Della Guerra di Secessione americana (1861-1865) conosciamo la narrazione della vulgata ufficiale che ci ha indicato i “buoni”, quelli del Nord che volevano abolire la schiavitù, e i “cattivi”, quelli del Sud.
Nel 1861 gli Stati Uniti erano un governo federale in precario equilibrio, non esisteva un’unica nazione e tutto era fonte di divisione. Con la vittoria alle elezioni presidenziali nel 1861 di Abraham Lincoln, repubblicano e centralista, il già difficile equilibrio si ruppe per sempre. Il problema era il potere del presidente rispetto a quello del Congresso. Lincoln portò in parlamento una maggioranza schiacciante del Nord, e i membri del Sud evidentemente non si sentivano garantiti, lassù a Washington. Ciò legittimò – in base al X emendamento degli USA del 15-09-1787 – il distacco dall’Unione di 11 e poi di 13 Stati del Sud, dando vita agli CSA. Aderirono progressivamente alla secessione l’Alabama, l’Arkansas, la Carolina del Nord, la Carolina del Sud, la Florida, la Georgia, la Louisiana, il Mississippi, il Missouri, il Kentucky, il Tennessee, il Texas e la Virginia. Ogni Stato era una piccola patria, con la sua storia, la sua tradizione e l’ambizione di un destino unico. Fu eletto Presidente Jefferson Davis.
Ambiguità
Nella sua campagna elettorale Lincoln aveva promesso l’abolizione della schiavitù, ma con l’avvicinarsi del voto divenne improvvisamente cauto e del punto fondante del suo programma di emancipazione non fece più cenno. Ambiguo rispetto agli Stati nei quali lo schiavismo era consentito per legge, disse: “Non ho alcuna intenzione, diretta o indiretta, d’interferire con l’istituzione della schiavitù negli Stati dove esiste”. Come tutti gli appartenenti a famiglie agiate, anch’egli ebbe a servizio degli schiavi.
La storiografia, superati i vecchi luoghi comuni, non vede più l’abolizionismo come causa del conflitto ma come un regolamento di conti tra gli interessi divergenti del Nord e del Sud. Lo storico Dominique Venner, nel libro Il bianco sole dei vinti, Settimo Sigillo, 2015, confermò: “La lotta che inizia non ha radici dottrinali e la schiavitù servì come pretesto a una lotta per l’egemonia”.
A ciò si aggiunse la differenza tra Stati con culture provenienti da luoghi diversi d’Europa: la Louisiana cattolica discendente dalla Francia, la Nuova Inghilterra puritana discendente dagli immigrati inglesi. Ciò premesso, il 12 aprile 1861 Lincoln innalzò le difese intorno ai porti principali, come a Charleston nella Carolina del Sud, contro quelli che chiamò “ribelli”, i quali reagiranno attaccando a Fort Sumter e iniziando una guerra che porterà gli Stati Uniti a dividersi facendo 618.000 morti.
Il Nord non voleva la concorrenza del Sud, che considerava una colonia, e che esportava le materie prime in tutta Europa, specie nel Regno Unito e in Francia. Il protezionismo del Nord incominciò a mettere a repentaglio l’economia agricola dei piantatori meridionali di tabacco, cotone e canna da zucchero, propiziata dalla mano d’opera degli schiavi e da un inizio di industrializzazione.
Il Nord era maggioritario nelle istituzioni politiche. Più popolato del Sud (la qualità intellettuale di quest’ultimo non riuscì a compensare l’inferiorità numerica: 9 milioni contro 22), imporrà alte barriere doganali e costringerà gli Stati meridionali a comprare le sue merci. A questi sarebbe invece convenuto il libero scambio attraverso l’importazione estera di manufatti e i ricavi dell’esportazione agricola, senza nessuna interferenza doganale. Essi calcolarono che su ogni dollaro ricavato dalla vendita del cotone, quaranta cent finivano nelle tasche degli “abolizionisti” nordisti.
Il dopoguerra
La battaglia di Antietam, presso Sharpsburg nel Maryland, segnò il 17 settembre 1862 la svolta del conflitto. Con l’arresto dell’attacco confederato e il ritiro del suo esercito, per il Sud la situazione volgeva al peggio. Ma è a Gettysburg, in Pennsylvania, che avverrà la più famosa battaglia e simbolo del conflitto. Si combatté nel luglio 1863 per tre giorni, al termine dei quali i Confederati sconfitti tornarono in Virginia quando erano a pochi chilometri dalla capitale nordista, Washington. Il generale sudista Robert Edward Lee perse 25mila uomini su un esercito di 75mila: una sconfitta devastante anche sul piano morale.
Il generale, sconfitto ma molto rispettato, per quattro anni fronteggiò i nordisti ma, il l9 aprile 1865, ad Appomattox in Virginia si arrese alla potenza militare, superiore per numero e armi, del generale unionista Ulysses S. Grant.
Durante la guerra i CSA cercarono alleanze con le nazioni europee, ma il loro riconoscimento di status di nazione indipendente fu terreno di scontro delle diplomazie nordiste e sudiste. Gli unici alleati dei CSA furono i nativi americani delle tribù cherokee, chickasaw, creek, choctaw e seminole.
Il brigadiere generale De-Ga-Ta-Ga, un cherokee noto come Isaac Stand Watie a capo della Brigata del Trans-Mississippi, fu l’ultimo generale sudista a deporre le armi a Doaksville in Oklaoma. Appena terminata la guerra, il 14 aprile 1865 Lincoln venne assassinato con un colpo di rivoltella al Ford Theatre di Washington dall’attore John Wilkes Booth. Un atto che non modificò le sorti del conlitto, con il Nord vittorioso.
Con il Proclama di Emancipazione del 1863 e poi con la ratifica del XIII emendamento della Costituzione, il vincitore si liberò dello schiavismo, disinteressandosi però della sorte degli ex schiavi. Poveri e disprezzati, essi continuarono a non poter condividere gli alberghi con i bianchi, né viaggiare nelle stesse carrozze, né far visita alle famiglie dei bianchi o tantomeno unirsi con loro in matrimonio. Eliminata l’aristocrazia terriera sudista, che aveva improntato i rapporti con gli schiavi al paternalismo e alla cura (certo molto interessata) della propria forza lavoro, la politica del Sud passò ai bianchi delle classi meno agiate e ovviamente ne scaturì una lotta tra poveri.
Diplomazia confederata e Vaticano
Dall’indipedenza dall’impero britannico il 4 luglio 1776, gli Stati Uniti d’America ebbero rapporti con lo Stato Pontificio regolati solo attraverso relazioni civili e commerciali. Nel 1788 papa Pio VI inviò un legato a Parigi all’incontro con il diplomatico degli Stati Uniti, Benjamin Franklin, per chiedergli se il presidente George Washington fosse d’accordo sulla nomina di un vescovo nel nuovo Stato. Il presidente gli rispose che “poteva nominare qualunque vescovo negli Stati Uniti, poiché la rivoluzione ha portato alle colonie la libertà, anche quella religiosa”. Washington, di confessione anglicana, omise volutamente di dire che non avrebbe riconosciuto diplomaticamente lo Stato Pontifico (riconoscimento avvenuto 196 anni dopo, nel 1984!) e Pio VI si accontentò di nominare un gesuita, padre John Carroll, primo vescovo statunitense.
Nel 1849 a Gaeta vi fu un evento insolito. Pio IX, grazie ai sovrani del Regno delle Due Sicilie, salì a bordo della fregata da guerra USS Constitution – quindi in territorio statunitense – in compagnia del console John Rowan Jr. e del comandante John Gwinn, visitando la nave e donando ai cattolici dell’equipaggio dei rosari e la sua benedizione. Al ritorno negli USA, il console fu chiamato a rapporto dal governo e il comandante della fregata… “benedetto” dal tribunale militare statunitense.
Questo è il quadro dei non-rapporti diplomatici fra i due Stati fino al momento dello scoppio della Guerra di Secessione americana del 1861. Ma il tempismo non poteva essere “migliore”: contestualmente stava finendo il potere temporale del papa con l’occupazione dello Stato Pontificio da parte dei Savoia. Una faccenda non proprio marginale.
Da un censimento del 1850 i cattolici americani erano un milione, una minoranza rispetto ai protestanti. Essi seguivano la politica dei loro Stati: con l’Unione se abitavano nel Nord, con la Confederazione se abitavano nel Sud; in questo secondo caso, non senza riserve sull’istituzione della schiavitù. Al confine tra il Nord e Sud, i cattolici secessionisti durante la Santa Messa uscivano dalla chiesa quando si recitava la preghiera per Lincoln.
Il presidente degli Stati Confederati, Jefferson, di confessione episcopale (anglicani divenuti indipendenti dopo l’affrancamento dagli inglesi), vide nell’apparente prosperità del Sud schiavista un segno della benevolenza di Dio messa a rischio dall’espansione del Nord.
Nel 1862 Pio IX, temendo che il conflitto spezzasse in due il cattolicesimo, scrisse all’arcivescovo di New York, John Joseph Hughes, e a quello di New Orleans, Jean Marie Odin, chiedendo loro di sedare il conflitto.
Cristianesimo e istituzione della schiavitù
Il cristianesimo ha affermato la dignità di ogni uomo prescindendo dalla sua condizione sociale. Lo schiavo sapeva così di valere come il suo padrone, in quanto Cristo era morto anche per lui: “Lo schiavo che è stato chiamato nel Signore è un uomo libero, a servizio del Signore!” (1Cor 7,22). Tuttavia la Chiesa di Cristo, che contribuì spesso all’affrancamento degli schiavi, tollerò nel contempo tale istituzione. Prova ne sia che San Paolo non denunciò la schiavitù, ma chiese solamente al suo amico Filemone di trattare lo schiavo che gli mandava, non come tale, ma di più: come un fratello. Ci vorranno secoli prima di poter giungere a una chiara condanna dello schiavismo da parte della Chiesa.
Per oltre un millennio ci si è limitati a invocare condizioni migliori per gli schiavi, condannando comunque quasta istituzione. Facendo un balzo temporale al 1462 – inizio della tratta degli schiavi – si ordina ai vescovi di punire con censure ecclesiastiche chi pratica lo schiavismo. Nel 1537 papa Paolo III – in linea con le tesi del domenicano Francisco de Vitoria, autore della Relectio de Indis (1532), in cui sostenne che le popolazioni amerinde godessero del diritto nativo alla libertà – emetterà la bolla Sublimis Deus. In essa si affermava il principio che gli indigeni del Nuovo Mondo, esseri razionali, hanno diritto alla libertà e alla proprietà. Da allora bolle e pronunciamenti pontifici condanneranno l’istituzione praticata nelle colonie sia dai cattolici sia dai protestanti.
Comunque sia, la situazione continuò a essere alquanto confusa. Nel XVII e XVIII secolo alcuni missionari cappuccini e gesuiti ebbero degli schiavi, e i confratelli, spesso del medesimo ordine, li denunciarono a Propaganda Fide, la Congregazione per l’evangelizzazione dei popoli.
Nel periodo della Guerra di Secessione americana, Pio IX pregò il governo CSA “affinché si aprisse progressivamente all’emancipazione della schiavitù”, ma non prese posizione sullo schiavismo e si disse contrario all’emancipazione immediata,
Contestualmente i missionari del XIX secolo, umanamente vicini agli schiavi, come il vescovo Daniele Comboni e il cardinal Charles-Martial Allemand Lavigerie, si impegneranno per la loro liberazione. Giova ricordare che le grandi potenze europee, Francia e Gran Bretagna, abrogheranno la schiavitù, nel 1802 la prima e nel 1833 la seconda. Il Codice di diritto canonico del 1917 punisce lo schiavismo includendolo nei delitti “contro la vita, la libertà, la proprietà e i buoni costumi”.
Nei secoli, con le dichiarazioni del Magistero, gli innumerevoli esempi di carità missionaria e il volontariato cattolico, la Chiesa si è affrancata dalla linea diplomatica per assumere una posizione netta sulla schiavitù. La mentalità dei tempi permeava l’umanità e anche la Chiesa; ma l’esortazione di San Paolo a Filemone, a cui abbiamo fatto riferimento, aveva gettato le fondamenta per un futuro ripensamento.
L’esito della guerra di secessione americana, al netto dell’uso politico di Lincoln, portò almeno sulla carta l’abolizione della schiavitù come istituzione, poiché la sua scomparsa stava seguendo il percorso storico di un’evoluzione antropologica ormai ineluttabile.
Ultimi tentativi diplomatici dei Confederati
Tornando a noi, nel novembre del 1863 fu inviato a Roma il diplomatico dei CSA, Ambrose Dudley Mann, ricevuto dal segretario di Stato Pontificio cardinale Antonelli e dallo stesso pontefice. Mann lamentò il fatto che l’Unione stesse arruolando truppe irregolari in Europa. In effetti gli inglesi avevano consentito a Lincoln di reclutare circa 800.000 uomini. Molte reclute erano irlandesi e cattoliche, e i Confederati auspicavano che il papa intervenisse, convinti che senza quell’afflusso di uomini il Sud avrebbe vinto e la guerra sarebbe finita. L’interlocuzione romana ebbe almeno un effetto utile: a loro volta le alte sfere nordiste mossero le loro pedine. William Henry Seward, segretario di Stato dell’Unione strappò, al “cerchiobottista” cardinal Antonelli l’impegno che i cattolici residenti nel Nord non avrebbero partecipato alla guerra.
Nel 1863, dopo uno scambio epistolare tra il papa e Jefferson, il governo CSA scambiò la prosa diplomatica degli interlocutori vaticani per l’adesione alla causa del Sud. L’equivoco nacque dal tono amichevole e causò un incidente diplomatico tra l’Unione e la Santa Sede. Pio IX si era espresso in questo modo: “All’illustre e onorabile Jefferson Davis, Presidente degli Stati Confederati d’America”. Ai nordisti l’intestazione sembrò un riconoscimento, di fatto, dei sudisti. Il cardinal Antonelli dovette precisare che il papa “in nessun modo intendeva riconoscere ufficialmente i Confederati”.
L’anno dopo tornò alla carica il diplomatico confederato della Virginia James T. Soutter, ma il papa (scottato) non si sbilanciò a favore di nessuna delle due parti. Se la Santa Sede esitava, la stampa cattolica – come la rivista dei gesuiti “Civiltà Cattolica” – appoggiava velatamente la causa confederata. “L’Osservatore Romano”, pur essendo l’organo della Santa Sede, pubblicò l’articolo in tre puntate Le Considerazioni di un cattolico del Kentucky sulla guerra civile americana, scritto (ma lo si scoprirà molto tempo dopo) dal vescovo cattolico di Louisville monsignor Martin J Spalding. In esso, sfatando i luoghi comuni diffusi nel Nord, riporterà il conflitto alla sua realtà: “Una causa perorata da una minoranza di predicatori protestanti presbiteriani, mentre la gran parte dei bianchi restavano animati da pregiudizio razziale, tanto quanto quelli del Sud”.
Sempre nel 1864, fu inviato a Roma l’arcivescovo di Charleston (South Carolina), Patrick Neeson Lynch. Irlandese di nascita, appoggiò la causa del Sud in contrasto con l’arcivescovo di New York John Joseph Huges. Ricevuto come dignitario vaticano e non come rappresentante dei CSA, incontrò il cardinal Antonelli e papa Pio IX, senza ottenere alcun risultato.
Le missioni in Vaticano risultarono un insuccesso, sia per l’inesperienza della diplomazia confederata, sia per l’immane compito da affrontare. Realisticamente, se anche il papa avesse riconosciuto i CSA, ben poco sarebbe cambiato per le alleanze europee e la guerra. Il diniego delle potenze europee, Francia, Gran Bretagna, Spagna, oltre alla Santa Sede, fu il riflesso all’andamento del conflitto: se la Confederazione avesse vinto, molto probabilmente le cose avrebbero preso un’altra piega.
A fine conflitto i contatti tra Jefferson e Pio IX non cessarono, nonostante quest’ultimo continuasse a evitare qualsiasi riconoscimento ai Confederati.
Nel 1865, dopo la resa del Sud, l’ex presidente dei CSA fu imprigionato per due anni e poi rilasciato solo dietro pagamento di una cauzione. Durante la prigionia, nel dicembre 1866, Pio IX inviò a Jefferson Davis una propria fotografia recante sul retro la firma autografa e frasi prese dalla Bibbia.