Con un recente comunicato, i prigionieri del PKK (Partito dei Lavoratori del Kurdistan) e del PAJK (Partito delle Donne Libere del Kurdistan) hanno voluto far chiarezza su quale sia il significato e la posta in gioco dello sciopero della fame in corso; sciopero che in questa prima settimana di aprile si conferma irreversibile e a oltranza. Si svolge ormai da oltre 30 giorni in varie carceri (a Şakran, Sincan, Edirne e Van) mentre in tutte le altre prigioni era iniziato il 15 marzo. Una protesta sia per l’isolamento totale imposto a Ocalan, sia contro tutte le pratiche di oppressione, tortura e annichilimento cui vengono sottoposti i prigionieri curdi.
Nel comunicato dei prigionieri si ribadisce che “essere in grado di dire ‘no’ alla trappola mortale che il sistema cerca di imporre ai nostri popoli sarà l’inizio per sventare gli attacchi”.
“Come prigionieri”, hanno scritto, “siamo consapevoli del fatto che con le nostre diecimila famiglie siamo una grande forza di resistenza e crediamo di poter svolgere il nostro ruolo storico: su questa base condividiamo la nostra vita e il suo significato con il nostro Leader e possiamo essere creatori di grandi trionfi. La vittoria certamente sarà di chi resiste nella verità”.
Altrettanto esplicita la dichiarazione di Deniz Kaya a nome del PKK-PAJK: “Il governo dell’AKP non accetta una soluzione democratica politica e la trasformazione, e mira a prolungare la sua esistenza portando il fascismo all’ultima soglia e istituzionalizzandolo: così sta gettando ancora una volta il popolo curdo in una situazione senza status nell’ambito della riorganizzazione della regione. Tutte le loro politiche sono mirate a questo.
Tutta l’oppressione, la violenza e le violazioni di diritti con gli arresti si riflettono sulle carceri”.
Per Deniz Kaya, cioè, quanto avviene all’esterno in termini di repressione è complementare a quanto accade nelle prigioni.
Alcune carceri poi sarebbero “selezionate come centri pilota per la tortura. Stanno cercando di spezzare la nostra volontà in questo modo e allo stesso tempo vogliono che ogni galera si occupi dei suoi problemi e non sia in grado di sostenere abbastanza le altre”.
E continua spiegando che “nel carcere T4 di Şakran la vita è diventata un inferno. Tutti i prigionieri e le famiglie sono costretti a essere perquisiti nudi. L’amministrazione sta imponendo disonore e sottomissione con pratiche come stare in piedi durante l’appello, camminare in fila nei corridoi e attaccare l’identificativo del carcere sui vestiti. I prigionieri in cinque celle di questo carcere sono completamente isolati e non possono comunicare gli uni con gli altri”.
Per questo “facciamo appello alle ONG in Turchia e ai parlamentari del CHP che sostengono i diritti umani perché vadano a vedere la situazione in questo carcere e la rendano visibile ad altri. Come prigionieri e prigioniere di PKK-PAJK denunceremo quest’amministrazione carceraria, scriveremo alle istituzioni internazionali e mostreremo la nostra solidarietà in questo modo.
Dire ‘no’ sarà un inizio”.
Hanno paura anche dei morti?
Invece, i governanti turchi sembrano sempre più determinati a inasprire la repressione nei confronti della popolazione curda, anche colpendo i simboli della resistenza.
In questi giorni aerei da guerra turchi hanno nuovamente colpito il Cimitero dei Martiri Mehmet Karasungur a Qandil (Kurdistan iracheno), distruggendo sia le tombe sia l’attiguo museo.
Nel cimitero sono sepolti guerriglieri curdi morti in combattimento in ogni parte del Kurdistan. Il luogo viene quotidianamente visitato dalle famiglie dei caduti, così come il museo limitrofo che conserva immagini e memorie dei martiri.
Da segnalare che nell’ultimo bombardamento sono rimaste uccise anche le colombe che qui venivano ospitate e nutrite.
Tra le persone immediatamente accorse dopo il bombardamento, il cittadino Mam Şêx di Qandil: “In nessun’altra parte del mondo”, ha dichiarato ai giornalisti curdi, “vengono bombardati i cimiteri. Questo è un atto inumano. Il più grande tradimento. Condanno lo Stato fascista turco che non ha neanche un po’ di umanità e teme i nostri morti”.
Ancora più esplicito il commento di un guerrigliero, Çekdar, che ha definito il bombardamento “un segno di debolezza da parte dello Stato turco” e ricordato che per i curdi “i cimiteri dei Martiri sono la nostra linea rossa”. Una linea rossa che il governo turco sembra disposto a superare innumerevoli volte.