occidente avvolsero milioni di vittime, spesso innocenti creature, colpevoli solo di diversità “spaventose” per una mentalità bigotta e legata a schemi ciechi e sordi a qualunque invocazione, a qualunque possibile soluzione riconducibile al piano della razionalità.

Vediamo il testo da cui, secondo il Vayra1 che per primo lo studiò, ancora “uscivano grida strazianti di dolore e stillavano lagrime e sangue”… “In nome del Signore, così sia. L’anno di sua natività 1474, l’indizione settima ed il giorno II del mese di agosto. Questa è un ’inquisizione o titolo inquisizionale per cui il venerabile professor di canoni in ambe leggi Francesco Chiabaudi, Commissario e delegato speciale del reverendissimo Padre in Cristo Vescovo di Torino e del venerabil uomo Michele De Valenti, Priore dell’ordine di S. Domenico della stessa città di Torino, Inquisitore dell’eretica pravità, procede ed intende procedere per proprio ufficio e per l’autorità impartitagli contro Antonia moglie d’Antonio De Alberto seniore, Francesca moglie di Giacomo Viglione, Bonaveria moglie d’Antonio Viglione, e Margarita moglie del fu Antonio Braya, tutte di Levone, convinte e confesse ree degli infrascritti malefizi, incantesimi, stregherie, eresie, venefizi, omicidi e prevaricazioni della fede nostra e del Salvator Nostro Gesù Cristo…”

In un’altra raccolta di documenti processuali, dopo il solito elenco inquisizionale si leggono i nomi di: “Guglielmina moglie del fu Giacometo Ferreri, Margarita moglie di Ardizzone Cortina detto di Favria, Turina moglie di Stefano Regis, tutte di Rivara, e Antonia moglie di Pietro Comba, e Antonia moglie di Giovanni Goleto, ambedue di Forno di Rivara, accusate e sospette del crimine di stregoneria, e contro qualunque dei loro complici e partecipi nello stesso delitto”. Tralasciamo, per ovvi motivi di spazio, i tanti capi d’accusa limitandoci a riportarne solo alcuni in grado di offrire un quadro generale, da cui possiamo individuare abbastanza nitidamente quanto fosse radicato il potere della superstizione alimentata da una cieca osservanza dei dogmi, spesso manipolati, imposti dalla Chiesa. Antonia, moglie di De Alberto, e Francesca, moglie di Viglione, furono le vittime designate; a loro carico, tra le tante accuse, troviamo: “D’avere le sovrannominate colle loro complici, per suggestione diabolica (…) prestato fedeltà ed omaggio ciascuna ai loro demoni infernali, che fino a quell’anno avevano tenuto e considerato per loro maestri ed amanti (amorosos)… D’avere le nominate Francesca ed Antonia e complici, spesso e ripetute volte avute e commesso sessuali relazioni (carnalem copulam) cogli stessi Pietro, Gabriele e Giovanni loro amanti, maestri e demoni infernali… D’essere andate coi loro complici in grandissima comitiva talora di più e talora di meno, coi loro maestri, amanti e demoni infernali di notte tempo e con altri della setta stregoni, dei quali alcuna volta ve n’era cento, altre volte duecento, cinquecento e settecento e più, ed anche tanti da non potersi più numerare e conoscere, al pian del Roc, sul monte Soglio, al luogo detto al Porcher, nel prato Aviglio, nella Capegna, nel prato Lanceo, e in altri molti e diversi luoghi2, nei quali menavano danze e facevano le loro sinagoghe, al suono ed ai canti dei demoni infernali, ballavano con essi e cogli altri tutti della loro setta… D’essere andate le predette inquisite coi loro complici di notte tempo, più e più volte al cimitero di S. Giacomo di Levone e d’avervi diseppellito fanciulli e prese piccola ossa e midolli con cui fabbricavano unguento e polveri velenose per uccidere ed avvelenare persone e animali, mescolando colle dette polveri dei rospi ed altre materie velenose… D’avere la predetta Antonia, istigata da spirito diabolico, stretta colle mani sul petto, stregata ed ammaliata una bambina di tre anni, che il di lei figlio Giovanni aveva avuta da sua moglie Beatrice, così fattamente che la bimba visse solo quattro o cinque giorni quindi morì… (…) preso parte dello stregamento di molte bestie bovine degli eredi di Pietro Braya, sicché molte ne morirono e quindi si diceva ch’erano morte di polmonite… Per confessione della sovrannominata Francesca, spontaneamente fatta3, risultò che il detto Gabriele demonio infernale, alcune volte veniva a visitarla sotto forma di un montone nero e quindi cambiavasi in un bel fanciullo, e così faceva all’amore con essa (et choitum habebat cum eadem) nei luoghi, nei quali andavano alla ridda al suono di zampogne, eh’era un suono più sordo di quello che usano i cristiani…”

L’elenco continua e si arricchisce di altri nomi; le accuse sono quasi sempre riferite agli stessi delitti: “ ammascamento” di bambini, concubinaggio attuato con filtri e altri mezzi magici, malefici diversi contro animali domestici (bovini in particolare). La sentenza non si fece attendere, in quanto le “prove” erano incrollabili per l’accusa: “In nome del Signore, così sia. Noi Francesco Chiabaudi, giurisperito in ambe leggi, Commissario e delegato dei reverendi padri il Vescovo di Torino e Michele De Valenti priore di San Domenico della stessa città, Inquisitore dell’eretica pravità in Lombardia (…) Visto le molteplici e spesso ripetute conferme, e tenuto presente quanto risulta dal processo, perché dalle confessioni da esse fatte spontaneamente, risulta che esse sono streghe, eretiche, che hanno rinnegato Iddio, conculcata la croce, prestata fedeltà al demonio in segno della quale gli offrivano tributo, e che per arte diabolica e di proposito deliberato hanno perpetrato e commesso molti altri e diversi malefizi. Tenendo davanti agli occhi Dio solo, secondo il costume dei nostri maggiori sedendo pro tribunali, con nostra sentenza definitiva pronunziamo e dichiariamo, che le predette Antonia e Francesca sono state e sono streghe ed eretiche e devono essere rimesse al braccio secolare, come per le presenti le rimettiamo, dichiarando i loro beni confiscati”.

Alla sentenza fece seguito, secondo un fin troppo noto cliché, la condanna. Il consultore legale, Vincenzo di Front, rispondendo al Podestà affermava che: “…secondo le chiare disposizioni del cap. 18 degli Eretici, tit. II, libro V delle Decretali, che dice-affinché l’inquisizione contro l’eretica pravità possa prosperare a gloria di Dio ed accrescimento delle fede, ecc., e secondo quanto prescrive la legge sui Manichei del Codice Giustinianeo al titolo V del libro I, cap. I e 4, è cosa da lasciarsi all’arbitrio del giudice (…) Perciò io son di parere, egregio Podestà, che attesa la sentenza proferita contro di esse, per la quale vi consta ch ’esse sono state e sono eretiche, apostate e streghe; e ritenuto che dai loro processi, confessioni e ripetizioni risulta ch ’esse stesse hanno detto, propalato e divulgato e spontaneamente confessato in presenza di voi stesso e di altri testimoni degni di fede (…) voi abbiate colle solenni formalità d’uso, a punizione di così detestabili scelleratezze pronunziare che le predette donne devono essere tradotte all’ultimo supplizio, il quale ultimo supplizio interpreto essere l’arsione sul rogo, a cui siano condotte perché su di esso periscano nel fuoco”.

E Antonia e Francesca nel fuoco perirono il 7 novembre 1474, in località Prà Quazoglio, tra Levone e Barbania. Altre due vittime dell’inquisizione lasciarono la loro veste mortale tra le fiamme e il fumo scuro per ritornare a congiungersi per sempre con altre creature del male, “e ciò esser vero, notorio e manifesto”, come ebbero a dire gli inquisitori quando di due povere contadine piemontesi, vittime dell’ignoranza e della superstizione, non restava altro che cenere fumante… Al di là di luoghi comuni, comunque difficili da evitare, la strega, o masca (così è chiamata in molte aree del Piemonte), è l’alchimista del peccato abile nel travestirsi, nel mutare aspetto, quando insegue, nelle fantasie mai estinte del popolo, incubi che poi si faranno realtà e andranno a violare altre vergini, o bimbi, impotenti figli di un amore sconosciuto per la prediletta concubina del Gran Capro. Per Paracelso le streghe furono le artefici della sua sapienza, “sono state loro a rivelarmi il meglio che so; per dieci anni non ho mai aperto un libro ”… E ancora oggi, verso la fine del XX secolo, quando il computer si è ormai instaurato anche nelle nostre emozioni, la masca è ancora presente nelle mille sfumature del nostro percorso esistenziale. Si è insinuata nelle leggende, nei proverbi, nelle repentine variazioni atmosferiche, nei suoni sconosciuti, nel demoniaco urlo della civetta, nel lacerante pianto del gatto… La donna con il suo segreto fatto di sesso sempre desiderato e sempre temuto, in quell’insicurezza materiale e morale che governava le campagne piemontesi di quel tempo, fu ben presto identificata come l’essere terreno più facilmente dominabile dalla potenza di Satana, in cui corna e fallo si univano in un’apoteosi trionfale. La vera vittima della stregoneria, prima di essere la strega, fu la donna4, custode del male primigenio, discendente diretta di quell’essere che si oppose al proprio Dio creando il peccato… Anche Sant’Agostino sentenziò “la donna rappresenta la parte inferiore dell’umanità”, confermando la solidità del rapporto donna- peccato che nel tempo, pur attenuandosi, non ha totalmente abbandonato certe consuetudini mentali comuni, tipiche di aree etnolinguistiche più chiuse alle istanze provenienti da Oltralpe. La vittima individuata divenne presto un mezzo importante per connotare con maggiore nitidezza l’aspetto del male, quindi “streghe ed eretici furono il capro espiatorio di una umanità irrequieta ed instabile, in cerca di responsabili per la propria irresponsabilità: confuso sentimento di colpa per aver violato le colonne d’Ercole del mondo medievale, congiunto ad un’altrettanto confusa pretesa di poter conoscere ed individuare sempre e dovunque la cause del male”5. La strega era presto identificata tra quelle persone la cui posizione periferica (o comunque “anomala”) all’interno della struttura sociale era già una garanzia del gruppo (al limite era una presenza statica, se non addirittura colpevole di un’improbabile involuzione). Le possibilità di difesa della vittima erano spesso troppo limitate e in gran parte difficili da sostenere, davanti alle ire frustrate e alle repressioni di genti in cerca di colpevoli a cui affidare l’espiazione di un peccato insito nelle specie e, apparentemente, amplificato da alcuni esseri malvagi, diversi per il loro irregolare comportamento, troppo staccato dalle imposizioni morali e materiali della “civile” convivenza.

E nove milioni di streghe o presunte tali, furono “giustiziate” per ristabilire l’equilibrio perduto, per allontanare il male radicatosi tra le adepte del Grande Capro. La cultura della nostra civiltà occidentale ha dovuto macchiarsi anche di questo genocidio per sentirsi forte, per purificarsi del male che ne corrodeva la solida struttura, minata da angosce e superstizioni che come fantasmi si aggiravano costantemente, lacerando il sonno ai “giusti”. Vicende come quella di Levone, sono uno dei tanti tasselli di quel grande mosaico fatto di dolore e di sofferenze immense su cui si è andata consolidando anche la nostra esperienza con l’universo dell’irrazionale, con quanto sfugge ai parametri della realtà. La scienza però non ha rinunciato ad analizzare con i propri strumenti certi fenomeni legati alla stregoneria; in particolare alcune dichiarazioni rilasciate dalle accusate, nel corso dei vari processi, possono offrire interessanti opportunità di dibattito. Tali dichiarazioni, accettate in toto e considerate fondamentali dai giudici dell’epoca per la condanna, sono oggi prive di legami con la ragione, ma non per questo non analizzabili con chiavi diverse offerte dalla medicina, dalla psicologia e da altre scienze.

Prendiamo, ad esempio, uno dei capi d’accusa del processo preso in esame in questa occasione: “(…) essa stessa (Francesca n.d.r.) aveva confessato, tenuto un certo unguento datole dal di lei maestro ed un bastoncino ogniqualvolta ungeva il quale si trovava, colla comitiva degli altri, a Venezia, talaltra a Pavia, ed Ivrea ed in molti e diversi altri luoghi lontani, ove tutti insieme commettevano vari ed infiniti mali…”. Le streghe che affermano di essersi spostate in volo superando grandi distanze, sono un “leitmotiv” che è stato ampiamente sfruttato dall’iconografia più classica, e in particolare da quella popolare; non è però da escludere che tale esperienza sia solo il risultato di una visione riconducibile alla sfera onirica o psicopatologica. La testimonianza proposta precedentemente presenta una casistica fenomenologica che è tipica e in più occasioni stereotipata: l’esempio del volo attuato con l’ausilio di unguenti capaci forse di determinare una sorta di catalessi, con il conseguente risveglio in altri luoghi, è certo un caso ricorrente. Nei verbali degli interrogatori tali esperienze sono sempre riproposte con una forte confusione di fondo, dove le singole parti delle narrazioni perdono la loro consistenza cronologica. Non è poi da escludere che certe streghe fossero epilettiche o isteriche, e coinvolte quindi in crisi di sdoppiamento schizoide non ancora comprese con la dovuta razionalità dalla giovane scienza di allora. Sull’assimilazione di unguenti e filtri in grado di contribuire all’esperienza del volo, esistono versioni diversificate: se analizziamo l’eco di tale credenza con le nostre conoscenze attuali, saremmo portati ad individuare in questa pratica una forma di tossicomania. Strane elaborazioni erboristiche e l’assimilazione di prodotti in grado di alterare lo stato di coscienza, per indurre il praticante a credere di volare e di partecipare a cerimonie misteriose in luoghi lontani, potrebbero essere le cause di tali visioni altrimenti difficilmente riconducibili sul piano della realtà. Quando, però, certe allucinazioni si sono trasferite da un piano individuale ad uno collettivo, è un po’ difficile credere solo all’assimilazione di droghe e non piuttosto ad una forma di misticismo deviato, esaltato da tutta una serie di motivazioni dominate da singole istanze locali influenzate comunque da echi giunti dall’esterno. Si è anche pensato di individuare nell’uso prolungato di allocinogeni l’insensibilità al dolore di alcune presunte streghe, documentato in alcuni verbali di interrogatorio. L’insensibilità al dolore potrebbe però essere dovuta ad una sorta di anestesia isterica, autogenerata e presente in alcuni individui particolarmente instabili o travolti da situazioni esterne in grado di alterare ogni loro possibile reazione. La vicenda che abbiamo ricordato, consumatasi in una piccola area del Piemonte, durante un secolo martoriato dalla violenza dell’inquisizione sempre alla ricerca di colpevoli a cui addossare l’origine di un male collettivo, è solo una delle tante tracce ancora reperibili negli archivi della nostra storia, dove la violenza e la follia sono penetrate in un ambito apparentemente governato dalla sola ragione. Un’eco delle streghe canavesane, che in Prà Quazoglio furono arse dopo un “regolare” processo, è ancora viva nelle leggende locali, nelle storie da narrare ai bimbi e custodite dai più anziani, in qualche toponimo mantenutosi integro malgrado l’evoluzione che, bene o male, ha coinvolto anche questa porzione della regione. E come spesso accade nelle leggende, il patrimonio narrativo che ne scaturisce, anche se intriso di elementi fantastici, dimostra comunque di non aver perduto il proprio consistente legame con la realtà; un legame più forte degli uomini, forse più forte degli stessi magici poteri riconosciuti a due “femmine del diavolo”, che, nel 1474, invocarono il loro dio tra il fuoco purificatore capace di incenerire i corpi, ma impotente davanti all’indistruttibile forza di un male costantemente in lotta con le invocazioni del bene primigenio.

 

Note

1 Il materiale relativo ai processi citati in questo articolo è stato raccolto e tradotto da P. Vayra, ed ha trovato una dimensione editoriale nel volume Le streghe nel Canavese (Torino 1970) realizzata da “Piemonte in bancarella”.

2 Luoghi che, pur avendo subito delle varianti toponomastiche, sono ancora rintracciabili nelle valli del Canavese.

3 Sulla formula “confessione spontanea” si potrebbe discutere. In pratica la procedura dell’interrogatorio dell’inquisito dopo una prima fase che poteva chiudersi con la formula “Dominus Judex non est contentus” (il signor giudice non è soddisfatto), continuava con un livello di tortura o questione, fino a quando questo mezzo non strappava alla vittima la promessa di una rivelazione. Seguiva quindi l’interrogatorio; se anche in questo caso non si otteneva nulla, si pronunciava una seconda sentenza di tortura; dopo questo procedimento la confessione era ancora considerata spontanea, “Quando poi né la minaccia né l’applicazione della tortura avevano vinto la costanza o la forza fisica del paziente, o ridottolo a tale disperazione da cercare d’affrettarsi la morte confessandosi reo anche dei più impossibili delitti, non mancavano per ciò ragioni all’Inquisizione per condannarlo egualmente se non come confesso, come convinto” (P. Vayra, op. cit.). La tortura “non conosce epoca, non ha luogo, non esige particolari procedure, non prescrive né ambienti, né mezzi, non nasce da strutture giuridiche o inquisizionali, e non ha bisogno di giustificazioni d’essere” (R. Held, Strumenti di tortura dal Medioevo all’epoca industriale, Firenze, 1983).

4 Solo sul problema della stregoneria in Occidente, se pur circoscritto al Medioevo, gli studiosi devono misurarsi con una bibliografia sterminata e con un’eterogenea quantità di documenti e testimonianze di origine diversa. Per un primo approccio: G. Bonomo, Caccia alle streghe. La credenza delle streghe dal secolo XII a/ XIX, Palermo, 1959; M. Romanello (a cura), La stregoneria in Europa, Bologna, 1975; C. Ginzburg, I benandanti: stregoneria e culti agrari tra Cinquecento e Seicento, Torino, 1972; M. Duglas (a cura), La stregoneria. Confessioni e accuse nell’analisi di storici e antropologi, Torino, 1980; F. Cardini, Magia, stregoneria, superstizioni nell’occidente medievale, Firenze, 1979; A, Foa, La stregoneria in Europa, Torino, 1980; I. Michelet, La strega, Parigi, 1862; F, Troncargli, Le streghe, Roma, 1983.

5 F. Troncarelli, op. cit.