Stavolta pare proprio che ci siamo. Purtroppo.
Ormai da settimane Erdogan andava blaterando in merito alla sua intenzione di attaccare il Rojava per sradicarvi l’esperienza del “Confederalismo democratico”, la rivoluzione curda. Ossia fare il bis di Afrin con il suo seguito di repressione, uccisioni e pulizia etnica. Ovviamente – se l’invasione effettivamente avvenisse – qui non potrà andare altro che peggio. Sei milioni di civili (arabi, armeni, curdi e turcomanni) rischiano, come minimo, di dover lasciare le loro case, diventando profughi e sfollati.
Non sembra consentire dubbi ottimistici o tardive speranze l’annuncio dell’amministrazione statunitense del 6 ottobre: “Le truppe americane posizionate in Siria stanno per ritirarsi dai confini turchi in quanto la Turchia sta per avviare un’operazione prevista da lunga data nel nord del Paese” (da Huffingtonpost).
E infatti – stando a quanto comunicava l’ANF – già dal mattino del 7 ottobre le forze della coalizione internazionale avrebbero “cominciato a ritirarsi dai posti di osservazione di frontiera di Serekaniye e Gire Spi nella regione dell’Eufrate”.
Questa la – opinabile – giustificazione ufficiale di Washington. Dato che la Casa Bianca ha richiesto invano a Francia, Germania e altri Stati europei di riprendersi i combattenti dello Stato Islamico, quelli con cittadinanza europea fatti prigionieri, Ankara vorrebbe ora farsene carico, diventarne direttamente responsabile. L’ennesimo colpo basso per i curdi e i popoli della Siria del Nord e dell’Est. Una ulteriore conferma della solitudine, dell’abbandono a cui la comunità internazionale condanna da sempre il popolo curdo i cui carnefici sono, di volta in volta, sostenuti e appoggiati sia dalla Russia di Putin, sia dagli USA di Trump. Così come in passato dalla Germania o da altre nazioni europee (Italia compresa, vedi la vendita di elicotteri).
I curdi sono intenzionati a resistere, a combattere. Ma appare evidente la sproporzione tra la potenza di fuoco della Turchia – uno Stato membro della NATO – e quella di un popolo braccato e perseguitato. Un popolo che ancora una volta deve amaramente constatare di “non avere altri amici oltre le montagne”.